Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Makbyel aveva appena 17 giorni quando è stato salvato in mare, a fine dicembre, dalla Ocean Viking, la nave umanitaria di Sos Méditerranée. Appena nato, metà della sua breve vita l’ha passata su un barchino in mare con altre 113 persone in attesa di un soccorso. Per questo, una volta al sicuro sul ponte della nave, la madre ha deciso di dargli come secondo nome “Sos”. Makbyel Sos e gli altri naufraghi hanno saputo che avrebbero sbarcato in un porto sicuro, a Trapani, la notte di Natale. Nelle stesse ore nel Mar Egeo si consumavano due terribili naufragi: il bilancio provvisorio è di 27 vittime e 25 dispersi. Scomparsi in fondo al mare e nel silenzio generale nell’anno in cui l’immigrazione non è più il tema caldo, al centro del dibattito pubblico e politico. Così neanche le vittime del mare hanno dignità di notizia. Ma i numeri sono tutt’altro che irrisori e parlano di almeno 1600 morti nel 2021, sulla rotta più pericolosa al mondo, quella del Mediterraneo.
Complice la pandemia da coronavirus che ha monopolizzato il mondo dell’ informazione, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Carta di Roma “Notizie ai margini”, nel 2021 sono 660 gli articoli in prima pagina dedicati al tema, il 21 per cento in meno rispetto al 2020, anno in cui già si registrava già una flessione dell’attenzione nell’agenda dei media. Il mese con maggiori notizie dedicate è stato agosto con la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan e la ripresa degli sbarchi verso l’Italia, che a fine 2021 si attestano a quota 64mila. “Le notizie che in questi anni hanno catalizzato l’attenzione, ispirato campagne elettorali, condizionato le politiche europee, nutrito l‘odio di molti, portato la paura nelle nostre case, nel 2021 sono rimaste prevalentemente lì, in quello spazio un po’ indefinito a due passi dall’indifferenza. Eppure quelle notizie ci sarebbero ancora ma invece restano ai margini e suona davvero strano” – sottolinea Valerio Cataldi, presidente di Carta di Roma.
In questo contesto di marginalità sono passati sotto silenzio anche alcuni attacchi al diritto d’asilo all’interno degli Stati europei per gestire i flussi alle frontiere. Il caso più raccontato mediaticamente è stato quello della crisi diplomatica al confine tra Polonia e Bielorussia. Il governo Lukashenko, dopo aver fatto arrivare in aereo migliaia di profughi (per lo più curdi e afgani) li ha spinti verso il confine polacco. Per settimane i due stati hanno dato vita a un vero e proprio braccio di ferro sulla pelle delle persone. Intanto ai profughi era impedito di chiedere protezione nei paesi europei. La commissione Ue per risolvere la situazione ha elaborato una proposta straordinaria di sei mesi che prevede la sospensione di alcune regole su asilo per i tre paesi di confine: Polonia, Lettonia e Lituania. La proposta prevede una semplificazione dei rimpatri e un limite di tempo più lungo per registrare le domande di asilo (da dieci giorni a 4 settimane). Non solo, ma la proposta apre anche alla possibilità di trattenere temporaneamente i richiedenti asilo. Una deroga ai principi che regolano il diritto d’asilo che è stata ampiamente criticata dai giuristi italiani e internazionali. Ma non è l’unica violazione.
Secondo il report “Human dignity lost at the EU’s borders”, elaborato dal Danish refugees Council e alcune agenzie partner (comprese in Italia Asgi e Diaconia Valdese) per tutto il 2021 le regole internazionali sulla protezione sono state sistematicamente violate in diverse aree dell’Ue. In particolare, da gennaio 2021, le organizzazioni hanno incontrato 11.901 persone che hanno denunciato respingimenti alle frontiere interne e esterne dell’Unione Europea. Il 32% dei respingimenti riguarda persone provenienti dall’Afghanistan, molte delle quali hanno visto negato il diritto di chiedere asilo (oltre il 60%). Le temperature invernali hanno contribuito al deterioramento delle condizioni umanitarie : oltre a veder negato il diritto d’asilo, le persone non hanno accesso a un riparo per la notte, vestiti caldi, cibo a sufficienza.
Tra i principi rimessi in discussione nel corso del 2021 anche quelli previsti dal trattato di Schengen. Alcuni paesi del nord Europa (tra cui Francia e Germania) hanno chiesto di poter reintrodurre i controlli alle frontiere interne dell’Unione europea per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari” (gli spostamenti dei migranti da uno stato all’altro dell’Unione). La Commissione Ue, anche in questo caso ha approvato una proposta che lo prevede in alcuni casi eccezionali. Il Paese membro dovrà “giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l’impatto sulla libertà di circolazione” delle persone.
Intanto guardando all’andamento della mobilità internazionale i numeri dicono che seppure siano in aumento le persone in fuga nel mondo, in Europa diminuiscono sia gli arrivi irregolari (-12 per cento) che i richiedenti asilo (crollati di ben un terzo). Il dato è contenuto nel Rapporto asilo 2021 della Fondazione Migrantes. “La pandemia di Covid-19 ha reso ancora più gravoso qualsiasi motivo, qualsiasi spinta a lasciare la propria casa, la propria terra. Dai conflitti alle persecuzioni, alla fame, all’accesso alle cure mediche fino alla possibilità di frequentare una scuola, il Covid-19 ha inasprito il divario fra una parte di mondo che vive in pace, si sta curando, tutelando e sopravvivendo e un’altra che soccombe, schiacciata da una disparità crudele – si legge nel testo -. Ma almeno in tutto il 2020, l’Italia e l’Europa hanno rappresentato un’eccezione in controtendenza rispetto alla situazione globale: mentre nel mondo il numero delle persone in fuga continuava ad aumentare, fino a una stima di 82,4 milioni, nel nostro continente si sono registrati meno arrivi “irregolari” di rifugiati e migranti e meno richiedenti asilo”.
In particolare, in Italia (dati Istat) a inizio 2021, con poco più di 5 milioni di residenti, la popolazione straniera dopo vent’anni di crescita ininterrotta si è ridimensionata e non riesce più a compensare “l’inesorabile inverno demografico italiano” come lo definisce il Rapporto italiani nel mondo 2021 della Fondazione Migrantes. Ormai il saldo tra entrate e uscite dal nostro paese è negativo: sono più i cittadini italiani che decidono di andare all’estero a vivere e lavorare che i migranti che arrivano nel nostro paese per stabilirsi. “L’Italia – spiega Fondazione Migrantes – è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona tramonta inesorabilmente e la popolazione immigrata, complice la crisi economica, la pandemia, i divari territoriali e l’impossibilità di entrare legalmente, non cresce più”. Tuttavia c’è un’Italia che cresce ed è “quella che risiede strutturalmente all’estero”. Nell’ultimo anno l’aumento della popolazione iscritta all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) è stato del 3% (il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni e ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del rapporto).
Foto in evidenza di Suzanne de Carrasco / Sea-Watch
Su Nigrizia
Sono oltre 40 milioni gli africani che vivono lontani dal loro paese d’origine.
Circa 21 milioni risiedono in un altro paese africano. Dato quasi certamente sottostimato visto che molti stati africani non tengono alcuna traccia delle migrazioni. Un dato che segna comunque un aumento significativo rispetto al 2015, quando si stimava che fossero circa 18 milioni gli africani emigrati in un paese del continente.
Le principali aree di destinazione di questa migrazione interafricana sono le realtà urbane di Nigeria, Sudafrica ed Egitto. Spostamenti che riflettono il dinamismo economico dei luoghi di arrivo.
Tra i migranti africani che si sono spostati, invece, fuori dal continente, circa 11 milioni vivono in Europa, quasi 5 milioni in Medioriente e più di 3 milioni in Nordamerica.
È la fotografia dell’African migration trends to watch in 2022 pubblicata dal sito africacenter.org che ha tratto la maggior parte dei dati dal World migration report 2022.
Nel 2020, l’Egitto era il paese che aveva il maggior numero di persone residenti all’estero, seguito da Marocco, Sud Sudan, Sudan, Somalia e Algeria.
Il Sudafrica rimane il paese di destinazione più significativo in Africa, con circa 2,9 milioni di migranti internazionali residenti nel paese. Tuttavia, è un dato in calo di oltre il 9% rispetto al 2015, quando il paese aveva oltre 3,2 milioni di migranti internazionali. Altri paesi con un’alta percentuale di popolazione immigrata, in proporzione alla loro popolazione totale, ma che non rientrano tra i primi 20, sono il Gabon (19%), la Guinea Equatoriale (16%), le Seicelle (13%) e la Libia (12%).
Il continente africano sta affrontando molte crisi climatiche: dalla siccità alle inondazioni, dai cicloni alle pandemie. La Banca mondiale prevede che ci saranno 86 milioni di migranti per il cambiamento climatico in Africa entro il 2050. Solo nell’ultimo anno, nell’area subsahariana le persone costrette a scappare sono state circa sei milioni a causa di conflitti e violenze, e quattro milioni a causa di disastri ambientali come riportato nel Global Trend Internally displacement 2021, elaborato dall’IDMC (Internal Displacement monitoring centre). Nello specifico, sempre secondo i dati dell’IDMC, i paesi più colpiti dalla crisi migratoria del 2020 in Africa sono stati la Repubblica democratica del Congo, i paesi del Corno d’Africa, la Nigeria e il Burkina Faso.
Molti dei 18 milioni di lavoratori migranti stagionali in Africa potrebbero veder scomparire i loro posti di lavoro nell’agricoltura, nelle miniere e nella pesca, aumentando le prospettive di una migrazione permanente alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Gli impatti ambientali ha condizionato la vita economica del 30% degli africani dell’area occidentale e centrale e degli etiopici nel Corno d’Africa.
La chiusura delle frontiere legata al Covid-19 ha fatto sì che decine di migliaia di migranti siano rimasti bloccati in tutta l’Africa. Molti hanno perso il lavoro, altri la casa. Anche dopo la riapertura delle frontiere, le continue restrizioni di viaggio e sanitarie hanno influito sulla mobilità dei migranti regolari e irregolari.
In Nordafrica, quando i passaggi dalla Libia all’Europa sono diventati più difficili, la migrazione irregolare verso il Vecchio Continente si è spostata più a ovest, verso il Marocco e le isole Canarie. Tra gennaio e metà dicembre 2021 sono giunti via mare in Spagna (nella penisola, negli arcipelaghi delle Isole Baleari e nelle Canarie) un totale di 37.385 migranti. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha stimato il 2021 l’anno più mortale sulla rotta migratoria verso la Spagna, con almeno 1.025 morti.
Decine di migliaia di migranti negli stati del Golfo provenienti dall’Etiopia sono stati detenuti in prigioni affollate e insalubri e poi deportati.
Si stima che 32mila migranti africani siano rimasti bloccati nello Yemen, dopo aver tentato di raggiungere gli stati del Golfo. Alcuni di loro sono diventati vittime della tratta, costretti a lavorare in condizioni disumane per pagare i loro debiti oppure sono stati rapiti per ottenere un riscatto. Secondo l’Oim, da maggio 2020, 18.200 migranti hanno contattato dei contrabbandieri per essere riportati dallo Yemen al Corno d’Africa.
Ma un numero assai elevato sono gli africani che hanno lasciato le loro case per rifugiarsi in un posto sempre all’interno del loro paese. Lo sfollamento forzato ha raggiunto livelli record nell’ultimo decennio. L’Africa ospita attualmente il più alto numero di persone costrette a fuggire: quasi 36 milioni sulle oltre 84 milioni costrette alla fuga da conflitti, violenze, persecuzioni e cambiamenti climatici.
La maggior parte dei rifugiati e dei richiedenti asilo nel continente è ospitata nei paesi vicini all’interno della stessa regione. Il Sud Sudan è stato il paese di origine del maggior numero di rifugiati in Africa nel 2020 (2 milioni) e si colloca al quarto posto nel mondo dopo la Siria, il Venezuela e l’Afghanistan. La maggior parte dei sudsudanesi è accolta in paesi vicini come l’Uganda, che è lo stato che ospita il maggior numero di rifugiati (circa un milione e mezzo) in Africa e si colloca al quarto posto nel mondo dopo Turchia, Colombia e Pakistan. Altri grandi paesi africani che ospitano rifugiati nel 2020 sono stati il Sudan e l’Etiopia.
Foto in evidenza di Nigrizia
Su Morning FUTURE
«La crisi Covid finora ha colpito soprattutto i lavoratori precari e le filiere caratterizzate da ampio utilizzo di lavoro stagionale (es. turismo, agricoltura). Per questo, gli stranieri hanno subito una perdita del tasso di occupazione (-3,7 punti) molto più forte rispetto a quella degli Italiani (-0,6 punti). Nonostante questo, gli stranieri producono il 9% del PIL e risultano determinanti in molti settori».
L’ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa sull’economia dell’immigrazione presentato alla Camera dei deputati, contribuisce a sfatare molti miti sugli stranieri nel nostro Paese ed evidenzia come la crisi legata alla pandemia abbia colpito in particolare i lavoratori immigrati, soprattutto le donne. Per la prima volta, dopo molti anni, i dati relativi all’economia dell’immigrazione sono negativi, accompagnati anche da un calo dei permessi di soggiorno per lavoro. Mentre cresce però la quota di imprenditori stranieri.
«Se i posti di lavoro persi nel 2020 sono stati 456mila e un terzo ha riguardato lavoratori stranieri, la maggior parte erano donne».
«Il dato sui nuovi imprenditori racconta, da un lato, lo stato in cui si sono trovati molti lavoratori, costretti a mettersi in proprio per ragioni di necessità, e dall’altro l’apice di una crescita iniziata già da tempo, che quindi evidenzia sicuramente uno spirito diverso da parte degli stranieri nel nostro Paese», spiega Enrico Di Pasquale, Ricercatore della Fondazione Moressa.
A destare certamente il maggior interesse è il calo degli occupati: per la prima volta il tasso di occupazione degli stranieri (57,3 per cento) è inferiore a quello degli italiani (58,2 per cento). A livello territoriale, si nota come la percentuale sia diminuita maggiormente nel Nord Ovest e nelle Isole, mentre nel Nord Est si è registrata la più alta diminuzione nel tasso di occupazione degli italiani (-1,3 punti).
«La ragione è semplice: gli stranieri sono stati quelli che hanno risentito di più della pandemia, in quanto le loro occupazioni non erano tutelate dal blocco licenziamenti», sottolinea Di Pasquale. «Ovviamente non c’è solo questo. Notiamo come gli occupati italiani siano diminuiti dell’1,4 per cento, gli stranieri del 6,4: hanno certamente pagato anche la concentrazione maggiore nei settori più esposti alla crisi, come la ristorazione».
A risentirne sono state soprattutto le donne. «Se i posti di lavoro persi nel 2020 sono stati 456mila e un terzo ha riguardato lavoratori stranieri, la maggior parte erano donne, coloro che sono ancora meno tutelate rispetto agli uomini», rimarca Di Pasquale.
Inaspettato, invece, quanto emerge nel settore dell’imprenditoria, con la crisi legata all’epidemia di Covid che non ha fermato l’espansione di imprese a conduzione straniera. Nel 2020 gli imprenditori nati all’estero sono stati 740mila, pari al 9,8 per cento del totale e in aumento del 2,3 per cento rispetto al 2019 e addirittura del 29,3 per cento rispetto al 2011. Mentre, nello stesso periodo di tempo, gli imprenditori nati in Italia hanno registrato un calo dell’8,6 per cento.
Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, ma la crescita più significativa si è registrata tra i nati in Bangladesh, Pakistan e Nigeria. Il settore più interessato da questa crescita è stato l’edilizia, dove gli stranieri sono il 16 per cento degli imprenditori del settore. «Questa però è l’unica notizia positiva nel mondo del lavoro, visto che gli altri dati non sono certamente positivi», evidenzia Di Pasquale.
Il problema è legato anche al fatto che, sempre nel 2020, si è toccato il minimo storico di appena 10mila permessi per motivi lavorativi su 106mila ingressi, la maggior parte dei quali dovuti a motivi familiari.
«Il valore aggiunto prodotto dagli occupati stranieri nel 2020, secondo i dati del rapporto, è stato pari a 134,4 miliardi di euro».
«Il dato è certamente clamoroso e può portare effetti negativi soprattutto in alcuni settori come quello agricolo, dove la manovalanza straniera è fondamentale», sottolinea Di Pasquale. Eppure, c’è anche un altro dato importante di cui tenere conto. «Nei cinque milioni di stranieri presenti non dobbiamo dimenticare che ogni anno quasi 100mila persone diventano cittadini italiani, perciò, negli ultimi dieci anni, sono quasi un milione gli stranieri diventati italiani presenti sul territorio», rimarca Di Pasquale.
Nonostante la crisi, però, gli immigrati restano centrali nell’economia italiana. Il valore aggiunto prodotto dagli occupati stranieri nel 2020, secondo i dati del rapporto, è stato pari a 134,4 miliardi di euro, il 9 per cento del PIL italiano, con un’incidenza maggiore del settore agricolo (17,9 per cento) e delle costruzioni (17,6 per cento).
I contribuenti stranieri in Italia sono attualmente 2,3 milioni e nel 2020 hanno dichiarato redditi per 30,3 miliardi e versato Irpef per circa 4 miliardi. Sommando le altre voci di entrata per le casse pubbliche (Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali e sociali), si ottiene un valore di 28,1 miliardi. Mentre l’impatto per la spesa pubblica si aggira sui 27,5 miliardi.
Per questo, conclude il rapporto della Fondazione Moressa, il saldo resta positivo, pari a 600 milioni. «Gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, le voci principali della spesa pubblica. Già da tempo però si comincia a notare come la curva della natalità sia in rapida decrescita», sostiene Di Pasquale.
Nel 2005 l’incidenza degli stranieri sulla popolazione era del 3,8%, oggi è all’8,2% e supera la media europea che si attesta al 6,7%. E se pure il saldo migratorio in Italia risulta ancora positivo, soprattutto grazie ai ricongiungimenti familiari, i livelli però sono più bassi rispetto al passato. Un fattore di cui l’economia di un Paese che invecchia, come l’Italia, dovrà tenere conto.
Immagine in evidenza di Vita
Di Luca Rondi su Altreconomia
I respingimenti illegali al confine stanno diventando sempre di più un “normale” strumento di gestione del fenomeno migratorio nell’Unione europea. Lo dimostrano i dati contenuti nel nuovo rapporto pubblicato a metà dicembre 2021 dal Protecting rights at borders (Prab) con riferimento alla Bosnia ed Erzegovina: nonostante siano state appena 10.593 le persone in transito nel Paese tra gennaio e novembre 2021 – in diminuzione rispetto alle 29.488 del 2019 -, nello stesso periodo il numero di pushback registrati al confine con la Croazia nel 2021 sono stati 8.812. Ovvero il 74% degli 11.901 totali. “Stanno diventando accettabili e in una certa misura queste pratiche ricevono approvazione da parti degli Stati membri dell’Unione europea” si legge nel documento frutto del lavoro di nove organizzazioni (tra queste, Danish Refugee Council, Asgi, Diaconia Valdese, Hungarian Helsinki Committee, Humanitarian Center for Integration and Tolerance, Macedonian Young Lawyers Association, Greek Council for Refugees) che tutelano i diritti umani in sei diversi Paesi e che hanno fornito i dati aggiornati registrati tra luglio e novembre 2021.
Nel periodo dell’analisi sono 6.336 i migranti e richiedenti asilo che dichiarano di aver subito un respingimento illegittimo. La punta dell’iceberg secondo i curatori del report. La maggior parte, come detto, al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina (4.905) e dalla Serbia che con mille casi registrati lungo i suoi confini conferma il cambiamento delle rotte che le persone in transito seguono nei Balcani.
Avvalorano questa lettura anche le statistiche fornite da Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Un dato su tutti è significativo. Nel 2015 in Albania venivano registrati meno di 2mila ingressi irregolari, nel 2021 questi sono diventati 12mila. Secondo la polizia albanese, il Paese ha visto un aumento del numero di persone che attraversa il Kosovo nella speranza di raggiungere la Serbia e da lì l’Unione europea attraverso due possibilità: la Romania o l’Ungheria. Secondo le testimonianze raccolte dal Prab, il 90% degli ingressi sul territorio romeno avviene a piedi lungo il confine con i villaggi Majdan e Rabe. “Una volta identificati dalla polizia, gli intervistati riferiscono molto spesso di essere stati picchiati, minacciati, di essersi visti negare l’accesso all’asilo e di essere stati espulsi verso la Serbia” si legge nel report, in cui vengono non a caso segnalati 592 casi di pushback illegittimi al confine serbo-romeno. Allo stesso modo, in Ungheria, dove la maggioranza fa ingresso nel Paese a piedi e viene espulsa verso il territorio serbo in numeri considerevoli: le statistiche ufficiali della polizia ungherese parlano di 11.392 respingimenti nel mese di settembre, circa 10mila in ottobre e 9mila in novembre.
Per quanto riguarda le persone coinvolte nei respingimenti, il Prab sottolinea l’elevato numero di persone vulnerabili che subiscono le pratiche illegittime – il 18% dei casi registrati riguarda famiglie con minori – e anche il coinvolgimento di chi avrebbe diritto ad ottenere l’asilo. La seconda nazionalità più coinvolta nelle pratiche di respingimento – dopo quella pakistana (2.220 casi) – è quella afghana (2.027): la violenza sui confini non ha risparmiato neanche le persone in fuga da Kabul che cercano protezione in Europa. Tra agosto e novembre 2021 un totale di 1.696 afghani dichiarano di aver subito un respingimento dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina, comprese 61 persone che hanno subito un respingimento a catena dalla Slovenia, attraverso la Croazia alla Bosnia-Erzegovina. Un numero che include 65 minori stranieri non accompagnati (Msna) e 154 famiglie con 163 bambini. “Le promesse di assistere coloro che affrontano una terribile situazione umanitaria in Afghanistan dovrebbero andare di pari passo di pari passo con la fornitura di un effettivo accesso alla protezione per coloro che sono bloccati alle porte dell’Ue – si legge nel report -. Indipendentemente dal fatto che le persone provenienti dall’Afghanistan siano entrate nei Paesi dell’Unione europea irregolarmente, l’accesso alle procedure di asilo individuale e alla protezione deve essere garantito”.
La situazione descritta dimostra come la Croazia sia ancora lontana dal garantire una gestione dei confini rispettosa dei diritti fondamentali delle persone che vi transitano. Per fermare l’ingresso del Paese nell’area Schenghen non è bastata però né la condanna della Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti del ministero dell’Interno croato per la morte della piccola Madina, né la recente pubblicazione del report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che smaschera le sistematiche violenze lungo i confini croati. Il 9 dicembre 2021 il Consiglio europeo ha dichiarato che il governo di Zagabria “soddisfa le condizioni necessarie per la piena acquisizione dell’acquis di Schenghen”. In attesa del parere, non vincolante, del Parlamento europeo e degli altri Stati membri rispetto a tale decisione preoccupano non solo le denunce ma anche l’efficacia del meccanismo di monitoraggio dei diritti umani alle frontiere previsto dalle autorità croate. La pubblicazione del primo rapporto di questo organo – fortemente criticato per composizione e modalità operative (ne avevamo parlato qui) – ha positivamente stupito le associazioni impegnate sul campo evidenziando che la polizia effettua respingimenti, impedisce alle persone di fare domanda d’asilo e sottolineando che l’onere della prova in relazione all’ammissibilità delle persone sul territorio spetta allo Stato. Ma in breve tempo la versione pubblicata è stata modificata evitando qualsiasi riferimento a violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. “I cambiamenti di linguaggio del rapporto aggiornato sono eccezionalmente problematici – si legge nel report del Prab -. Non solo l’indipendenza del rapporto e del meccanismo viene messa in discussione, ma serve sottolineare come meccanismi inadeguati possano essere usati per mascherare le violazioni dei diritti umani”.
Il Prab cita anche l’Italia con riferimento alle frontiere interne. Su Ventimiglia si segnala una mancanza di assistenza di base e una risposta umanitaria “estremamente carente”. Nel report si segnalano inoltre “rischi specifici per la sicurezza e il benessere mentale tra i migranti vulnerabili come minori, donne che viaggiano da sole e donne con bambini che sono state trattenute insieme a uomini soli, aumentando i rischi di violenza di genere”. Sul confine italo-francese settentrionale, invece, si segnalano soprattutto persone provenienti da Afghanistan, Pakistan e Iran che denunciano casi di detenzione arbitraria per diverse ore da parte delle autorità francesi così come maltrattamenti fisici e verbali. “Inoltre, la modifica dei trasporti pubblici ha lasciato le persone in movimento bloccate a Oulx per diversi giorni nel Rifugio Fraternità Massi, causando sovraffollamento, mancanza di spazio e tensioni”.
Resta alta l’attenzione anche sulla frontiera orientale italo-slovena. Le riammissioni informali attive restano formalmente sospese ma sopravvivono i pattugliamenti misti al confine di cui abbiamo parlato anche su Altreconomia. Non solo. Il Prabsegnala 10 persone respinte a catena verso la Bosnia ed Erzegovina attraverso la Croazia e la Slovenia. Un caso riportato anche dal Border violence monitoring network (Bvmn) – una rete di Ong che mensilmente aggiorna il numero di respingimenti di migranti e richiedenti asilo lungo i confini europei – nel report di novembre che riporta la testimonianza di un gruppo di cittadini pakistani che il 5 novembre 2021 sarebbe stato prima trattenuto nelle vicinanze di Trieste e poi respinto a catena fino a Bihać. Una situazione da monitorare anche in considerazione della dichiarata volontà del prefetto di Trieste di riprendere le pratiche delle riammissioni.
“L’esistenza di casi, non più rari, in cui persone con uno status legale come gli interpreti o altri vengono respinte – conclude il Prab – riflette ulteriormente la normalizzazione dei respingimenti come strumento di gestione delle frontiere. Mentre queste pratiche devono semplicemente smettere di esistere, l’installazione di un efficace e indipendente meccanismo di monitoraggio, che non sia una foglia di fico, può essere uno strumento per ritenere i colpevoli responsabili e garantire accesso alla giustizia alle vittime”.
Foto in evidenza di Diaconia Valdese, tratto dal report Prab
Su Osservatorio DIRITTI
Le giornate mondiali, al di là del loro oggetto specifico, sono un’occasione per fare il punto della situazione. In occasione di questa Giornata internazionale dei migranti 2021, il dato complessivo ci dice che il 96,4% delle persone continua a vivere dove è nato, mentre a spostarsi è il 3,6%, circa una persona su trenta, come sottolinea l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nell’ultimo rapporto mondiale sulle migrazioni (World Migration Report), relativo alla situazione dei migranti nel 2020.
In dati diffuso rivelano, più nel dettaglio, che sono 281 milioni nel mondo le persone che vivono in un Paese diverso da quello di nascita, tre volte di più che nel 1970, quando la popolazione totale era circa la metà di quella odierna.
Allo stesso tempo, ciò ha significato anche un aumento consistente delle rimesse (il denaro inviato nei Paesi di origine): dai 126 miliardi di dollari nel 2000, ai 702 miliardi del 2020. Un valore inferiore del 2,4% rispetto all’anno precedente, a causa anche del Covid-19.
La pandemia ha influito sulla libertà di movimento. Da un lato chiusure delle frontiere, isolamento e restrizioni hanno reso più difficile spostarsi: secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel 2020 11,2 milioni di persone sono state costrette a lasciare per la prima volta il proprio Paese (mentre sono 82,4 milioni in totale). Si tratta di un milione e mezzo di persone in meno rispetto a quanto prospettato prima della pandemia (la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è di 2 milioni in meno).
Allo stesso tempo il Covid-19 ha reso più difficile, a chi avrebbe voluto e potuto farlo, tornare nella terra d’origine. Sempre secondo l’Unhcr, il loro numero continua a diminuire: sono stati 251 mila, il terzo valore più basso registrato negli ultimi dieci anni.
L’emergenza sanitaria ha influito negativamente anche sulle procedure di accoglienza e riconoscimento: sfollati, rifugiati e richiedenti asilo sono stati in molti casi bloccati alle frontiere o nei centri di accoglienza.
Le condizioni di vita dei lavoratori migranti, in particolare di quelli attivi nel settore informale e nell’assistenza sanitaria, sono peggiorate anche a causa delle carenze dei sistemi sanitari e di welfare: lo evidenzia il Rapporto 2020-2021 di Amnesty International, relativo a 149 Stati e dedicato anche alla violenza di genere e alla repressione del dissenso. Ad essere colpiti maggiormente, scrive l’organizzazione, sono stati i gruppi più vulnerabili, tra cui donne e rifugiati, tradizionalmente discriminati dalle politiche dei leader mondiali.
Non bisogna dimenticare però gli effetti sulle migrazioni di altre condizioni, già note ma non per questo meno influenti. Come le dinamiche geopolitiche: mentre la guerra costringe molti ad abbandonare i propri territori, le tensioni fra Paesi mettono in pericolo la cooperazione internazionale, scrive ancora l’Unhcr.
Anche gli eventi climatici estremi, i disastri e le trasformazioni ambientali continuano a colpire milioni di persone: in particolare Africa subsahariana e India sono vittime di una siccità prolungata, mentre ci sono state tempeste tropicali devastanti nei Caraibi, in Africa meridionale e nel Pacifico, oltre a incendi catastrofici in California e Australia, riporta ancora l’organizzazione in difesa dei diritti umani.
Osservatorio Diritti ha raccontato a più riprese quello che sta avvenendo lungo i principali scenari relativi alle migrazioni. Ultimi, in ordine tempo, sono gli approfondimenti relativi alla situazione alla frontiera fra Polonia e Bielorussia, dove migliaia di persone sono costrette a rimanere accampate al confine a temperature sotto lo zero, e la Rotta balcanica (con i migranti che restano bloccati, per esempio, in Bosnia cercando di evitare la violenza della polizia croata).
Ma le situazioni critiche sono un po’ in ogni parte del mondo, dall’Italia(leggi anche I centri di permanenza per il rimpatrio sono «i buchi neri del nostro Paese») all’America Latina (leggi anche Messico, migranti bloccati a Tapachula: nessuno deve arrivare negli Usa), ai massicci movimenti interni all’Africa o in Asia, giusto per fare altri esempi.
Sempre in Europa, secondo il Progetto sui migranti scomparsi dell’Oim, negli ultimi due anni il numero di morti e dispersi nel tentativo di raggiungere la Spagna è quasi quintuplicato, passando da 202 nel 2019 a 937 nel 2021. In questo senso si può parlare di «ritorno della rotta Atlantica».
Il fenomeno è dovuto a una serie di fattori quali, tra l’altro, «le variazioni in termini di permeabilità delle diverse rotte, soprattutto del Mediterraneo occidentale dalla seconda metà del 2019», all’«allentamento degli sforzi di cooperazione nel controllo della costa dell’Africa occidentale» e all’«aumento dell’instabilità politica ed economica e la situazione di conflitto presente in alcuni Paesi di origine dell’emigrazione subsahariana», come scritto nel Dossier Statistico Immigrazione 2021 del Centro Studi e Ricerche Idos (in collaborazione con il Centro Studi Confronti e l’Istituto di Studi Politici San Pio V).
Sempre l’Oim, a morire nel 2021 nel Mediterrano sono state 1.665 persone (quasi 23 mila dal 2014), 121 quelle in viaggio verso altri Paesi europei, 1.126 verso il continente americano, 1.254 verso l’Africa, 89 verso l’Asia occidentale e 249 verso il resto di questo Continente.
Andando a vedere cosa accade nel continente americano, gli Stati Uniti sono una meta tradizionale di coloro che fuggono da Paesi dell’America Latina in crisi economica e politica. Un recente e toccante reportage del National Geographic, testimonia il viaggio degli appartenenti alla comunità Lgbt in cerca di protezione e riporta i respingimenti al confine con il Messico. Il racconto mostra anche che fugge dal Venezuela verso la Bolivia e i cittadini del Guatemala e del Salvador in fuga dalla fame.
Anche l’Unicef il 7 dicembre ha lanciato un’appello per richiamare l’attenzione sull’America Latina e i Caraibi: nel 2022 è previsto che saranno 3,5 milioni i bambini costretti a spostarsi dal proprio Paese, in aumento del 47% rispetto al 2021. Un numero del tutto inedito, ha dichiarato il direttore regionale, Jean Gough.
Le migrazioni, naturalmente, non riguardano soltanto gli spostamenti tra Stati diversi. «Stiamo assistendo a un paradosso mai visto prima nella storia umana», ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, António Vitorino. «Mentre miliardi di persone sono state messe in ginocchio dal Covid-19, altre decine di milioni sono state costrette a spostarsi all’interno del proprio stesso paese».
Secondo il Centro di monitoraggio delle migrazioni interne, un ente istituito nel 1998 dal Consiglio norvegese per i rifugiati, nel mondo sono 55 milioni gli sfollati interni, 48 dei quali a causa di conflitti e violenze e 7 in seguito a disastri. E 40.5 milioni di loro hanno subito questa condizione per la prima volta proprio nel 2020.
Guardando al nostro Paese, secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2021 il numero di persone arrivate sulle nostre coste dal Mediterraneo è circa raddoppiato rispetto all’anno precedente: 63.062 (il 23% dei quali dalla Tunisia), rispetto ai 32.919 del 2020, secondo i dati aggiornati al 14 dicembre 2021.
Lo stesso giorno la fondazione Migrantes (organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana) ha presentato il suo quinto rapporto su richiedenti asilo, rifugiati e migrazioni forzate. Nei primi undici mesi del 2021, a perdere la vita in mare mentre cercavano di raggiungere il nostro Paese sono state 1.559 persone (nel 2020 erano state 1.448).
Il rapporto registra anche un calo in tutto il continente europeo rispetto al 2019 sia degli arrivi “irregolari” di migranti e rifugiati (-12%) sia dei richiedenti asilo (417 mila persone, un terzo in meno).
La Giornata internazionale del Migrante è stata istituita nel 2000 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La scelta del 18 dicembre si deve al fatto che quello stesso giorno di dieci anni prima (1990) l’organismo aveva approvato la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, per prevenirne lo sfruttamento e stabilirne le condizioni minime di riconoscimento e accettazione a livello globale.
La Convenzione è il risultato dell’elaborazione di un apposito gruppo di lavoro istituito nel 1979 (con la Risoluzione 34/172). Entrata in vigore nel 2003, essa non è stata ancora ratificata dall’Italia.
Foto in evidenza di Kripos_NCIS su Osservatorio DIRITTI
Giovedì 16 dicembre, in occasione delle celebrazioni della Giornata Internazionale del Migrante 2021 (18 dicembre) l’OIM presenta a Roma il GLOBAL MIGRATION FILM FESTIVAL, iniziativa che quest’anno vede coinvolti più di 100 paesi in tutto il mondo.
Nel corso degli anni, il Global Migration Film Festival ha rappresentato un’occasione per presentare film e documentari che catturano le promesse e le sfide della migrazione, e i contributi che i migranti apportano alle loro nuove comunità.
L’obiettivo è quello di promuovere – attraverso il cinema – una discussione informata, approfondita e imparziale su uno dei più grandi fenomeni del nostro tempo.
Per saperne di più: https://www.iom.int/global-migration-film-festival
Quest’anno la serata si svolgerà a partire dalle 19.00 a Roma in via della Penitenza 34 presso il Centro Giovani Municipio I (Quartiere Trastevere).
Le proiezioni inizieranno alle ore 19:00, i cortometraggi saranno tutti in italiano.
L’ingresso è libero. È richiesto il super green pass.
Film in programmazione:
“Burner of ships” (20 min.)di Leonardo CampanerQuando i suoi genitori accolgono un giovane migrante nella loro casa di campagna, la quattordicenne Nausicaa si invaghisce del nuovo ospite.Guarda il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=SixAeUC9VjQ
“Palermo Sole Nero” (25 min.)di Joséphine JouannaisDennis e Ibra vivono a Palermo senza sapere per quanto tempo potranno restarci. Quando Ibra scompare, Dennis si mette a cercare il suo amico nella città sotto lo sguardo dei santi patroni.Guarda l’intervista con la regista: https://www.youtube.com/watch?v=sIpv3q3L5fc
“Ummi” (16 min.)di Niko AvgoustidiMohamed, un migrante di sei anni, si trova da solo in una spiaggia affollata dell’Egeo. Si nasconde dietro una roccia, osserva i turisti che fanno il bagno e aspetta il ritorno di sua madre. L’ha persa nel mare e ora ha bisogno di ritrovarla.Guarda il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=9eacGgdmAHE
“Sarà inoltre proiettata la presentazione del cortometraggio “Appunti sulla Migrazione” di Andrea Borgarello, un lavoro che – realizzato nell’ambito del progetto CinemArena – racconta storie di speranze, sogni rimasti tali, fallimenti e successi di chi vorrebbe partire verso l’Europa o di chi è tornato per ricostruirsi una vita nel proprio villaggio di origine nonostante le difficoltà.
Ospite sella serata sarà la giornalista Eleonora Camilli.
L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con il Med Film Festival, il festival dedicato alle cinematografie del Mediterraneo, e con il progetto CinemArena, iniziativa implementata dalla Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e dall’OIM.
Come funzionano le procedure di identificazione e categorizzazione dei migranti, rifugiati o richiedenti asilo che fanno ampio utilizzo di dati biometrici? Quali tutele dal punto di vista della privacy e del diritto vengono rispettate? Ad esplorare la fitta rete delle nuove tecnologie per il controllo delle frontiere è un lungo report realizzato da Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights dal titolo Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia.
Secondo la ricerca, nel momento in cui viene effettuata l’identificazione i migranti hanno ben poche possibilità di conoscere il percorso che faranno i loro dati personali e biometrici, nonché di “opporsi al peso che poi questo flusso di informazioni avrà sulla loro condizione in Italia e in tutta l’Unione Europea. Quest’ultima, infatti, promuove da alcuni anni la necessità di favorire l’identificazione dei migranti, stranieri e richiedenti asilo attraverso un massiccio utilizzo di tecnologie: a partire dal mare, pattugliato con navi e velivoli a pilotaggio remoto che scannerizzano i migranti in arrivo; fino all’approdo sulla terraferma, dove oltre all’imposizione dell’identificazione e del foto-segnalamento i migranti hanno rischiato di vedersi puntata addosso una videocamera intelligente”. Non solo, nel testo si parla anche di come lo stato italiano utilizzi la tecnologia del riconoscimento facciale già da alcuni anni, senza che organizzazioni indipendenti o professionisti possano controllare il suo operato. “Oltre alla mancata trasparenza degli algoritmi che lo fanno funzionare non sono disponibili informazioni chiare sul numero di persone effettivamente comprese all’interno del database che viene utilizzato proprio per realizzare le corrispondenze tra volti, AFIS (acronimo di Automated Fingerprint Identification System) – spiega l’Hermes center.
Secondo l’organizzazione negli ultimi anni si sta verificando una “datificazione della società” attraverso la raccolta indiscriminata di dati personali e l’estrazione di informazioni (e di valore). “Siamo convinti che vada messa in dubbio non solo la tecnologia digitale creata al presunto scopo di favorire il progresso o di dare una risposta oggettiva a fenomeni sociali complessi, ma anche il concetto di tecnologia come neutra e con pressoché simili ripercussioni su tutti gli individui della società – sottolineano nel report -. È importante a nostro parere che qualunque discorso sulla tecnologia racchiuda in sé una più ampia riflessione politica e sociologica, che cerchi di cogliere la differenza tra chi agisce la tecnologia e chi la subisce”.
In particolare, i dati biometrici raccolti al momento dello sbarco o dell’arrivo sul territorio nazionale sono inclusi in un database (AFIS) che contiene potenziali sospetti ed è utilizzato per ritrovare corrispondenze di volti e identità attraverso il sistema di riconoscimento facciale in uso alla polizia italiana, SARI. “Questa criminalizzazione avviene senza la possibilità che la società civile possa conoscere esattamente il numero di persone foto-segnalate per ogni categoria prevista dalla legge, e quindi in modo incontrollabile e opaco” sottolinea il report -. I migranti, rifugiati e richiedenti asilo effettuano un vero e proprio baratto dei loro dati personali e biometrici in cambio di accoglienza. Inoltre, anche se avessero la possibilità di fornire un consenso informato e potessero appieno comprendere il motivo del trattamento dei loro dati personali e biometrici, la situazione di vulnerabilità e di marginalizzazione nella quale si trovano non gli permetterebbe di opporsi o di chiedere modifiche così com’è invece possibile fare a qualsiasi cittadino italiano o europeo”. Nella pratica, dunque, la gestione e il controllo dei flussi migratori in Europa non passa più solo attraverso le politiche dei flussi o il mero controllo delle frontiere ma anche attraverso procedure automatizzate di monitoraggio. “La sperimentazione di tecnologie digitali in materia di migrazione è un fenomeno totalmente sui generis poiché migranti, stranieri e richiedenti asilo sono rappresentati come popolazioni da dover controllare, tracciare e sorvegliare in quanto al di fuori dei confini e dunque della legge – spiegano i ricercatori -. Non è previsto, come per tutti gli altri (cittadini o legalmente residenti all’interno dei confini statali e dell’UE), sia determinata una ragione specifica per la quale le persone in movimento debbano essere controllate poiché è la loro intrinseca situazione che le rende oggetto di tale sorveglianza. Di conseguenza la sperimentazione tecnologica si verifica in zone grigie, in cui la responsabilità dello stato e dei governi è ridimensionata grandemente per via dell’ambito in cui viene agita. Lo scopo principale dell’utilizzo di tecnologie avanzate come quelle biometriche è, da non dimenticare, quello di raccogliere dati e informazioni strettamente personali e uniche, operando un’attenta analisi per effettuare un controllo sui corpi che attraversano i confini e gli spazi”
Nel report sono contenute anche delle richieste esplicite al Governo italiano, in particolare relativamente alla gestione dei database che raccolgono dati biometrici di persone che appartengono a categorie vulnerabili come i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo, in modo tale che queste informazioni non vengano “diluite” tra quelle relative allo stato legale ad esempio di una persona che ha commesso qualsiasi reato penale. “Includere nello stesso database persone che hanno commesso furti o omicidi, persone che hanno un permesso di soggiorno, e chi è invece migrante o richiedente asilo rischia di minare i diritti fondamentali degli interessati – si legge nel testo -. Chi è incluso nel database AFIS è considerato automaticamente un potenziale sospetto e la sua identità digitale biometrica è sottoposta una perquisizione ogni qualvolta il sistema SARI viene utilizzato”. inoltre, si chiede al Ministero dell’Interno di chiarire i tempi di conservazione dei dati inclusi in AFIS e la composizione del database, sottoponendolo all’attenta analisi del Garante per la protezione dei dati personali. “All’interno degli hotspot e, in generale, tra le organizzazioni che impiegano mediatori culturali dovrebbero essere favorite formazioni in materia di protezione dei dati personali dei migranti nonché, per quanto possibile, relative al consenso informato – continuano i ricercatori -. Chi si occupa di prima e seconda accoglienza, a conclusione di tutto il discorso esposto, si trova indubbiamente nella posizione più difficile: di fronte alla necessità e urgenza di prestare aiuto legale, materiale e psicologico alle persone che arrivano in Italia dopo lunghi e difficili viaggi, gli aspetti legati alla dimensione tecnologica e al trattamento dei dati personali passano chiaramente in secondo piano”.
Avin aveva 38 anni e un figlio in grembo, morto da venti giorni, quando è deceduta per setticemia. All’arrivo in ospedale la sua temperatura corporea misurava 27 gradi. Troppo freddo, troppa fame, troppa sete in quel bosco in cui si nascondeva, insieme al marito Murad e ai suoi altri cinque figli, dai primi di novembre. Partiti dal Kurdistan iracheno, i sette ambivano semplicemente a una vita migliore. Per questo si erano messi in viaggio, cercando di varcare l’ennesima frontiera.
Avin è solo l’ennesima morte avvenuta in quel confine bielorusso, dove è difficile stimare il numero delle persone che transitano e sostano. Secondo il governo polacco, queste ultime sarebbero 5mila. Ma come si può dirlo con certezza? Da mesi, in quel tratto di confine che separa la Bielorussia dalla Polonia, non è consentito l’accesso a nessuno che non abbia il lasciapassare della polizia di frontiera. Divieto assoluto per chiunque, soprattutto per giornalisti, personale delle ong, dell’Unhcr, associazioni di aiuto umanitario. Persino a cinque europarlamentari è stato negato il passaggio qualche giorno fa.
In questo confine, secondo Grupa Granica – una sigla che mette insieme 14 associazioni polacche che si occupano di migranti e svolgono azione di monitoraggio e denuncia lungo la frontiera –, quando finirà l’inverno, si scioglierà la neve e verranno rimosse le restrizioni all’accesso, si scopriranno tanti cadaveri.
Intanto però, nessuno deve essere testimone di quel che davvero accade tra quei boschi. Nessuno deve portare aiuto e conforto dove, da agosto, centinaia e centinaia di profughi iracheni, afghani, siriani, yemeniti, somali transitano. Alcuni già richiusi nei centri di detenzione gestiti dalla polizia di frontiera, altri, tantissimi, in movimento in mezzo alle foreste tra Bielorussia e Polonia, ma anche Lituania e Lettonia.
E proprio tra i boschi polacchi, dal 10 dicembre, si aprirà la caccia al cinghiale. La notizia dell’autorizzazione da parte del governo, arrivata qualche giorno fa, ha destato le proteste di varie associazioni della società civile e umanitarie: una decisione irresponsabile e inumana, troppo il rischio per chi si muove nello stesso sottobosco, cercando di sfuggire ai controlli della polizia. Sono 14mila gli agenti che pattugliano quel lato del confine polacco.
E tra chi pattuglia c’è anche chi si blinda, respinge e rimpatria. La Polonia ha già iniziato a costruire la recinzione che dovrebbe separarla dalla Bielorussia: il muro di filo spinato, lungo 180 chilometri e alto 5,5 metri, dovrebbe essere finito entro metà 2022. Prima dunque di quello lituano, per cui sono stati stanziati 152 milioni di euro. Il muro della Lituania, che va a integrare il mucchio di filo spinato che già esiste, sarà dotato di attrezzature sofisticate di videosorveglianza, sarà lungo 500 chilometri e concluso entro settembre del prossimo anno.
E mentre si erigono barriere, per venire incontro a questi paesi, la commissione europea ha proposto, i primi di dicembre, misure eccezionali e temporanee che consentono a Polonia, Lettonia e Lituania di rimpatriare con maggiore flessibilità chi entra irregolarmente dal confine bielorusso. Procedure rapide che, riconosciute dalle istituzioni europee, finiscono, secondo Amnesty International, per normalizzare la disumanizzazione dei rimpatri.
Su Open Migration
Quando l’8 agosto 1991 la nave Vlora apparve nel porto di Bari col suo enorme carico umano, l’Italia poteva dirsi un paese che conosceva poco il fenomeno dell’immigrazione.
Anche se già dalla prima metà degli anni ‘70 il saldo migratorio – la differenza tra partenze di emigranti e rientri o arrivi di nuovi immigrati – inizierà prima a calare e poi a diventare positivo (i 170.000 permessi di soggiorno validi nel 1973 raddoppiano nel 1982 e tra il 1988 e il 1990 superano stabilmente i 600 mila) politica, media e comunità scientifica raccontavano ancora un paese di emigranti e questa era la percezione generale.
L’arrivo della Vlora a Bari farà da detonatore a una nuova percezione che sostituirà la precedente, e seppure rappresenterà un caso limite pronto a pervadere l’immaginario collettivo fino ai nostri giorni, dal punto di vista storico non rappresenta neppure il primo caso di arrivo in massa di migranti nel nostro paese.
L’e-book di Open Migrantion A trent’anni dallo sbarco della Vlora. Breve viaggio nell’Italia che si è scoperta Paese di immigrazione vuole raccontare con occhio ormai storico quell’evento e quelli che seguirono. Un lavoro che raccoglie oltre 20 approfondimenti dalle due sponde dell’Adriatico, che vuole raccontare anche tutti i modelli, gli schemi e le risposte inaugurate allora e riproposti ancora oggi, a distanza di 3 decenni. Una lettura per raccontare l’Italia di allora e quella di oggi che, per usare le parole del curatore Tommaso Fusco, dovrebbe “soprattutto renderci impossibile parlare ancora di emergenza” quando affrontiamo il tema migrazione.
Per leggere l’e-book di Open Migration clicca qui.
Di Alessandra Vescio su Valigia Blu
Il 28 novembre 2021 sulla versione online di Il Giornale è stato pubblicato un articolo dal titolo “In Europa vietato dire “Natale” e perfino chiamarsi Maria”. Con toni allarmistici e strabiliati, il pezzo descriveva un documento della Commissione Europea sulla comunicazione inclusiva di cui la testata diceva di essere entrata “in possesso in esclusiva”. Il documento in questione è una raccolta di linee guida destinata allo staff della Commissione, pubblicato il 26 ottobre 2021 e promosso dalla Commissaria all’Uguaglianza dell’Unione Europea Helena Dalli.
Diffusa con licenza Creative Commons, e dunque non un’esclusiva di una testata ma disponibile a essere riutilizzata e condivisa da chiunque, questa raccolta di linee guida è nata con lo scopo di fornire delle indicazioni a chi lavora nella Commissione Europea e stabilire degli standard comuni e condivisi per utilizzare un metodo e un linguaggio inclusivi. Nell’introduzione a questo documento, infatti, si legge: “Tutte le persone all’interno dell’Unione Europea hanno il diritto intrinseco di essere trattate alla pari, e dunque di essere incluse e rappresentate, a prescindere dal genere, dalle origini o dall’etnia, dalla religione o dal credo, dalla disabilità, età o orientamento sessuale”, per cui è fondamentale che proprio l’Unione “dia il buon esempio” anche con il linguaggio, che è una delle componenti attraverso cui passa e si manifesta il rispetto delle identità.
Diviso per argomenti e con tanto di checklist a cui fare riferimento per assicurarsi di aver utilizzato un approccio realmente inclusivo, il documento offre suggerimenti e indicazioni allo staff della Commissione per la preparazione di comunicazioni interne o di cartelle stampa, per l’organizzazione di eventi o per la creazione di contenuti da pubblicare sui social media. Gli aspetti trattati sono il genere, la comunità LGBTIQ, l’etnia, la cultura e il credo, le disabilità, l’età e l’accessibilità online. Per ogni argomento, sono forniti consigli su pratiche da evitare, esempi alternativi e le motivazioni per cui sarebbe importante superare certi modi di porsi e di dire. Tra le indicazioni si legge, ad esempio, che si dovrebbe evitare di rivolgersi alla propria audience di default al maschile (quello che nella lingua italiana è conosciuto come “maschile sovraesteso”) e provare a trovare dunque delle soluzioni che siano più comprensive, così come si propone di non sminuire o ignorare il contributo delle donne, rappresentandole per esempio sempre e prima di tutto come madri. Nel capitolo sulla comunità LGBTIQ, le linee guida suggeriscono di non presumere né dare per scontato l’orientamento sessuale di una persona, di rivolgersi alle persone transgender e non binarie con i pronomi e il genere con cui si identificano, di non utilizzare un linguaggio che svaluti o non riconosca relazioni che non siano eterosessuali. È importante, si legge sempre nel documento, non distinguere poi le persone solo in sposate e single, ma offrire rappresentazioni di nuclei familiari diversi, come i genitori single, le coppie senza figli/figlie, le famiglie adottive.
Suggerimenti importanti si trovano anche nel capitolo sull’etnia. Qui infatti si legge dell’importanza di fare caso alla diversity durante gli eventi, sia tra le persone speaker di un panel sia nella formazione del proprio team di comunicazione, ma anche della necessità di non rappresentare in maniera pietistica persone provenienti da diversi background etnici e culturali. Evitare un approccio vittimista è consigliato anche nella rappresentazione delle persone con disabilità e in più si invitano le persone destinatarie del documento a non concepire e descrivere la disabilità come unico tratto distintivo dell’individuo. Per quanto riguarda gli eventi invece si consiglia di assicurarsi di poter fornire il servizio della lingua dei segni e scegliere location che siano accessibili a chi è in sedia a rotelle o ha altre disabilità. Nella comunicazione online invece è raccomandato, tra le altre cose, di ricorrere a un linguaggio semplice e accessibile, a font leggibili e, quando necessario, anche a sottotitoli, così da poter raggiungere chiunque con i propri contenuti.
A scatenare però principalmente la polemica sui media italiani, oltre alla proposta di superare la caratterizzazione di genere al maschile e dare voce e rappresentazione a chi non si riconosce nel binarismo di genere, è un fatto piccolissimo, anzi un paio di esempi che le linee guida citano al loro interno. Nel capitolo su culture, stili di vita e credi, infatti, si trova un invito a rispettare religioni e credi differenti ed evitare di presumere che tutte le persone siano cristiane o che tutte le persone cristiane celebrino le festività nelle stesse date. In Europa infatti il cattolicesimo, il protestantesimo e la fede ortodossa, tutte appartenenti alla religione cristiana, sono presenti in maniera sostanziale. Così, invece di dire “Il periodo di Natale può essere stressante”, il documento sulla comunicazione inclusiva della Commissione Europea suggerisce che si potrebbe dire “Il periodo delle feste può essere stressante”, o ancora “per chi celebra il Natale o Hannukkah”. Per le stesse ragioni, le linee guida suggeriscono anche di non ricorrere al nome di battesimo quando si nomina qualcuno ma di chiamarlo per “nome” e di usare nomi di diverse religioni quando si fanno degli esempi o si raccontano delle storie, per cui invece di usare i nomi di “Maria” o “Giovanni” si potrebbe iniziare a usare “Malika” o “Julio”. D’altro canto, stando ai numeri, l’Europa è a tutti gli effetti un territorio multiculturale e multireligioso. Se è vero, infatti, che il 76% della popolazione è cristiana, solo il 33% circa si dice cattolico. Il 7% poi è di fede musulmana e il 15% nel 2020 si è definito non religioso. Inoltre, sempre meno persone sono cristiane, soprattutto in Europa occidentale.
Presentate tutte sotto forma di invito o suggerimento, le proposte del documento europeo hanno dunque lo scopo di dare spazio a quante più voci e identità possibili già presenti in Europa, mentre, secondo Il Giornale, “hanno dell’incredibile” e rappresentano l’ennesimo tentativo di cancellare le radici cristiane. Secondo Il Foglio, invece, che si è più volte espresso contro la cosiddetta cancel culture e la presunta dittatura del politicamente corretto, quella che viene presentata come “inclusione” in realtà è “insipienza”.
In un paio di giorni, i media italiani (dalle testate di destra al telegiornale del servizio pubblico) hanno montato ad arte un caso su queste linee guida e su come la Commissione Europea volesse cancellare il Natale, spalleggiati anche da esponenti della politica come Giorgia Meloni, che su Twitter ha posto il focus sul rischio di cancellazione della storia e dell’identità del nostro paese, e Matteo Salvini, che, esaltando il Natale, ha ironizzato sulle motivazioni alla base del documento europeo. Anche il Vaticano, tramite le parole del segretario di Stato Pariolin, ha espresso preoccupazione: se è giusto l’interesse verso l’azzeramento delle discriminazioni, dice il cardinale, questo non può passare attraverso l’annullamento delle radici e dell’omologazione.
Come abbiamo visto precedentemente, però, le linee guida europee non propongono in nessuno dei capitoli di cancellare le differenze, anzi l’intento è proprio il suo opposto: dare sempre più spazio e riconoscimento alle diversità, “illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione verso tutti i percorsi di vita e i credi delle persone europee”, come ha detto la Commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli. Rispettare e riconoscere che oltre alle persone cattoliche, ad esempio, esistano anche coloro che professano altre religioni o che si dichiarano atee, non vuol dire cancellare il cattolicesimo e le sue tradizioni, ma più semplicemente non imporre un credo su un altro e fare in modo che quante più persone possibili si sentano viste e rappresentate. Lo stesso discorso vale per le questioni di genere: ricorrere a un linguaggio che non sia sempre declinato al maschile restituisce dignità alle varie identità.
Il 30 novembre 2021, però, a circa due giorni dalla pubblicazione del primo articolo su Il Giornale, Dalli ha affidato a un comunicato stampa la decisione di ritirare il documento sul linguaggio inclusivo: “Sono state sollevate preoccupazioni in relazione ad alcuni esempi forniti nelle Linee Guida sulla comunicazione inclusiva, che come è solito succedere con linee guida simili, è un work in progress”, si legge in un tweet di accompagnamento alla nota.
Un documento per favorire un approccio quanto più possibile scrupoloso, attento, rispettoso e inclusivo sia nelle attività interne della Commissione Europea sia in quelle rivolte all’esterno, e redatto in maniera moderata e con un atteggiamento propositivo, è stato dunque affossato da tendenze conservatrici e provocazioni politiche che, in maniera consapevole, hanno scelto di ingigantire, inventare e manipolare fatti al solo scopo di scatenare una polemica. E la ragione alla base di ciò è sempre la stessa: mantenere uno stato delle cose che dia spazio solo a pochi.
Stupisce dunque che un’istituzione europea, in seguito all’insorgere di polemiche strumentali provenienti oltretutto da un solo paese, abbia messo in qualche modo in discussione quelli che definisce come propri valori fondamentali. Secondo Luca Misculin, giornalista de Il Post ed esperto di questioni europee, però “le ragioni che hanno portato la Commissione a ritirare il documento sono state soprattutto due. La prima ha a che fare con la paura atavica delle istituzioni europee di dare fiato alla propaganda euroscettica e sovranista: soprattutto in Italia, un paese dove secondo gli ultimi Eurobarometri soltanto nell’ultimo anno l’UE ha riguadagnato consensi e fiducia. La seconda si intreccia con la prima. Ursula von der Leyen è espressione di un partito che si chiama, letteralmente, Unione Cristiano-Democratica. E in un paese dal retaggio cattolico-conservatore, in cui i due partiti più popolari secondo i sondaggi sono tradizionalisti e di estrema destra, la Commissione ha preso la scelta verosimilmente più popolare e condivisa con la maggioranza degli italiani (oltre che coerente con la storia personale della Presidente). Lo dimostra fra l’altro anche la presa di posizione dei principali quotidiani, e non solo quelli di destra: assai compatti contro il documento”. Che ci siano delle contraddizioni all’interno dell’Unione Europea, tra paesi che ne fanno parte, valori promulgati e pratiche seguite, è evidente: lo dimostrano ad esempio i recenti fatti e le posizioni sull’immigrazione, ma anche le critiche più volte mosse alle stesse istituzioni europee per la mancanza di diversity nei loro team.
Contraddizioni e strategie politiche che però non fanno altro che generare contraccolpi pericolosi. Per quanto fossero destinate a un uso interno di uno staff e dunque circoscritte a un caso specifico, le linee guida per una comunicazione inclusiva proposte dalla Commissione Europea in qualche modo rappresentavano una posizione ufficiale che promuoveva il rispetto delle diversità. Anche se non volontariamente, la scelta di ritirarle ha portato da un lato ad avallare posizioni ostili a una società inclusiva e dall’altro ad assecondare un giornalismo che contribuisce alla creazione di un clima disinformato e intollerante. Il risultato, come spesso accade in situazioni simili, è un dibattito inquinato e la perdita del focus principale: ovvero che quando parliamo di inclusività, di rispetto delle identità e di spazi da condividere, si sta pur sempre parlando di persone.
Ricevi aggiornamenti iscrivendoti qui:
Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.
Controlla la tua casella di posta o la cartella spam per confermare la tua iscrizione
Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
Le migrazioni nel 2021, il nuovo fact-checking di Ispi
© 2014 Carta di Roma developed by Orange Pixel srlAutorizzazione del Tribunale di Roma n° 148/2015 del 24 luglio 2015. - Sede legale: Corso Vittorio Emanuele II 349, 00186, Roma. - Direttore responsabile: Domenica Canchano.