Di Ian Urbina su The New Yorker
Una serie di magazzini improvvisati si trova lungo l’autostrada a Ghout al-Shaal, un quartiere logoro di officine di riparazione auto e cantieri di demolizione a Tripoli, la capitale della Libia. Precedentemente un deposito di cemento, il sito è stato riaperto nel gennaio 2021, le sue pareti esterne sono state rialzate e ricoperte di filo spinato. Uomini in uniforme mimetica nera e blu, armati di fucili Kalashnikov, fanno la guardia intorno a un container blu che passa per un ufficio. Sul cancello, un cartello recita “Direzione per la lotta alla migrazione illegale”. La struttura è una prigione segreta per migranti. Il suo nome, in arabo, è Al Mabani, “gli edifici”.
Alle 3 del mattino del 5 febbraio 2021, Aliou Candé, un robusto e timido migrante di ventotto anni della Guinea-Bissau, è arrivato al carcere. Aveva lasciato casa un anno e mezzo prima, perché la fattoria della sua famiglia stava fallendo, e aveva deciso di raggiungere due fratelli in Europa. Ma, mentre tentava di attraversare il Mar Mediterraneo su un gommone, con più di un centinaio di altri migranti, la Guardia costiera libica li ha intercettati e portati ad Al Mabani. Sono stati spinti all’interno della cella n. 4, dove erano detenuti altri duecento. Non c’era quasi nessun posto dove sedersi nella calca dei corpi, e quelli sul pavimento scivolarono per evitare di essere calpestati. In alto c’erano luci fluorescenti che restavano accese tutta la notte. Una piccola grata nella porta, larga circa un piede, era l’unica fonte di luce naturale. Gli uccelli nidificavano nelle travi, le loro piume e gli escrementi cadevano dall’alto. Sulle pareti, i migranti avevano scarabocchiato note di determinazione: “Un soldato non si ritira mai” e “Con gli occhi chiusi, avanziamo”. Candé si accalcò in un angolo lontano e cominciò a farsi prendere dal panico. “Cosa dovremmo fare?” chiese a un compagno di cella.
Nessuno al mondo al di là delle mura di Al Mabani sapeva che Candé era stato catturato. Non era stato accusato di un crimine né gli era stato permesso di parlare con un avvocato, e non gli era stata data alcuna indicazione di quanto tempo sarebbe stato detenuto. Nei suoi primi giorni lì, si sottomise alla triste routine del luogo. La prigione è controllata da una milizia che si autodefinisce “Agenzia di Pubblica Sicurezza”. Vi erano detenuti circa millecinquecento migranti, in otto celle, rinchiusi per genere. C’era solo un bagno ogni cento persone e Candé doveva spesso urinare in una bottiglia d’acqua o defecare sotto la doccia. I migranti dormivano su materassini sottili. I detenuti litigavano su chi potesse dormire sotto la doccia, che aveva una migliore ventilazione. Due volte al giorno venivano fatti marciare, in fila indiana, nel cortile, dove era loro proibito alzare gli occhi al cielo o parlare. Le guardie, come i guardiani dello zoo, mettono a terra ciotole comuni di cibo e i migranti si radunano in cerchio per mangiare.
L’articolo completo in inglese qui.
INTERSOS e UNHCR Italia chiudono la quarta edizione del programma PartecipAzione – azioni per la protezione e la partecipazione dei rifugiati con un evento che si terrà il 3 e 4 dicembre a Roma, presso il Mattatoio di Testaccio.
Durante l’evento verranno discusse alcune fra le tematiche più attuali in ambito di integrazione dei rifugiati, attraverso un confronto sul ruolo che le persone rifugiate e le loro associazioni hanno nella nostra società. Dibattiti, workshop e iniziative culturali accompagneranno i partecipanti attraverso i risultati del programma, i progetti realizzati, le associazioni e le persone rifugiate protagoniste di PartecipAzione.
In particolare, venerdì 3 Dicembre, giornata aperta al pubblico, è prevista una tavola rotonda “La partecipazione delle persone rifugiate in Italia: una chiave per l’integrazione” a cui parteciperanno: Fabrizio Barca, Coordinatore, Forum Disuguaglianze e Diversità; Carlo Borgomeo, Presidente, Fondazione con il Sud; Giovanna Castagna, Responsabile programmi, Open Society Initiative for Europe; Ana de Vega, Responsabile Protezione Senior, UNHCR; Mara Di Lullo, Prefetto, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno; e Yagoub Kibeida, Direttore, Associazione Mosaico – azioni per i rifugiati. Moderano Carlotta Sami, Portavoce UNHCR in Italia e Alidad Shiri, Rappresentante, Unione Nazionale Italiana per Rifugiati ed Esuli.
Alla due giorni parteciperanno anche Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, Kostas Moschochoritis, Direttore Generale di INTERSOS, e Cesare Fermi, Responsabile dell’Unità migrazione di INTERSOS.
“Il programma PartecipAzione è un esempio innovativo e creativo di coinvolgimento delle comunità di rifugiati, che dimostra come chi fugge dal suo paese, a causa di guerre e persecuzioni, porti con sé un valore aggiunto per le società, le comunità e l’economia dei Paesi di asilo,” ha ricordato Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino “PartecipAzione intende promuovere e valorizzare la voce, le risorse, le iniziative di quei rifugiati che spesso rimangono più ai margini, anche all’interno delle loro comunità: i giovani, le donne, le persone LGBTQI+. E’ cruciale che ai rifugiati venga offerta l’opportunità di divenire soggetti attivi della società affinché possano partecipare ai processi decisionali che li riguardano”, ha concluso Chiara Cardoletti.
“Questa quarta edizione del programma PartecipAzione ha consolidato i risultati positivi ottenuti nelle passate edizioni. Sono infatti diversi gli esempi di associazioni di rifugiati per cui PartecipAzione ha rappresentato un trampolino di lancio per un ruolo attivo nella società italiana, accreditandosi come interlocutori credibili presso istituzioni locali, nazionali e internazionali”, ha dichiarato Cesare Fermi, Responsabile dell’Unità migrazione di INTERSOS, che ha aggiunto: “Nonostante la pandemia e la crisi economica provocata da quest’ultima, il programma è riuscito anche quest’anno ad espandersi in nuove realtà italiane, con una particolare attenzione verso i centri urbani di medie e piccole dimensioni, con un focus particolare sull’integrazione socio-economica nella nostra società”.
All’evento finale saranno presenti rappresentanti delle sette associazioni vincitrici dell’edizione 2021 di PartecipAzione: C.U.C.I.R.E. (Palermo), Fuori Mercato (Campobello di Mazara, TP), Il Faro del Borgo (Borgo Mezzanone, FG), Circolo Culturale Arci RadioAttiva (Carrara), Sotto il Baobab (Canelli, AT), Smiling Coast of Africa (Brindisi) e le associazioni Genitori Scuola Di Donato/Rifugiati Sudanesi di Via Scorticabove (Roma).
Per partecipare alla giornata del 3 Dicembre è necessaria la registrazione: Fabrizio Mosca – Communication Officer PartecipAzione INTERSOS, tel: 340-6692562 – mail: fabrizio.mosca@intersos.org
Piera Francesca Mastantuono
Di Angela Caponnetto su Articolo 21
Da settimane la narrazione sui flussi migratori fatta dai media nazionali si concentra sui luoghi di crisi fuor dai nostri confini. Polonia-Bielorussia, Francia-Gran Bretagna, Marocco-Spagna, Balcani-Grecia. Tralasciando o citando in modo superficiale quanto ancora accade nei nostri porti dove da inizio anno sono sbarcate circa 60.000 persone migranti che potrebbero essere tra quelle in attesa di attraversare la Manica a Calais, che hanno già hanno tentato la traversata o che sono annegate nel tentativo di raggiungere l’Inghilterra. Mentre c’è chi parla degli sbarchi nel nostro paese per fare improbabili connessioni tra l’ingresso della variante arrivata dal sud Africa e gli sbarchi dei migranti nei nostri porti. Pur non essendo sbarcato neanche un migrante sudafricano, proveniente da uno dei sei paesi a rischio. Oltre ad essere chiaro che la variante ha attraversato il continente africano in tutt’atro modo: con molta probabilità portato da turisti e imprenditori europei in viaggio di piacere o di affari.
D’altro canto, tenere il racconto fuori dal nostro “giardino” non servirà a fermare le fake news sui flussi migratori così come non potrà a lungo nascondere il dato di fatto che i flussi sono sempre più in crescita e pressanti.
Migliaia di vite approdano, e continueranno ad approdare, nel nostro paese con cadenza sempre più fitta e in condizioni meteorologiche che mettono a dura prova i soccorritori: siano essi dei corpi Guardia Costiera e Finanza siano operatori di organizzazioni non governative. Il racconto dei soccorsi di questi giorni arriva all’utente quasi come un lavoro di routine pur non essendolo affatto perché il mare stesso, nella sua imprevedibilità, lo rende un lavoro diverso ogni volta. Così come sono diverse le storie e le persone soccorse.
Non è routine soccorrere una puerpera che ha partorito su un barcone con 240 – per lo più siriani e palestinesi partiti dalla Libia orientale – a bordo di un peschereccio sferzato da una tempesta al largo delle coste calabresi. Non è routine il difficile lavoro della guardia costiera che carica di 80 vite umane su una CP 300, compresi la mamma con il suo neonato. E ci riesce solo con l’aiuto di due mercantili che si mettono di traverso per arginare il vento e le onde. Non è routine, quando alla fine di una nottata da incubo, i soccorritori dicono con voce sollevata: “prendi il bambino e la sorellina” porgendoli a braccia tese agli operatori sul molo di Roccella Ionica.
Eppure in pochissimi hanno raccontato i dettagli delle ore frenetiche, faticose, preoccupate, di questo soccorso come di tanti altri passati in sordina.
Da tutto il nord Africa sono partiti così in migliaia nel 2021. I flussi sono aumentati anche a soprattutto a causa della pandemia che ha impoverito ulteriormente paesi che come l’Egitto e la Tunisia dove l’economia, soprattutto quella che si reggeva sul turismo, é ora in ginocchio. Non è un caso che la maggior parte delle persone sbarcate in Italia siano tunisini ed egiziani. Come non è un caso che molti di loro, li rivedrete nelle “jungle” italiane al confine con la Francia o in viaggio verso il nord Europa. Perché é lì che sperano di assestarsi cercando di raggiungere parenti e amici già insediatisi in passato.
Queste persone non sono diverse da quelle che vediamo morire di freddo in Bielorussia, annegati nella Manica o tra l’Africa e le Canarie. Sono le stesse persone che sono state costrette a lasciare la loro terra che tenteranno il tutto e per tutto, persino di partire con le doglie pur di salvarsi da qualcosa che per noi non è neanche immaginabile.
Questo dobbiamo continuare a raccontare e documentare: insieme ai numeri le storie e le vite che ruotano intorno a questi numeri. Non solo quelle dei migranti ma anche quelle di chi li soccorre e di chi li accoglie, militari e civili. Sfatando luoghi comuni, false notizie ed evitando di sorvolare su ciò che accade nel nostro giardino che resta uno dei luoghi di approdo preferiti da persone che non hanno alternativa alcuna se non affidarsi ai trafficanti. Finché altre soluzioni non saranno trovate.
Foto in evidenza di Articolo 21
epa09591468 A Syrian migrant Masour Nassar (R), 42-year-old from Aleppo, and an Iraq migrant Aland (L), 20-year-old, are escorted by Polish border guards from emergency ward after crossing Polish-Belarus forder, in the hospital in city of Bielsk Podlaski, near the Polish-Belarusian border, eastern Poland, 19 November 2021. Poland has been struggling to stem the flow of asylum-seekers, refugees and migrants crossing into the country from Belarus. The Polish government says the migrants have been invited to Belarus by the Belarusian president, allegedly under the promise they will be able to live in the EU. EPA/MARTIN DIVISEK
Di Rosita Rijtano su lavialibera
Un uomo guida sulla statale che collega Varsavia ai paesi di confine con la Bielorussia, una strada lunga e a tratti così buia da sembrare inghiottita dal bosco. Parla del suo lavoro nel campo finanziario dando di tanto in tanto un’occhiata alla mappa che ci guida, sull’ultimo modello di un iPhone. Le dita tamburellano sul volante, nervose. Poi, solo per un istante, si volta e d’un fiato confessa: “Io ne ho trasportati quattro”. Quattro che? “Migranti. Due giovani iracheni e una donna siriana con una bimba piccola che per il mal d’auto ha vomitato tutto il tempo. Li ho accompagnati nella capitale per evitare che venissero rispediti indietro”.
Iwo, nome di fantasia, fa parte di una rete di attivisti e cittadini della Polonia che aiuta chi è riuscito ad attraversare la frontiera ad allontanarsi dalla zona di confine. È una rete clandestina, che si fonda sul passaparola, su itinerari protetti e luoghi sicuri. Ricorda la Ferrovia sotterranea, il network di abolizionisti che nell’Ottocento forniva supporto agli schiavi afroamericani in fuga dal Sud al Nord degli Stati Uniti, a cui è ispirato l’omonimo romanzo dello scrittore Colson Whitehead, vincitore del premio Pulitzer. L’obiettivo, spiegano alcuni attivisti che hanno deciso di denunciare a lavialibera una “situazione inumana”, è rendere più difficili i respingimenti in Bielorussia che le autorità di Varsavia stanno conducendo nei confronti dei migranti intercettati in territorio polacco, senza tener conto della volontà di chiedere asilo: una pratica che in teoria viola i trattati internazionali, ma di fatto viene adottata in molti Stati alle porte d’Europa. I ribelli sono circa un centinaio, forse anche di più, ma è impossibile saperlo con esattezza perché “per paura” non ne parlano con nessuno, “neanche con i propri parenti”: per comunicare usano app di messaggistica sicura e chat che scompaiono dopo pochi minuti. “Quelli come me – dice Iwo – sono solo l’ultimo anello di una complessa catena organizzativa. Prima di salire in auto, ogni persona è stata nascosta, nutrita, e informata su dove farsi trovare, e a che ora. Serve un grande lavoro di logistica”.
C’è chi gestisce le richieste di aiuto dei migranti nascosti nella foresta, chi organizza i dettagli dei viaggi, e poi ci sono gli abitanti dell’area d’emergenza: il lenzuolo di terra che si trova a tre chilometri dal confine e a cui, per volere del governo polacco, da quasi tre mesi non possono accedere né le organizzazioni umanitarie né i giornalisti. Ai residenti spetta il compito di lasciare cibo, acqua e vestiti in determinati punti del bosco. Alcuni fanno di più: in attesa del momento giusto per farli scappare, ospitano i migranti in casa, “preparandogli anche da mangiare”. Il piatto più richiesto, assicura Iwo, è il “minestrone: l’ideale dopo tanti giorni passati al freddo”.
Il trasporto è affidato a gente che arriva dalle città: donne e uomini, spesso giovani, che prendono una settimana di ferie dal lavoro e a volte macinano centinaia di chilometri, rischiando di farsi arrestare dalle forze dell’ordine che presidiano le strade del Paese dall’inizio della crisi. È successo a Pawel e Justyna Wrabec, entrambi attivisti di Obywateli RP, un movimento politico che porta avanti azioni di disobbedienza civile. Seduti sulle panche di legno di una tipica trattoria di Hajnówka, piccolo comune della Polonia nord-orientale, raccontano di aver cominciato a fare avanti e indietro dal confine a casa loro, che si trova a oltre 700 chilometri di distanza, ad agosto. Guardando le immagini dei bambini davanti al filo spinato, Pawel ha pensato ai suoi antenati sterminati durante la guerra e ai racconti degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, ascoltati da ragazzo, che gli hanno fatto capire l’importanza di trovare aiuto. Justyna non ce l’ha fatta ad accettare l’idea di rimanere sul divano tranquilla, mentre le “persone muoiono nella foresta. Nessuno merita di morire in questo modo”.
Si sono messi in auto e hanno offerto un passaggio a chi hanno trovato per strada. Qualcuno sono riusciti a “metterlo in salvo”, dicono, poi li hanno fermati. Si trovavano poco lontano da qui, quando il 28 ottobre scorso sono stati bloccati da una macchina della polizia. A bordo della loro Nissan trasportavano due ragazzi iracheni. “Ci hanno ammanettati e portati in prigione – ricorda Justyna –. Durante la perquisizione, io sono stata anche denudata. Abbiamo subito un interrogatorio lungo quattro ore. Dopo di che, ci hanno sistemato in due celle separate, senza darci la possibilità di parlare, e ci hanno fatto passare la notte in carcere. È stata un’esperienza traumatica, ma ancor più traumatico è stato vedere i ragazzi portati via dalla guardia di frontiera. Ci avevano detto di essere rimasti nella foresta per 40 giorni, erano stremati: uno dei due, che avrà avuto non più di 18 anni, è scoppiato in lacrime”.
Ora Pawel e Justyna rischiano di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la pena può arrivare fino a otto anni di carcere. Hanno un po’ paura, ma lo rifarebbero: “Il governo ha adottato una politica criminale e inumana, rendendo illegale l’unico aiuto possibile. Sappiamo che là fuori ci sono ancora centinaia di donne, uomini e bambini. E non sono attrezzati per l’inverno”, spiegano. Intanto, cade la prima neve.
Foto in evidenza di Martin Divisek/Epa su lavialibera
Di Pierre Haski su France Inter, traduzione di Andrea Sparacino su Internazionale
La morte di 27 migranti nella Manica ha creato un trauma: l’ennesimo, saremmo tentati di dire senza cinismo. La settimana scorsa 75 migranti avevano perso la vita nel Mediterraneo dopo essere partiti dalla Libia a bordo di un barcone sovraffollato, portando a 1.300 il numero di morti dall’inizio dell’anno. Il tutto nell’indifferenza più assoluta. Due settimane fa, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, altri migranti, strumentalizzati dal dittatore di Minsk, sono stati sballottati da una parte all’altra del confine, e alcuni sono morti in quella terra di nessuno congelata.
L’unica conclusione che si possa trarre da queste tragedie che si ripetono in quasi tutte le frontiere esterne dell’Europa è che noi, abitanti della potente e ricca Europa (Regno Unito compreso, per una volta) non abbiamo ancora una risposta al problema. Eppure è da anni che questo dramma coinvolge l’Europa, dai naufragi di Lampedusa ai campi profughi simili a prigioni di Samos, in Grecia, dalle alte barriere dell’enclave spagnola di Ceuta all’indegna giungla francese di Calais.
I motivi di questa impasse non mancano: timore di un ritorno dei venti populisti, differenze di vedute tra i vari paesi europei, egoismi nazionali o semplicemente paura dell’”altro”.
Il caso particolare degli afgani evidenzia tutte le nostre contraddizioni. In occasione della caduta di Kabul in mano ai taliban, con immagini apocalittiche che arrivavano dall’aeroporto, tutti erano d’accordo sulla necessità di aiutare il maggior numero di persone a partire. La mobilitazione delle amministrazioni comunali, delle associazioni e dei singoli cittadini ha permesso di accogliere dignitosamente migliaia di afgani che erano riusciti a salire a bordo di un aereo. Ma molte afgane e afgani appartenenti ad altri ceti sociali, arrivati con altri mezzi, non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
Per qualche giorno, ma solo per qualche giorno, lo slancio per aiutare i profughi afgani ci ha ricordato la fine degli anni settanta, quando la Francia accolse 120mila boat people dal Vietnam in fuga dalla vittoria comunista dopo una mobilitazione da parte degli intellettuali di ogni orientamento, da destra a sinistra, compresi i fratelli-nemici della filosofia francese Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. Uno scenario simile oggi è impensabile, perché il momento è segnato da un dibattito deleterio sul tema e dai muri, reali e mentali.
L’argomento sarà uno dei più difficili per la presidenza francese dell’Unione europea, nel primo semestre del 2022, con la riforma delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo. La Commissione europea ha avanzato alcune proposte, ma il dialogo è paralizzato dalle divisioni tra gli stati, e non solo a est del continente. La Danimarca, pur guidata dai socialdemocratici, presenta per esempio una delle politiche migratorie più restrittive del continente.
Qualche giorno fa uno degli osservatori più acuti di questo dibattito, il politologo bulgaro Ivan Krastev, sottolineava che i politici europei “si sentono incapaci di aiutare chi vuole più democrazia nel proprio paese e temono l’arrivo dei migranti”.
Con una punta d’ironia amara, Krastev ha aggiunto che “Bruxelles ha paura delle stesse cose che determinano la sua forza di attrazione. Una volta l’Europa si faceva forte dell’idea che molte persone nel mondo volessero vivere come i suoi cittadini. Oggi questa idea la spaventa”. È un paradosso su cui meditare, in attesa che arrivi la prossima tragedia.
Immagine in evidenza di Kiran Ridley/Getty Images su Internazionale
Di Anna Spena su Vita
Era l’alba dello scorso 23 febbraio quando la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, sede dell’associazione Linea d’OmbraODV. Il motivo della perquisizione? La ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento del soggiorno di migranti clandestini.Trieste è la città italiana dove fisicamente finisce la Rotta Balcanica. Lorena, 68 anni, psicoterapeuta, e suo marito Gian Andrea, 85 anni, professore di filosofia in pensione sono due attivisti che hanno messo in piedi un piccolo presidio medico all’esterno della Stazione di Trieste per offrire prima assistenza ai migranti che passano il confine con la Croazia ma che sul corpo portano i segni delle torture. Sono lì, “dove bisogna stare”, dicono, tutti i pomeriggi ad accogliere i ragazzi, con il “carrettino verde” della cura dove Lorena tiene le garze, i cerotti, il disinfettante, qualche medicina di base. Il carrettino è il simbolo del suo lavoro e degli altri volontari di Linea d’Ombra che sulle panchine di Piazza della Libertà, così come negli squat bosniaci, le strutture abbandonate dove vivono i migranti, medicano i piedi dei ragazzi.
Lo scorso febbraio Gian Andrea è entrato nel registro degli indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, l’hanno associato a un passeur, un “traghettatore” di uomini. Poi l’indagine a coinvolto anche Lorena Fornasir. Dopo nove mesi finalmente l’archiviazione delle accuse.
“In data 22-23 novembre 2021 il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bologna hanno convenuto di archiviare l’accusa fatta nei nostri confronti “non emergendo elementi che consentano la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”, scrivono. “Questa archiviazione dimostra con chiarezza l’intenzione politica dell’indagine che ha portato alla nostra denuncia”, scrivono in una nota. “L’indagine, iniziata nel 2019, nasce per iniziativa del P. M. di Trieste, che vuole cogliere un legame intrinseco fra la cosiddetta cellula triestina di passeur o smuggler, noi due e, indirettamente, anche Linea d’Ombra.
Inizialmente l’indagine riguardava solo Gian Andrea. In un secondo tempo, coinvolge anche Lorena. Questo fatto ne produce lo spostamento presso il tribunale di Bologna dato che Lorena, giudice onorario presso il tribunale dei minori di Trieste, rientra nei ranghi della magistratura per la quale è competente appunto il tribunale bolognese.
Il procedimento giunge quindi nelle mani di un magistrato non interessato a un’intenzione politica punitiva nei confronti di chi agisce solidalmente con i migranti, il quale non ha difficolta a ravvisare il carattere artificioso della presunzione di collegamento fra Gian Andrea, Lorena e la cosiddetta cellula triestina e, ancor più, lo scopo di lucro. Chiede quindi l’archiviazione che il giudice per le indagini preliminari conferma.Il succo di questa vicenda sta appunto nel rendere ancora una volta evidente il carattere politico delle denunce nei confronti degli attivisti solidali con i migranti: così è caduta la denuncia contro Mediterranea e prima ancora quella contro Carola Rackete. Crediamo che cadrà anche quella di Andrea Costa di Baobab di Roma. Diverso è caso di Mimmo Lucano perché si tratta di un esempio pericoloso in quanto avrebbe potuto diffondersi presso altri piccoli comuni spopolati come esempio di rinascita sociale”.
Di Marina Nasi su Valigia Blu
Tra le varie forme di discriminazione, quella su base linguistica non ha avuto finora molta risonanza, penalizzata tanto dalla difficoltà di isolarla da altre istanze, quanto dai diversi modi in cui può presentarsi. Negli ultimi tempi però il dibattito è aumentato esponenzialmente, e sempre più si parla di “linguistic discrimination” e delle sue varie sfumature e accezioni: linguistic profiling, slam ban, glottofobia, accent discrimination, accentism, ethnic accent bullying, linguistic stereotyping, razzismo linguistico.
La discriminazione linguistica consiste nel giudicare e trattare negativamente qualcuno sulla sola base dell’uso del suo linguaggio, che si tratti di accento, pronuncia o anche uso di vocabolario e sintassi. In pratica, si tratta degli stereotipi e dei bias che associamo, spesso inconsapevolmente, al modo di parlare di una persona. E per le molte persone che si esprimono in modo dissonante da quella che è percepita, spesso arbitrariamente e sulla base di una serie di privilegi, come la norma, questi possono avere un impatto forte sul lavoro, all’università, nella vita sociale, addirittura nel cercare casa. Per esempio, uno studio inglese riporta una candida evidenza: nei colloqui di lavoro, chi parla con un accento regionale e/o working class ha meno possibilità di essere considerato. Lo studio evidenzia anche questo tipo di pregiudizio è più comune da parte degli over 40.
La lingua che parliamo è inevitabilmente legata alla nostra identità ed esposta a interpretazioni, in quanto riflesso di provenienza, cultura, livello di scolarizzazione, origine geografica. Il problema è che queste interpretazioni possono essere tanto rapide quanto pregiudizievoli, e incidere pesantemente sul modo in cui è percepita e trattata una persona. Questo è particolarmente vero, per esempio, nel caso dell’Inglese, lingua dominante per eccellenza, e piuttosto dibattuto nel Regno Unito, dove è forte il collegamento fra lingua e status sociale, e dove la cosiddetta Received Pronunciation (RP) è tuttora percepita da molti come la pronuncia ideale della classe dirigente, o comunque come l’accento a cui aspirare. Un vero e proprio accento sociale.
La definizione di Received Pronunciation è stata codificata nel 1926 dal fonetologo Daniel Jones, nella seconda edizione dell’English Pronouncing Dictionary. Ma il concetto era già stato introdotto nell’edizione originale del 1917, che lo definiva “Public School Pronunciation”: è infatti nelle scuole private (che in Inghilterra sono chiamate Public Schools) che viene appreso questo accento. E nonostante abbia assonanze soprattutto con le pronunce del Sud e in particolare con quelle di Londra, Oxford e Cambridge, è considerato una sorta di accento neutro e non regionale, il frutto dell’innalzamento culturale e sociale offerto dalle migliori scuole. Anche se non si tratta esattamente di sinonimi, la RP è spesso associata al cosiddetto “Queen’s English”, ovvero l’inglese parlato dal membro “più alto” della società.
Inserendo “Received Pronunciation” su un motore di ricerca, tra le prime immagini compare quella di Lucy Bella Simkins, influencer ed edutuber da oltre sei milioni di follower con il suo canale English with Lucy, attraverso i cui popolarissimi video insegna, affina e allena il “Beautiful British English”. L’anno scorso, l’insegnante ventisettenne è stata al centro di un’aspra polemica social esplosa dopo la pubblicazione di un video (poi rimosso) in cui elencava dieci termini usati in contesti accademici o lavorativi, spiegando come non andassero pronunciati se si voleva “suonare intelligenti e professionali”. Già in precedenza, un’altra video-lezione dell’insegnante del Cambridgeshire, entusiasticamente ripresa dal Daily Mail, spiegava gli errori linguistici da evitare per “non sembrare stupidi”. Dopo i commenti negativi di diversi linguisti, tra cui Rob Drummond dell’Università di Manchester, Simkins ha prodotto un video di scuse e si è presa una pausa prima di riprendere a pubblicare, in cui oggi è più attenta a mostrarsi aperta alle varietà regionali.
Oggi nella popolosa comunità dei docenti di inglese per stranieri (ELS, English as a Second Language) si discute molto di come evitare di identificare la lingua ideale al privilegio bianco, e di trovare un compromesso tra l’insegnamento di una lingua standard e l’inclusione tanto degli accenti regionali quando del contributo dato al “global english” da parlanti indiani o nigeriani (sia in India sia in Nigeria l’Inglese è lingua ufficiale). E in rete spuntano progetti come The accentism project, archivio aperto digitale di episodi di discriminazione linguistica, o articoli come questo di Refinery 29, in cui la “equality reporter” Jasmine Andersson racconta di come il suo accento dello Yorkshire l’abbia fatta sentire mortificata e sminuita all’Università.
L’ultimo episodio però è arrivato sulle pagine del Guardian, che ha reso pubblica una lista di parole proibite circolata in una scuola media di Londra Sud, la Ark All Saints Academy. Nella lista nera di cosa non pronunciare in classe, comparivano quasi soltanto modi di dire collegabili al cosiddetto British Black English, o patois, cioè l’inglese parlato dalla foltissima comunità afrocaraibica. Incidentalmente, la Ark All Saints si trova a Clarkenwell, quartiere multietnico con una lieve prevalenza di abitanti afrodiscendenti. La preside della scuola si è giustificata dicendo che le espressioni bandite erano state selezionate perché trovate in molti compiti dei ragazzi, e che l’idea era quella di incoraggiare gli studenti a esprimersi in modo più chiaro e accurato. Ma secondo il senior lecturer Marcello Giovanelli del ClaRA (Centre for Language Research at Aston) di Birmingham, si tratta di un episodio indicativo di un problema più complesso:
“Anche in questo periodo in cui c’è tanta attenzione a non discriminare, troviamo ancora stranamente accettabile l’idea di discriminare base alla lingua. Se dici che c’è un inglese buono e uno cattivo, implicitamente affermi che alcune persone vanno bene e altre no. Questa forma di limitazione linguistica, questa sorta di ‘slang ban’ (la messa al bando dello slang, ndr), crea problemi alle persone riguardo il modo in cui si percepiscono, impatta sul loro senso di sicurezza, sul pensarsi all’altezza di qualcosa. Di fatto è un tentativo di controllare il linguaggio, di buttare via quello che sembra poco utile.”
Non è la prima volta che in Inghilterra viene promosso un certo tipo di inglese percepito come norma, come l’ideale da perseguire per raggiungere innalzamento sociale e successo accademico. Un famoso ministro conservatore degli anni ’80, Norman Tebbit, è rimasto celebre per avere associato il presunto declino dell’inglese corretto al proliferare del crimine. Prosegue Giovanelli:
“È un fenomeno che va a cicli, che si ripete, e guarda caso sempre in presenza di governi conservatori. Norman Tebbit incoraggiava a parlare in un certo modo, a riprendere le gare di grammatica. Apparentemente sembra un modo di aiutare tutti gli studenti ad innalzare il loro livello, ma di fatto è una forma di controllo: la si incasella come tentativo di migliorare tutti, ma in realtà sposta la responsabilità sociale dal governo alla lingua, al modo in cui una persona parla. Come dire: «Non vivi in un contesto svantaggiato per via delle scelte politiche, ma per come pronunci l’inglese»”.
Se la scuola e la società sembrano ancora legate a un’idea rigida e normativa, per quanto in evoluzione e ora anche in discussione, di quella che dovrebbe essere la lingua corretta da usare, la letteratura va in un’altra direzione, come dimostra il successo di scrittrici come Bernardine Evaristo. Evaristo ha vinto il Booker Prize per Ragazza, donna, altro, storia di 12 personaggi quasi tutti femminili e afrodiscendenti, e la ricchezza espressiva dei suoi registri stilistici mescola poesia, slang e tradizione orale. Anche nel precedente romanzo Mr Loverman, ambientato nella comunità creola di Londra, l’autrice inglese di origine nigeriana si era immersa nello studio del modo di parlare e degli “errori grammaticali” del patois anglo-caraibico. Usando molte di quelle espressioni che probabilmente figurerebbero nella lista nera della Ark All Saints.
Negli Stati Uniti la situazione non è troppo diversa: sono frequenti gli annunci di lavoro che richiedono un “accento neutrale” e a fare le spese della discriminazione linguistica sono soprattutto gli appartenenti a minoranze etniche. Il problema non è nuovo: ha fatto scuola lo studio del 2000 di John Baugh della Stanford University, in cui Baugh individuava la profilazione razziale su base dell’accento tanto nelle telefonate ad agenti immobiliari quanto nelle aule di tribunale.
Vittime di commenti tra parodia e bullismo sono anche gli accenti degli Stati del Sud. E addirittura a Hollywood si discute di come gli attori con un accento, specie se straniero, siano sempre limitati dal typecasting.
Sempre in ambito cinematografico, la commedia nera del 2018 Sorry to bother you ha come protagonista (interpretato da Lakeith Stanfield) l’addetto di un call center di telemarketing che scopre il modo migliore per smettere di essere respinto dai clienti e iniziare a fare affari: suonare bianco. Il concetto di “voce da bianco”, del resto, era già stato esplorato dal protagonista di Blackkklansman di Spike Lee. E non c’è troppo da ridere: il cosiddetto “code switching”, ovvero la necessità di rimodulare il proprio codice espressivo e comunicativo per farsi accettare dal gruppo dominante, è un fenomeno presente soprattutto tra gli african american ed è stato associato a problemi di stress e salute mentale.
A testimonianza del fatto che il fenomeno è globale, alcune settimane fa in India è bastato pubblicare su Twitter il commento inopportuno di un addetto al call center di Zomato (la più importante app di delivery del subcontinente, presente anche in Italia ma solo a Roma e Milano) per fare esplodere un caso nazionale. I fatti: un cliente del Tamil Nadu contatta l’assistenza di Zomato per un problema di consegna, l’addetto chiama il ristorante ma non riesce a interagire con nessuno del personale perché tutti parlano solo in lingua Tamil; a questo punto l’assistente liquida la faccenda dicendo al cliente che tutti in India dovrebbero parlare almeno un po’ della «lingua nazionale», l’Hindi. In realtà l’India ha 28 lingue ufficiali, né l’Inglese né l’Hindi sono obbligatori, e dopo la pubblicazione su Twitter di questo piccolo scambio moltissimi utenti hanno protestato, con tanto di hashtag #boycottZomato. L’azienda ha già pubblicato le sue scuse, in Hindi e in Tamil.
Quello che dall’esterno potrebbe essere superficialmente liquidato come l’incidente da poco che causa una reazione sproporzionata, però, va contestualizzato nell’attuale situazione politica indiana, in cui la discriminazione su base linguistica ha un posto rilevante. Come spiega Rita Cenni, corrispondente per l’Ansa sull’India:
«L’episodio di Zomato si inserisce all’interno di un problema molto serio. L’attuale governo, così estremista sull’induizzazione del Paese, fa di tutto per imporre religione e cultura Indu, così come la lingua Hindi. Quindi è vero che esiste una grande discriminazione nei confronti delle minoranze. L’Indi è parlato solo nel Centro-Nord, ma tutti gli altri stati rivendicano con orgoglio le proprie lingue nazionali. Il partito attualmente al governo sta cercando di portare l’India, che era sempre stata un melting pot di lingue, etnie e religioni, tutta di un solo colore, tutti Indu, cosa che in questo paese non è mai esistita».
E in Italia? Da noi ci sono diversi ordini di problemi. C’è la profilazione linguistica, che porta molte persone con accenti stranieri a venire respinte alla prima telefonata da agenti immobiliari, senza neanche avere la possibilità di vedere una casa o di farsi conoscere. E ci sono le difficoltà di inserimento scolastico per alcuni studenti di origine estera, anche se nati qui. Ne parla uno dei pochi studi nostrani sul tema, che ha preso in esame alcuni istituti scolastici toscani e l’atteggiamento nei confronti degli studenti che parlano un Italiano “non nativo”, in particolare quelli appartenenti alla comunità sino-italiana. Lo studio evidenzia la presenza significativa di pregiudizi nei confronti di chi parla italiano con accento cinese, da parte tanto di professori quanto di allievi. Inutile dire che se da noi il problema non è ancora sotto i riflettori è soltanto perché siamo più indietro dei paesi citati in termini di multilinguismo e multiculturalismo. Nel frattempo, però, vale la pena di domandarsi se prendere in giro una persona per come parla l’italiano, o anche l’inglese, sia una cosa sana da fare.
Su Caritas Italiana
“La costruzione di muri e il ritorno dei migranti in luoghi non sicuri appaiono come l’unica soluzione di cui i governi siano capaci per gestire la mobilità umana”. Così papa Francesco ha stigmatizzato “nazionalismi e populismi si riaffacciano a diverse latitudini”. Anche in Europa. Dalla Bosnia, alla Serbia, alla Polonia, alla Bielorussia, passando per la Grecia, tutti siamo testimoni di una disumanità che stride con i valori su cui è fondata l’Unione Europea. Il dialogo fra stati membri è necessario, ma è altrettanto necessario ribadire che alcuni valori non sono negoziabili, a partire dall’accoglienza e dalla protezione di chi, per una ragione od un’altra, è costretto a lasciare la propria casa.
La crisi dei migranti in questi giorni ha posto nuovamente l’attenzione sulla cosiddetta rotta balcanica, il percorso spesso utilizzato da chi, proveniente principalmente da Afghanistan, Pakistan e Siria, cerca di raggiungere l’Unione Europea alla ricerca di un futuro migliore. Una meta che diventa sempre più difficile e molti sono costretti a dormire all’aperto, in condizioni di estrema precarietà, fino a volte a morire di freddo.
Non possiamo più assistere inermi alla violazione ripetuta dei diritti delle persone che premono ai nostri confini chiedendo protezione. È sorprendente – come ha sottolineato il Presidente Mattarella, “il divario tra i grandi principi proclamati dai padri fondatori dell’Ue e il non tenere conto della fame e del freddo a cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione europea”. Neppure l’arida analisi dei numeri giustifica simili barriere e trattamenti: i richiedenti asilo sono solo lo 0,59% della popolazione dell’Unione che nel bilancio 2021-2027 ha previsto ben 6,24 miliardi di euro per il Fondo per la gestione delle frontiere esterne.
Non si può più temporeggiare, bisogna che l’Unione europea e tutti gli stati coinvolti agiscano con decisione e rapidità per trovare soluzioni almeno temporanee e salvare vite umane.
Nell’area vicino al confine con la Bielorussia è stato introdotto lo stato di emergenza. La Caritas – sottolinea Padre Andrey Aniskevich, Direttore di Caritas Bielorussia – cerca di dare sostegno ai migranti attraverso le parrocchie e una rete di volontari distribuendo aiuti umanitari: coperte termiche, acqua minerale, barrette energetiche e guanti. Anche Caritas Polonia sta fornendo vestiti caldi, prodotti per l’igiene, giocattoli per bambini, cibo a 16 centri di accoglienza. Nei prossimi giorni, nelle aree vicine al confine, verranno erette quattro delle cosiddette Tende della Speranza, a sostegno delle attività delle Caritas parrocchiali locali. Fungeranno da magazzini e luoghi di incontro dove verrà fornita tutta l’assistenza necessaria in questo momento di crisi. Questi aiuti includono la consegna e la distribuzione di vestiti invernali e la preparazione dei pasti.
La Conferenza episcopale polacca, attraverso un appello del Presidente, l’arcivescovo Stanisław Gądecki ha invitato le parrocchie per il 21 novembre a organizzare momenti di preghiera e raccolte fondi, così come hanno fatto nei giorni scorsi i Vescovi della Bielorussia.
Per approfondimenti vai al Dossier “Bussano alle nostre porte: Europa murata”
Foto in evidenza di Caritas Italiana
Durante queste giornate gli esperti discuteranno le attività di Speak Up!, un progetto transeuropeo volto a integrare i giovani migranti appena arrivati attraverso produzioni radio e video e media literacy training.
L’obiettivo generale dell’incontro di esperti internazionali è condividere idee per contribuire all’integrazione dei giovani in movimento nei paesi ospitanti e promuovere il Manifesto di Speak Up!.
L’incontro riunirà formatori coinvolti nella realizzazione di workshop di produzione video e radio con giovani migranti, nonché professionisti che hanno contribuito all’elaborazione e alla promozione del Manifesto per giornalisti e attivisti in Europa, il quale fornisce indicazioni utili ad affrontare meglio le questioni migratorie nei loro media.
Per leggere il programma clicca qui.
Su Altreconomia
Gli Stati membri dell’Unione europea, in collaborazione con Frontex, vogliono rimpatriare almeno 850 cittadini afghani all’anno a partire dall’aprile 2022. Secondo un nuovo bando pubblicato dall’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee, l’Afghanistan rientra infatti tra le “priorità” nella realizzazione di percorsi di reinsediamento e integrazione dei cosiddetti “irregolari” che faranno rientro nel Paese d’origine nel periodo compreso tra il 2022 e il 2026. La presa del potere dei Talebani dell’agosto 2021 sembra così non incidere sulla pianificazione delle istituzioni europee nella gestione del fenomeno migratorio.
L’appalto riguarda le attività congiunte dell’Agenzia con gli Stati membri per fornire assistenza post-arrivo alle persone rimpatriate e prevede un cofinanziamento pari a 14,3 milioni di euro solo per il 2022, con un budget complessivo di oltre 80 milioni di euro da utilizzare entro il 2026. I partner selezionati lavoreranno così per un periodo di quattro anni, con possibilità di proroga di due. L’obiettivo specifico del progetto è quello di garantire “un’assistenza di alta qualità post-arrivo per tre giorni” e un supporto nella “reintegrazione post-rientro a lungo termine per un periodo pari fino a 12 mesi”. Nel bando si legge che la classifica dei Paesi coinvolti è stata sviluppata in collaborazione con gli Stati membri: “Rappresenta i Paesi di rimpatrio classificati in ordine di priorità, sulla base dell’analisi del numero di persone rimpatriate rispetto alla stima dei Paesi d’origine ammissibili e richiesti dagli Stati stessi”.
Il bando è stato pubblicato il 5 novembre 2021 sul sito dell’Agenzia e la definitiva presa del potere dei Talebani in estate non è stata presa in considerazione: l’Afghanistan è al terzo posto, dietro Iraq e Russia. Per ogni Paese è indicata una stima “del numero di persone che avrebbero diritto a ricevere assistenza per la reintegrazione dopo il ritorno, all’anno”. In altri termini, 850 afghani all’anno – così dicono i documenti di gara – dall’aprile 2022 al dicembre 2026 dovrebbero essere supportati nel loro percorso di reinsediamento. Entro metà febbraio 2022 i partecipanti al bando dovranno presentare le proposte specifiche per ogni Paese. Tra i criteri di selezione c’è la disponibilità in capo all’organizzazione di un ufficio nella capitale o nelle principali città dello Stato interessato, una rete di collaborazioni efficace, la possibilità di fare colloqui in presenza e online con le persone supportate, l’accesso a internet. Oltre alla descrizione del processo di reintegrazione si chiede di spiegare “il processo di valutazione della necessità di assistenza specializzata per le persone vulnerabili, compresi, ma non solo, i minori non accompagnati, le donne sole, le vittime della tratta, gli anziani”. Non escludendo così il rimpatrio anche di queste persone.
Non è dato sapere quando sia stata stilata la classifica ma sono rilevanti almeno due profili. Il 10 agosto 2021, pochi giorni prima della presa di Kabul, i ministri degli Esteri di Grecia, Belgio, Danimarca, Austria, Paesi Bassi e Germania hanno inviato una lettera ai commissari dell’Unione europea Mararitis Schinas e Ylva Johansson sottolineando “l’importanza di rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione” nonostante la delicata situazione nel Paese alla luce del ritiro delle truppe internazionali. L’obiettivo era chiaro: non far sì che la ritirata delle truppe internazionali fosse ritenuta automaticamente un motivo per fermare i rimpatri. L’inserimento nel bando dell’Afghanistan è rilevante soprattutto per il medio periodo: sembra difficile che da aprile 2022 si possano organizzare voli charter verso Kabul ma l’esigenza è di non bloccare “automaticamente” le procedure di rimpatrio per i prossimi quattro anni.
Il finanziamento prevede un importo pari a 2mila euro per ogni “pacchetto” a lungo termine post-rimpatrio concesso a colui che sceglie la via del rientro volontario, mille euro per chi viene rimpatriato forzatamente. Per ogni famigliare a carico, a prescindere dalla modalità, vengono aggiunti altri mille euro. Queste somme possono essere utilizzate per il supporto finanziario, l’affitto dell’abitazione e le spese connesse (oltre che l’invio a specifici servizi in caso, ad esempio, di vittime di tratta), l’assistenza sanitaria, l’inserimento scolastico. Oltre questa cifra, sono previsti 615 euro a persona per il supporto per il post-arrivo che coprono le necessità urgenti sanitarie, di sistemazione in alloggi, di trasporto sul territorio. L’analisi degli altri Paesi indicati nel bando sembra dare chiare linee sulla politica di rimpatrio europea: circa 1.400 per l’Iraq, 800 per la Russia, 600 per il Pakistan, 150 Somalia e 250 in El Salvador. Numeri contenuti, invece, quelli riguardanti le persone rimpatriate maggiormente dalle autorità italiane: 75 in Egitto, 50 in Albania e appena 25 in Tunisia. Dal 17 dicembre 2021 sarà possibile conoscere il nome dei partecipanti e, soprattutto, da metà febbraio 2022 l’eventuale strategia per il reinsediamento di cittadine e cittadini afghani nell’inferno di Kabul.
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