Su UNHCR
Secondo il rapporto Mid-Year Trends pubblicato da UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, nel semestre gennaio-giugno 2021 si registra una tendenza al rialzo degli esodi forzati: più di 84 milioni sono le persone costrette nel mondo a fuggire a causa di violenze, insicurezza e degli effetti dell’emergenza climatica.
L’incremento rispetto alle 82,4 milioni di persone costrette a fuggire registrate a fine 2020 deriva in larga parte dall’aumento di sfollati interni, con sempre più persone in fuga dai molteplici conflitti in tutto il mondo, specialmente in Africa. Il rapporto, inoltre, osserva come le restrizioni ai confini imposte dal COVID-19 abbiano continuato a limitare l’accesso all’esercizio del diritto di asilo in numerose parti del mondo.
“La comunità internazionale sta venendo meno alla responsabilità di prevenire violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani, fattori che continuano a costringere le persone a fuggire dalla propria terra”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario ONU per i Rifugiati. “Inoltre, gli effetti dei cambiamenti climatici stanno aggravando le vulnerabilità esistenti in numerose aree che accolgono le persone costrette a fuggire”.
Violenze e conflitti esplosi in tutto il mondo nella prima metà del 2021 hanno portato ora il numero di sfollati interni a quasi 51 milioni. La maggior parte dei nuovi esodi interni si è verificata in Africa, come in Repubblica Democratica del Congo (1,3 milioni di persone sfollate) e in Etiopia (1,2 milioni). Le violenze in corso in Myanmar e in Afghanistan hanno parimenti costretto persone a fuggire durante i primi sei mesi dell’anno.
Anche il numero di rifugiati è continuato ad aumentare nella prima metà del 2021, portandone il totale a quasi 21 milioni. La maggior parte dei nuovi rifugiati proviene da cinque Paesi: Repubblica Centrafricana (71.800 persone), Sud Sudan (61.700), Siria (38.800), Afghanistan (25.200) e Nigeria (20.300).
La combinazione letale di conflitti, COVID-19, povertà, insicurezza alimentare ed emergenza climatica ha aggravato la difficile situazione umanitaria delle persone in fuga, la maggior parte delle quali è accolta in aree geografiche in via di sviluppo.
Le soluzioni in loro favore continuano a scarseggiare. Nei primi sei mesi del 2021, meno di 1 milione di sfollati interni e solo 126.700 rifugiati hanno potuto fare ritorno a casa.
“La comunità internazionale deve fare di piu’ per ristabilire la pace e, allo stesso tempo, assicurare che vi siano risorse a disposizione delle persone costrette a fuggire e delle comunità che li accolgono”, ha aggiunto Filippo Grandi. “Sono le comunità e i Paesi dotati di meno risorse a continuare a farsi maggiormente carico dell’onere di assicurare protezione e assistenza alle persone in fuga, ed è pertanto necessario che siano sostenuti in modo più efficace dal resto della comunità internazionale”.
A giugno di ogni anno, l’UNHCR pubblica i dati annuali inerenti alle migrazioni forzate nel mondo nel rapporto Global Trends.
Il rapporto Mid-Year Trends è disponibile qui.
I dati sulle migrazioni forzate nel mondo sono disponibili qui.
Foto in evidenza di UNHCR/Guerchom Ndebo
Di Ciro Gardi su Altreconomia
Un articolo pubblicato lo scorso anno sulla rivista scientifica statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) indicava che se attualmente solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile (temperatura media annua ≥ 29.0 °C), nel 2070 questa percentuale raggiungerà il 19%, coinvolgendo (in assenza di fenomeni migratori) 3,5 miliardi di persone. Le previsioni dell’entità dei fenomeni migratori per cause ambientali, fornite da diverse ricerche, variano tra i 25 milioni e il miliardo di persone entro il 2050. Tutto dipenderà dagli interventi che riusciremo ad attuare nei prossimi anni in termini di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, e di contrasto ai numerosi processi di degrado ambientale.
La 26esima Conferenza delle parti sul clima di Glasgow costituisce probabilmente un “tipping point” per la politica ambientale globale e per definire il futuro che vorremmo per il nostro Pianeta. Al di la’ degli accordi che si riusciranno o meno a siglare, degli obiettivi che si prefiggerà di raggiungere, un cambiamento delle condizioni ambientali sulla Terra è inevitabile e con esso le migrazioni indotte dalle sempre più frequenti crisi climatiche. Lo stesso “padrone di casa”, Boris Johnson, intervistato dal Guardian ha affermato che un eventuale fallimento nella trattativa alla Cop comporterebbe entro il 2050 migrazioni di massa e carestie, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha presentato alla Conferenza quattro punti chiave in relazione alle migrazioni ambientali.
Ottantadue milioni e quattrocentomila persone nel 2020 sono state costrette a lasciare le proprie case, villaggi, paesi e città a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o di disastri ambientali. Si stima che questo numero possa raggiungere i 260 milioni entro il 2050.
Una moltitudine di persone in fuga che comprende sia i rifugiati, che si spostano al fuori dei propri confini nazionali, sia gli sfollati interni che si muovono invece all’interno dei rispettivi Paesi. Questi dati sono forniti dall’Unhcr, ma si tratta tuttavia di una contabilità incompleta e probabilmente ampiamente sottostimata, poiché considera solo le persone aventi lo status giuridico di rifugiato, i richiedenti asilo e appunto gli sfollati interni. Ma le persone che migrano sono molte di più: 281 milioni a livello internazionale, una persona su trenta che abita questo Pianeta è un migrante: migranti economici, migranti ambientali, rifugiati, ma anche studenti che si trasferiscono all’estero e molto altro e i limiti tra queste categorie non sono così netti.
È evidente che i disastri naturali e quelli indotti o aggravati dall’azione dell’uomo rappresentano circostanze che minacciano non solo l’ordine pubblico ma la stessa sopravvivenza delle persone. Tuttavia da parte del diritto internazionale non esiste a oggi un pieno riconoscimento consolidato dello status di “rifugiato climatico” o “rifugiato ambientale”. Esiste tuttavia una piccola breccia in questa monolitica definizione, costituita dalla decisione assunta dal Comitato dei diritti umani dell’Onu il 7 Gennaio del 2020 in relazione al caso di un cittadino della Repubblica di Kiribati, un atollo dell’Oceano Pacifico, che si era visto negare dalla Nuova Zelanda il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra e che pertanto era stato rimpatriato nel Paese di origine.
Il problema delle migrazioni è estremamente complesso, poiché esiste una strettissima correlazione tra i fattori che ne sono alla base. Gli effetti del cambiamento climatico o delle crisi ambientali non sempre sono distinguibili o dissociabili dalle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone a fuggire dai propri territori di origine. In molti casi i disastri ambientali possono essere la causa di crisi economiche, tensioni sociali, conflitti elimina, in altri casi ne sono la conseguenza.
Le primavere arabe, i conflitti per il controllo dell’acqua ne sono un esempio, così come le devastazioni ambientali lasciate sul campo dai vari conflitti, grandi e piccoli, che si susseguono a ritmi crescenti nelle varie parti del mondo.
In molti Paesi del mondo il numero di migranti e sfollati per cause ambientali supera il numero di persone costrette a fuggire per causa di guerre o persecuzioni razziali o religiose. Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre (2020) il numero di sfollati a causa di conflitti è stato pari a 9,8 milioni di persone, contro i 30,7 milioni di sfollati per cause ambientali.
In questa fase storica, nella quale dopo decenni di appelli inascoltati di una parte della comunità scientifica ci si occupa finalmente del cambiamento climatico, si utilizza spesso la definizione di migranti climatici. Ma anche in questo caso alla base di questi processi migratori (prevalentemente interni ai Paesi fino ad ora) c’è una molteplicità di cause, in parte gli effetti diretti e indiretti del cambiamento climatico, ma anche l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat. Il cambiamento climatico agisce da “amplificatore” di vulnerabilità preesistenti i cui effetti sono tanto più gravi quanto maggiore è la fragilità economica, sociale, culturale delle comunità e dei territori colpiti.
Processi di urbanizzazione spingono le popolazioni delle zone rurali a migrare verso le città con la speranza di trovare maggiori opportunità di sopravvivenza. Questo porta ad aggravare le condizioni di vita, spesso già molto precarie, nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, innescando vere e proprie bombe sociali e potenziali conflitti. È una dinamica che ci “interessa”?
Nell’ambito della Campagna “#Climate of Change” nell’autunno del 2020 è stata condotta un’indagine tra i giovani (tra i 17 e i 35 anni) di 23 Paesi dell’Unione europea in relazione alla percezione della questioni legate a cambiamento climatico, sostenibilità ambientale e migrazioni. Come si può osservare di seguito, il cambiamento climatico, la degradazione ambientale e la diffusione di malattie infettive (effetto Covid-19) sono in testa alle preoccupazioni dei giovani europei, mentre il tema delle migrazioni a scala globale viene considerato un problema secondario. La metà dei giovani intervistati si ritiene sufficientemente informata sul cambiamento climatico, un terzo sul tema delle migrazioni e solo un quarto sulle migrazioni ambientali.
A Glasgow i nodi verranno al pettine, capiremo se i timori, il desiderio di cambiamento delle nuove generazioni verranno presi in seria considerazione. Gli esiti della COP26 sul cambiamento climatico saranno fondamentali, non solo per poter mitigare il cambiamento climatico in atto e limitarne gli effetti sul Pianeta e sulla popolazione umana, ma costituiranno uno spartiacque per decidere verso quali priorità l’uomo, o meglio i decisori politici, intendono andare.
Su Il Post
Lunedì mattina centinaia di migranti, molti dei quali provenienti dal Medio Oriente, hanno raggiunto a piedi il confine tra Bielorussia e Polonia. Sono stati scortati dalle guardie di confine bielorusse, che li hanno poi incoraggiati a entrare in Polonia.
Sono mesi che la Bielorussia accoglie e poi spinge verso il territorio polacco migliaia di migranti e richiedenti asilo, in quello che viene considerato un tentativo di mettere in difficoltà la Polonia e l’Unione Europea, avversari politici del regime autoritario di Alexander Lukashenko: non era mai successo, però, che un numero così alto di migranti venisse spinto verso la Polonia in una sola volta.
Le immagini del flusso di persone tra il confine bielorusso e quello polacco sono state diffuse soprattutto attraverso i social network, con video che mostrano moltissime persone, tra cui famiglie con bambini, che camminano per strada portando con sé sacchi, zaini e qualche vestito. Le persone si trovavano nella strada che porta dalla cittadina bielorussa Bruzgi a quella polacca Kuźnica, da un lato all’altro del confine tra Bielorussia e Polonia. Nei video si vede bene che sono state scortate e accompagnate verso il confine polacco dalle guardie di confine bielorusse.
Non si sa di preciso quante fossero: Reuters ha parlato di centinaia di persone, il Guardian di circa circa 500. Non si sa di preciso neanche la loro provenienza, anche se si suppone che arrivino soprattutto dal Medio Oriente, come gli altri migranti che nei mesi scorsi sono arrivati in quella zona. Non è facile avere notizie precise anche perché, come spiegato dal sito di attualità polacca Notes from Poland, è molto difficile per i media indipendenti raggiungere quella zona e raccontare quanto sta accadendo a causa dello stato di emergenza in vigore al confine con la Bielorussia, imposto settimane fa dalla Polonia in risposta al flusso di migranti in arrivo ai suoi confini (lo stato di emergenza rende difficile raggiungere l’area anche a giornalisti e membri delle ong).
Secondo alcune testimonianze riportate dal Guardian, i migranti sarebbero stati attirati dalla Bielorussia, che avrebbe concesso il visto e offerto loro voli per raggiungere Minsk, la capitale del paese, promettendogli poi di portarli nell’Unione Europea. Una volta raggiunto il confine, però, i migranti non sono riusciti a entrare in Polonia perché il governo polacco da giorni presidia le frontiere con la Bielorussia: si stima che oggi a presidiarle ci fossero 12mila soldati. I migranti si trovano ancora al confine tra i due paesi.
Negli ultimi mesi la Bielorussia ha di fatto aperto una nuova rotta migratoria verso Polonia, Lituania e Lettonia, concedendo a migliaia di migranti visti per raggiungere Minsk, per poi accompagnarli al confine con questi paesi, sperando di provocare una crisi come ritorsione per l’appoggio offerto dall’Unione Europea all’opposizione a Lukashenko, e per le sanzioni imposte contro il suo regime.
In risposta all’imponente arrivo di flussi di migranti – nel 2021 in Polonia sono stati registrati 23mila ingressi illegali, quasi la metà dei quali solo nel mese di ottobre – Polonia e Lituania hanno annunciato la costruzione di barriere fisiche, e lunedì la Lituania ha detto che seguirà l’esempio della Polonia nell’imporre anche uno stato di emergenza ai propri confini. Sono misure molto controverse e criticate dagli attivisti per i diritti umani, dato che, secondo le norme europee, chiunque mette piede in uno stato europeo ha diritto a chiedere asilo in quel paese.
Nelle ultime settimane la situazione sta scivolando verso una grave crisi umanitaria: con l’arrivo del freddo i migranti si trovano ad attraversare boschi e strade ghiacciate, senza essere attrezzati né avere cibo o assistenza medica. Secondo Infomigrants fra l’estate e l’inizio di novembre sono stati trovati i corpi di almeno dieci migranti morti al confine fra Bielorussia e Polonia.
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Su Redattore Sociale
Un nuovo canale di ingresso legale per cittadini afghani bisognosi di protezione internazionale provenienti dai campi profughi di Pakistan e Iran o da altri Paesi di primo asilo o di transito. È l’obiettivo del protocollo di intesa firmato il 4 novembre al Viminale, alla presenza della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.
In tutto saranno 1.200 i nuovi beneficiari del progetto. “Questo protocollo contiene una novità, prevede l’impegno diretto anche del governo italiano e di organismi internazionali. Si ispira a un principio di collaborazione tra pubblico e privato sociale che rafforza il progetto e lo incardina nelle politiche del governo” sottolinea Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia -. La presenza della Ministra attesta la rilevanza di questo passaggio che reagisce alla colpevole inerzia della Europa”.
Il protocollo, firmato oggi, contiene la sintesi di un lavoro coordinato dal dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale insieme ai rappresentanti del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale (Maeci), della Conferenza episcopale italiana, della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese Evangeliche, della Tavola Valdese, dell’Associazione ricreativa e culturale italiana (Arci), dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà (Inmp), dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).
“Siamo molto felici di partecipare per la prima volta al progetto dei corridoi umanitari come organizzazione laica – sottolinea Filippo Miraglia di Arci -. Anche se preferiremmo non farlo, perché vorrebbe dire che non c’è nessuno che necessita di protezione”.
Dei 1200 beneficiari circa 400 saranno selezionati tramite le liste dell’Unhcr che lavora nei campi profughi al confine, altre segnalazioni le faranno le associazioni. In particolare si tratterà di persone che hanno collaborato con le ong internazionali e ora sono particolarmente a rischio. “Noi siamo in collegamento e in accordo con le ong italiane presenti a Kabul, accoglieremo le persone nelle nostre case rifugio – aggiunge Miraglia -. Daremo in prevalenza accoglienza a quelle donne che sono militanti, attiviste dei diritti umani, giornaliste e che ora stanno rischiando la vita. Ci occuperemo, poi, di minori non accompagnati e delle persone lgbt che si nascondono a Kabul. Proveremo a farle uscire, tenteremo cioè di fare un vero corridoio dall’Afghanistan”.
Miraglia ricorda che “ i corridoi umanitari sono importanti, ma l’iniziativa resta limitata nei numeri rispetto alle necessità: ci sono 2 milioni di afghani fuori dall’Afghanistan. In Europa l’ unico paese che ne accoglie un numero significativo è la Germania con 148mila presenze. L’Unhcr ha chiesto il reinsediamento per 42mila persone in 5 anni. Servono interventi più cospicui. La crisi è enorme. Inoltre – conclude – oggi più che mai non si possono giustificare i respingimenti alle frontiere in Polonia, sulla rotta balcanica e nel Mediterraneo centrale”.
Impagliazzo (Sant’Egidio): “Un modello per l’Europa”. Intervenendo alla firma, anche il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo ha dichiarato: “La presenza del ministro Lamorgese sottolinea l’importanza di questo momento e il fatto che l’Italia è un paese dalla vocazione umanitaria. Sui corridoi umanitari – una best practice che tanti ci imitano e dovrebbero imitare – misuriamo la sinergia tra società civile e istituzioni”.
E ha aggiunto: “Questo protocollo nasce da un sentimento emerso nel popolo italiano ad agosto davanti alle immagini drammatiche provenienti da Kabul. Abbiamo voluto dare una risposta a chi era rimasto in Afghanistan e a chi era riuscito a raggiungere i paesi limitrofi. Dopo aver accolto 100 persone durante le evacuazioni, ci offriamo ora di accoglierne altre 200 con i corridoi umanitari, un sistema che permette, nella via della legalità, accoglienza e integrazione, una pratica innovativa per affrontare il fenomeno dell’immigrazione”.
Mons. Russo (Cei): “I corridoi umanitari diventino strumento strutturale di gestione dell’immigrazione”. “Proseguiamo nella positiva sperimentazione dei corridoi umanitari che, a partire dal 2017, hanno permesso alla Chiesa che è in Italia di farsi prossima a quanti necessitano di protezione internazionale. Grazie a Caritas Italiana, infatti, la Cei ha già contribuito ad offrire un’alternativa legale a oltre mille persone provenienti dall’Etiopia, dal Niger, dalla Turchia, dalla Giordania – ha affermato mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei -. I corridoi umanitari rappresentano una via sicura per coloro che sono costretti a fuggire dalla propria terra e, allo stesso tempo, dimostrano che soggetti istituzionali, governativi e non, della società civile e religiosa possono cooperare fattivamente per trovare soluzioni concrete al dramma delle migrazioni. Per questo auspichiamo che quello dei corridoi umanitari diventi uno strumento strutturale di gestione delle politiche migratorie”.
Unhcr: “Bene, ma continuare a lavorare anche su altri strumenti”. “Lavoriamo da 40 anni al fianco della popolazione afghana, e ci siamo attivati immediatamente anche per rispondere a questa nuova crisi, ma i bisogni crescono di ora in ora e i programmi come questo rappresentano un’ancora di salvezza per le persone in fuga – ha affermato Chiara Cardoletti, rappresentante Unhcr per Italia, Santa Sede e San Marino -. Chiaramente i corridoi umanitari non possono da soli rispondere a tutti i bisogni e per questo motivo bisognerà continuare a lavorare su altri strumenti quali il reinsediamento, il ricongiungimento familiare e il sostegno alla popolazione che rimarrà in Afghanistan, più che mai importante perché’ l’inverno è alle porte”.
“Unhcr è molto grato all’Italia per aver già trasferito 5000 persone in serio pericolo e per questo ulteriore impegno nell’offrire un canale di ingresso sicuro a 1200 persone – ha aggiunto Cardoletti -. Non c’è dubbio che questo paese sia in prima linea nell’offrire soluzioni per i rifugiati, spesso in maniera innovativa grazie alla sinergia tra le autorità, la società civile e le organizzazioni internazionali”.Sempre per la rappresentante dell’Unhcr, “sono necessari più posti nei programmi di ingresso regolare quali i corridoi ed il reinsediamento, non solo per dare una risposta urgente ai bisogni delle persone in pericolo ma anche come segnale tangibile di solidarietà nei confronti dei paesi che fino ad oggi hanno sostenuto il peso maggiore dell’esodo della popolazione afgana. Questi programmi offrono un’alternativa credibile al traffico degli essere umani e ai movimenti irregolari. Chiaramente queste misure non possono sostituire la possibilità per le persone in fuga di avere garantito l’accesso alle frontiere per chiedere protezione”.
Su moked
“Per ora tanti proclami, ma purtroppo fatti assai meno. Se nelle prossime settimane non ci saranno cambiamenti significativi sarà necessario intervenire in modo ancora più stringente. Per fare in modo che le cose cambino sul serio”. Triantafillos Loukarelis dirige dal 2019 l’Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio. Tra gli osservati speciali spicca il mondo del calcio, spesso al centro delle cronache per episodi che ben poco hanno a che fare con la pratica agonistica e le buone pratiche del tifo. Questo primo scorcio di stagione ha confermato un trend allarmante. Loukarelis si dice preoccupato, ma anche intenzionato a dare battaglia.
Ululati, insulti razzisti, esaltazione del fascismo: un male antico che il calcio italiano non sembra riuscire a scrollarsi di dosso…Duole dirlo, ma davanti a queste manifestazioni non nuove la reazione delle squadre di Serie A non si sta rivelando all’altezza. Urgono correttivi urgenti. Prima di tutto serve che le società facciano rete, anche esprimendosi attraverso comunicati congiunti a prescindere da dove il singolo episodio accade e da quale tifoseria è coinvolta. È un tema sul quale stiamo cercando di stimolare la massima attenzione.
Quello del pallone è un fronte sul quale l’Unar è da tempo in prima linea.Sì, cerchiamo di farlo consapevolmente e responsabilmente. Una delle nostre battaglie è quella per la generalizzazione del daspo, di modo che chi lo riceve si veda precluso l’accesso a ogni stadio italiano. Se dovessero verificarsi altri episodi gravi stiamo valutando di rivolgere un appello ai calciatori: chiedendo loro, ad esempio, di farsi promotori dell’interruzione delle partite. So bene di entrare in un territorio difficile, con tanti interessi in gioco. È una sorta di extrema ratio, ma la sensazione è che si stia tirando un po’ troppo la corda.
Cosa pensa del caso del falconiere fascista della Lazio? E della reazione del club?La reazione è stata insufficiente. Sospendere non è una risposta adeguata ai fatti, di quel contratto andava fatta carta straccia. Il rischio altrimenti è di mandare messaggi ambigui. E di ambiguità qui ne abbiamo molta: le simpatie politiche del falconiere non saranno certo emerse nel momento in cui il video è diventato virale. Troppo facile e scontato condannare quando si apre un caso mediatico. D’altro canto registro con favore la mobilitazione di una parte non irrilevante della tifoseria organizzata che ha chiesto l’inasprimento delle misure. Il segno che la misura è colma e che a contrasto servono atti concreti.
Non è un problema che riguarda solo la Lazio.Certamente no. Parliamo di un problema diffuso che sporca l’immagine del calcio italiano e di riflesso quella di tutto il Paese. Mi vengono in mente alcune dichiarazioni di Osimhen, l’attaccante nigeriano del Napoli, sulle sue iniziali titubanze all’idea di trasferirsi in Italia. Proprio per una questione di razzismo. L’Italia, nell’immaginario comune, è una realtà razzista. Se non si capisce di per sé quanto ciò sia grave, poniamo la questione in altri termini. Gran parte della positiva influenza della forza lavoro straniera, e non sto parlando solo di pallone, guarderà per forza di cose altrove. E l’Italia sarà sempre più povera e arretrata.
Quale è, parlando di razzismo in Italia, la valutazione dell’Unar?Rispetto ad un tempo non così lontano il linguaggio d’odio istituzionale sui migranti appare più sfumato. Ma purtroppo nulla o comunque ben poco si sta facendo per far progredire la società verso livelli di coesistenza e reciproca comprensione accettabili. In questo clima non propizio si innesta un’estrema destra cui è stato dato troppo spazio e che oggi si è presa la scena con effetti devastanti che sono sotto gli occhi di tutti. Contro queste frange è necessario che si prendano misure decise e determinate.
Cosa pensa dell’ipotesi di scioglimento di Forza Nuova?Tutti i gruppi che hanno il fascismo come ragione di vita vanno sciolti: su questo non ritengo possibili compromessi. Ancora più urgente sarebbe togliere a questi movimenti le sedi, i luoghi fisici dove si incontrano. Ad esempio sfrattando CasaPound dall’edificio che occupa in spregio alla legge, ormai da molti anni, a pochi passi dalla stazione Termini. È un segnale che serve: lo Stato si riprenda i suoi spazi, ponendo fine ad abusi intollerabili.
Su quali campagne si sta concentrando l’Unar?Stiamo lavorando sulle grandi strategie che ci chiede l’Unione Europea e che ci aspettiamo siano adottate dal governo: l’integrazione di rom, sinti e caminanti; la promozione dei diritti e la tutela delle persone LGBT; l’impegno contro razzismo, xenofobia e intolleranza. In questo senso, centrale sarà l’impegno contro l’antisemitismo e per una formale adozione della definizione dell’Ihra.
La lotta all’antisemitismo è il tema di una specifica strategia europea di recente presentazione. Una svolta?Mi pare di sì. Finalmente si è superata una certa timidezza, per guardare in faccia il problema con serietà e pragmatismo. Importante anche che si sia dato un segnale di attenzione al futuro della vita ebraica in Europa, con specifici investimenti volti a sostenerla. È stato già detto tante volte, ma meglio ripetersi: senza ebrei, l’Europa non sarebbe più la stessa.
Un articolo di Estella Carpi, Sara Al Helali e Amal Shaiah Istanbouli su openDemocracy, traduzione a cura di Rosamaria Castrovinci su Voci Globali
In tutto il mondo proliferano programmi di “inclusione” e di “integrazione” indirizzati ai rifugiati vittime di sfollamento, ma spesso non funzionano da catalizzatori della coesione sociale. Il che non è una sorpresa quando i cittadini del Paese di accoglienza non sono adeguatamente istruiti e informati sull’inclusione e integrazione dei migranti.
Anzi, tali programmi – lungi dall’essere in alcun modo radicali – non sono solamente inefficaci, ma sono anche politicamente conservatori. Questo perché principalmente non considerano la mobilità umana come un processo continuo e trasversale in tutti i gruppi sociali.
Nella storia contemporanea della migrazione forzata, la maggior parte dei programmi umanitari e di sviluppo si è rivolta principalmente all’assistenza ai rifugiati e ai richiedenti asilo, insistendo sui loro diritti e sui loro bisogni. Le associazioni della società civile e i gruppi di attivisti che, in generale, partecipano apertamente alla mobilitazione politica, spesso finiscono per adottare una strategia simile, focalizzandosi solo su un lato della medaglia durante le campagne di sensibilizzazione e i programmi di assistenza.
Fatta questa premessa, va detto che in alcune città e paesi a volte si svolgono piccole sessioni informali di informazione sulla migrazione forzata e sulle attività di integrazione che richiedono il coinvolgimento dei Paesi di accoglienza, ma non sono incluse nei programmi ufficiali di educazione fin dai primi anni di vita.
Tale carenza di un approccio sistematico per “educare il Paese ospitante” rispecchia un’offerta informativa molto poco convincente. Dovrebbe essere promossa l’educazione all’empatia per quei gruppi sociali che si mostrano indifferenti a questioni socialmente rilevanti come quelle della migrazione forzata e a tutto ciò che concerne l’accoglienza dei rifugiati.
Dai dati raccolti in Libano e in Turchia negli ultimi quattro anni, come parte del progetto Southern-led Responses to Displacement from Syria condotto dalla professoressa Elena Fiddian-Qasmiyeh alla University College di Londra, è emerso come molti dei rifugiati siriani intervistati abbiano sottolineato la necessità per i Paesi di accoglienza di essere “formati” circa l’esperienza della guerra e dello sfollamento per poter comprendere le motivazioni dell’arrivo dei migranti e per capire come accettare e sostenere i rifugiati appena arrivati all’interno delle loro società.
“I Governi e le autorità locali dovrebbero cercare, tramite i media, di trasmettere messaggi che incoraggino la popolazione locale a sostenere i Siriani o, quantomeno, che prevengano atteggiamenti razzisti. Tali messaggi dovrebbero essere indirizzati in particolare agli studenti locali“, ha spiegato una rifugiata siriana intervistata a Hatay, in Turchia.
In realtà è stato segnalato il suicidio di uno studente di nove anni rifugiato in Turchia nell’ottobre del 2019, come conseguenza dell’estremo razzismo subito a scuola, mentre i media locali e nazionali continuavano ad alimentare ondate di xenofobia in tutta la Turchia dall’inizio della crisi umanitaria in Siria.
Analogamente, un gran numero di rifugiati siriani ha affermato di avere la convinzione fuorviante che essi stessi costituiscano unicamente un fardello per le “economie ospitanti”.
Un rifugiato siriano a Gaziantep, città della Turchia, suggeriva che “i Governi dei Paesi arabi dovrebbero contribuire a educare la propria popolazione affinché i rifugiati siano accettati nei loro territori e ne sia facilitata l’integrazione: i Governi devono chiarire che i rifugiati non ricevono aiuti che vanno a discapito dell’economia ospitante.”
Un altro sosteneva che i suoi buoni in contanti non sono un regalo dei Governi ospitanti, e che veicolare questo messaggio pubblicamente alleggerirebbe le tensioni locali. Quello di educare i Paesi di accoglienza è spesso indicato come uno strumento efficace per ridurre il risentimento contro i rifugiati e stimolare un’empatia consapevole all’interno della società locale.
Uno studente di un villaggio del Libano del Nord ha confermato questa ipotesi: “Io non so molto di ciò che è successo in Siria nel 2011. Vedo soltanto un mucchio di siriani qui. Come posso imparare la loro storia se queste cose non vengono insegnate a scuola?“, ha chiesto.
Nelle interviste ed esperienze fatte in Turchia e Libano, le ONG internazionali sono state indicate come soggetti potenzialmente influenti nell’educazione delle popolazioni dei Paesi di arrivo su cosa significhi ospitare attivamente i rifugiati. Infatti, alcuni grandi enti umanitari e che si occupano di sviluppo hanno la capacità di esercitare pressione sui media internazionali e, a volte, anche sui Governi.
Le considerazioni di cui sopra, provenienti dai rifugiati, sollevano una questione fondamentale: quali sarebbero i luoghi più sicuri e adeguati per mettere in atto l’impresa di educare i Paesi ospitanti? In molte città l’accoglienza dei rifugiati è altamente politicizzata e viene regolarmente strumentalizzata dai detentori del potere locale per guadagnare elettori.
Una domanda che bisogna porsi è se davvero l’empatia possa essere “insegnata”. Tuttavia, sebbene la risposta a una domanda del genere sia piuttosto complessa, accettare lo status quo non è un’opzione.
Per fare un esempio, la presenza di programmi educativi ufficiali sull’emigrazione forzata nei Paesi di accoglienza aiuterebbe a combattere pubblicamente l’incitamento all’odio e a ispirare la comprensione della gente fornendo un quadro storico e giuridico sull’accoglienza dei rifugiati.
Attività ed eventi informali vengono organizzati spesso in città che ricevono un gran numero di migranti forzati, sia nel Nord che nel Sud del mondo.
In Europa, alcune città e paesi ospitano eventi gestiti dagli stessi comuni o iniziative portate avanti da gruppi con lo scopo di promuovere l’integrazione attraverso attività culturali o il dialogo interreligioso.
In città come Beirut e Istanbul, gli attivisti locali hanno organizzato numerose attività come la proiezione di film sulla Siria e tavole rotonde sull’argomento, allo scopo di sensibilizzare la società civile. Eppure queste iniziative spesso non riescono a raggiungere tutti i gruppi sociali e, inoltre, mancano ancora della comunicazione ufficiale sull’emigrazione forzata.
La responsabilità e la capacità di integrarsi e di essere inclusi sono, invece, esclusivamente ascritte agli stessi rifugiati. Paradossalmente,le società che ricevono i rifugiati sono ufficialmente definite “Paesi d’accoglienza”, senza però che accolgano attivamente.
Non si tratta di rifiutare l’importanza dell’integrazione e dell’inclusione nelle società contemporanee, ma piuttosto di battersi per la sana convivenza e la conoscenza reciproca tra gli abitanti di vecchia data e i nuovi arrivati in quelle società.
La comunità internazionale deve applicare la formula riguardante la “capacità di integrazione” non tanto ai rifugiati quanto ai Paesi ospitanti, e prendere atto della necessità di un progetto reale, con percorsi educativi obbligatori e a lungo termine.
Alcuni potrebbero vedere questo invito a educare il Paese ospitante come una mossa ideologica e, di conseguenza, opinabile, ma la verità è che a prescindere da che lo si voglia o no, le persone continueranno a spostarsi, e la sostenibilità del benessere di tutti non può che essere una questione condivisa.
Di Nello Scavo su Avvenire
A mezzogiorno in punto il poliziotto afghano raduna il gruppo con il piglio di chi non ha dimenticato come si danno gli ordini. Il disertore si fa precedere da un meditato silenzio. Poi il ragazzo che guida le preghiere si alza in piedi. Comincia salmodiando, infine implora «il Misericordioso di farci arrivare insieme, tutti salvi». E di tenere alla larga le spranghe dei poliziotti croati.
Se non torneranno indietro, non vuol dire che ce l’avranno fatta. A ricordarglielo è il luogo scelto per la partenza: Merzarje, il cimitero sulla collinetta, lungo la strada che conduce al confine Nord. Ai piedi dei ceppi verdi sono sepolti gli “NN”, i caduti senza nome della rotta balcanica. L’ultimo l’hanno trovato annegato in un torrente pochi giorni fa. Un altro, completamente spolpato dai lupi nella fitta boscaglia, è stato rinvenuto da alcuni ragazzi che tentavano il “Game“. Le bestie gli hanno risparmiato solo la faccia. L’espressione del volto, che ci viene consegnata dai loro telefoni, toglie il sonno. Ma a loro non toglie la voglia di riprovarci. Perché nessuno scapperebbe per quattromila chilometri dai nuovi padroni di Kabul per finire incastrato a un passo dall’Ue.
«Molti altri ne stanno arrivando – assicura l’ex agente –. Adesso comincia l’inverno, ma quando sarà primavera altre migliaia di afghani riusciranno a raggiungere questi luoghi». Quest’anno dal Paese si stima siano transitate non meno di 10mila persone: circa 5mila si trovano ancora all’interno, ma si tratta di stime prudenziali.È il momento. L’improvvisato muezzin smette. Il “Game” comincia. Qualcuno ascoltava in lacrime. La spalla fa ancora male, dopo l’ultima gragnuola di manganellate degli agenti croati. Altri ridono per esorcizzare la malasorte che qui ha un solo nome: pushback, i violenti respingimenti alla frontiera.
Il “Border Violence Monitoring Network” ha esaminato e verificato 35 pushback solo a settembre e ai danni di 815 persone. Più di uno al giorno. «Oggi non toccherà a noi» si ripetono a vicenda come combattenti prima di assaltare le prime linee nemiche.Il poliziotto ci ha messo un paio di mesi ad arrivare fin sull’altopiano, che preannuncia quei monti che l’autunno colora di rosso. Il viaggio gli è costato parecchi risparmi, specie per pagarsi certe scorciatoie. Del resto «il ministero non ci pagava lo stipendio da tempo e, se proprio devo morire, almeno non sarà per mano dei taliban».
Anche per i governanti della Bosnia è una questione di soldi. Argomento spinoso, in un Paese che nell’ultimo anno ha perso 10 posizioni nella graduatoria mondiale della corruzione, ora al 111esimo posto su 180 Stati analizzati da Transparency International. Difficile sapere con certezza che fine faccia tutto il denaro. Dall’inizio del 2018 Bruxelles ha fornito più di 88 milioni di euro direttamente alla Bosnia-Erzegovina o tramite organizzazioni partner per far fronte alle esigenze immediate di rifugiati, richiedenti asilo e migranti.
I piccoli Erdogan dei cantoni balcanici sanno di avere il coltello dalla parte del manico. Per esempio rifiutandosi di aprire ulteriori strutture di accoglienza o chiudendone alcune tra quelle esistenti, come quelle fin dall’inizio definite “temporanee” a Bira a Bihac. E, in mancanza di un tetto, la frequenza degli attraversamenti cresce.
Giovedì sera si era sparsa la voce che una delegazione di europarlamentari sarebbe tornata per dare un’occhiata. All’alba di venerdì le ruspe spianavano l’accampamento di Velika Kladusa, con le famiglie caricate di peso e trasportate 400 chilometri più a sud, a Sarajevo. Non prima di avere decretato per i migranti il divieto di trasporto su autobus pubblici o taxi privati. «Non è una questione di soldi», vanno ripetendo il sindaco di Bihac e il governatore del cantone di Una-Sana. Sarà, ma mai una volta che i bonifici vengano respinti al mittente. A giugno la Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno firmato tre accordi di sovvenzione, per un valore totale di 900mila euro, indirizzati all’assistenza essenziale a migranti e rifugiati in Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord. Il nuovo stanziamento si è reso necessario a causa della pandemia. Complessivamente la Banca ha messo a disposizione dei progetti nel Balcani quasi 14 milioni di euro. Da sommare agli 88 dell’Ue.
Il campo di Lipa resta il simbolo del ricatto. Grazie al lavoro delle organizzazioni come Ipsia-Acli, Caritas e Croce rossa, è stata concessa mesi fa l’apertura di un tendone-refettorio dove si può prendere un caffè caldo, giocare a scacchi e perfino a badminton. Gli europarlamentari venuti a controllare a nove mesi di distanza hanno trovato parecchi miglioramenti e i lavori in corso per l’apertura di un campo nel quale accogliere i migranti non più dentro alle tende militari, ma all’interno di container riscaldati con sei posti letto. «Siamo ancora lontani dagli standard che ci attendevamo venissero rispettati. Si sono fatti passi avanti, ma si sono spesi anche molti fondi, per poi vedere che in questi piccoli spazi potrebbero venire ammassate fino a 1.500 persone», dice la delegazione del gruppo dei socialdemocratici composta da Alessandra Moretti, Elisabetta Gualmini, Pietro Bartolo e Pierfrancesco Majorino.
Fuori dal campo di Lipa, sotto gli occhi della polizia, nella spianata di fango in mezzo al niente, sono stati aperti un paio di minimarket e un bar con veranda sul campo profughi. Li gestiscono alcuni commercianti di Bihac che hanno trasformato vecchi container in negozi di fortuna. E siccome per fare affari ci vuole fiuto, certo ne ha avuto il bottegaio che ha installato una baracca con tanto di insegna: “Game shop“. Vende l’occorrente per il percorso: torce, accendini, sacchi a pelo usati, power bank, barrette energetiche, vecchi cellulari, sim card e nastro adesivo con cui impacchettare e sigillare le poche cose della vita di prima: foto dei familiari, numeri di telefono da non perdere, gli ultimi spiccioli rimasti in tasca.È anche da questo che al cimitero di Mezarje capiscono se i morti senza nome sono vittime di un respingimento o se stavano ancora tentando il passaggio del confine. Di solito, i respinti, vengono spogliati e ripuliti di ogni centesimo e ogni ricordo. Dovessero cadere senza più rialzarsi, di loro non resterebbe che un mucchio di terra. E nessun colpevole.
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha ricordato in un’intervista all’edizione domenicale della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» le sfide affrontate dopo l’arrivo di quasi 890mila migranti in Germania nel 2015. «La situazione in quel momento era pressante anche per me, perché sapevo, come tutti, che 10mila persone non potevano trasferirsi in Germania ogni giorno in modo permanente, ma che bisognava trovare strade percorribili sia per le persone in cerca di rifugio che per il nostro Paese».Merkel ha ricordato di aver presto pensato a raggiungere un accordo con la Turchia in modo che i profughi siriani potessero essere accolti e curati lì. «Ma avevo bisogno di un po’ di tempo», ha aggiunto. La cancelliera ha ribadito che la Germania non può risolvere da sola la questione migratoria, «almeno non in modo sostenibile a lungo termine, ma – ed è nella natura della cosa – solo come parte dell’Europa e in questo caso specifico solo insieme alla Turchia».
«Il fatto che l’accordo con la Turchia abbia avuto successo è positivo per entrambe le parti fino ad oggi», ha aggiunto, sottolineando il valore dell’intesa, che le sembra ancora significativa: «Ha fatto molto per portare più ordine nelle migrazioni e per aiutare la Turchia a trattare con dignità i milioni di rifugiati siriani presenti. E ha frustrato per anni il malvagio traffico dei contrabbandieri e trafficanti».
Foto in evidenza di Nello Scavo/Avvenire
Su Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio
Con una lettera inviata direttamente alla Presidente del Senato, abbiamo espresso ieri tutta la nostra preoccupazione per la possibilità che la votazione odierna di “non passaggio agli articoli” potesse avvenire a scrutinio segreto. E che questa possibilità determinasse lo stop all’esame degli articoli e degli emendamenti del ddl, ovvero lo stop all’iter parlamentare del testo.
La preoccupazione era purtroppo fondata. Con 154 voti favorevoli e 131 contrari (con un rovesciamento di fronti rispetto alle previsioni di chi, ottimisticamente, presagiva un passaggio in aula senza sorprese), il Senato si è infatti espresso per il “non passaggio” agli articoli, decretando così – di fatto – l’affossamento del ddl.
Vista l’importanza sociale del provvedimento in discussione, fino all’ultimo abbiamo chiesto un voto palese per la seduta di oggi in Senato, e auspicato un esito positivo del confronto in aula, che portasse a una rapida approvazione del ddl per dotare anche il nostro Paese di una norma di civiltà e per garantire il rispetto della Costituzione.
Così non è stato, e chi ha voluto questo esito – anche nascondendosi dietro al voto segreto – dovrà in qualche modo risponderne di fronte al Paese, alla società civile, ai propri elettori, e soprattutto di fronte alle persone che, a seguito di questa votazione, non potranno avvalersi di un equo trattamento sul piano giuridico e di una piena cittadinanza sul piano dei diritti civili.
Inutile nasconderlo: si tratta certamente di una sconfitta bruciante per chi subisce discriminazioni per motivi di sesso, genere, identità di genere e abilismo. E quindi è una sconfitta bruciante per la società e la politica tutta, che a causa delle posizioni più retrive di molti sue/suoi esponenti, invece che estendere diritti e tutele – come sarebbe normale che fosse in un paese ‘normale’ – sancisce la liceità di discriminazioni, e quindi di discorsi d’odio e violenze, verso determinate persone e gruppi di persone.
È una sconfitta che lascia amarezza, sconcerto, rabbia. E non potrebbe essere altrimenti, visto il nostro costante e continuo sostegno al ddl Zan, e vista la grande battaglia civile e culturale portata avanti insieme a tante persone, con convinzione e determinazione.
Ma è anche – proprio per questo – una sconfitta che ci chiede, oggi più che mai, di non arretrare di un passo nella difesa dei diritti umani e nel contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. Perché se la maggioranza dei senatori e delle senatrici ha scelto oggi di seguire le istanze più conservatrici di una parte del Paese, noi continueremo a batterci insieme alla società civile contro le discriminazioni e le diseguaglianze formali e sostanziali. E per i diritti di tutte le persone.
Alla cortese attenzione della Presidente del Senato,
Senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati
P.c. alla c.a. dei/delle Capigruppo al Senato
Il 4 novembre dello scorso anno la nostra Rete – cui aderiscono studios* di rilevanza internazionale, università e dipartimenti universitari, e le più importanti realtà che da diversi anni si occupano di mappare, prevenire e combattere i discorsi ed i fenomeni d’odio – salutò con grande soddisfazione l’approvazione da parte della Camera del testo unificato di proposta di legge, con primo firmatario l’On. Zan, denominato ”Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità”.
L’approvazione arrivò, finalmente, dopo la parziale sospensione dei lavori delle Camere dovuta all’emergenza Covid nel corso del 2020, e – soprattutto – dopo che due proposte di legge contro l’omofobia furono sottratte al dibattito parlamentare durante la XVI legislatura, nel 2009 e nel 2013. E fu accolta con grande entusiasmo anche perché l’Italia era molto in ritardo, rispetto a molti altri paesi, nell’accogliere le raccomandazioni delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e di vari documenti di soft e hard law dell’Unione Europea in tema di diritti umani delle persone LGBTI+ e di contrasto alla misoginia.
Come già avviene in molti paesi, dalla Francia alla Germania, dall’Austria alla Svizzera, il disegno di legge Zan propone – come è noto – la perseguibilità di reati motivati da stigma (in particolar modo nei confronti delle persone omosessuali, transessuali, e disabili) insieme all’introduzione di strumenti di prevenzione del crimine e di assistenza alle vittime di questi reati. La proposta di legge riguarda infatti l’estensione della punibilità già prevista dagli artt. 604 bis e 604 ter c.p. per le condotte di commissione di atti discriminatori o istigazione alla commissione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, anche alle medesime condotte per motivi di genere, sesso, identità di genere, orientamento sessuale e disabilità.
Alla luce delle contestazioni, anche plateali, che hanno accompagnato l’iter dell’approvazione nel primo ramo del Parlamento, occorre precisare che il testo approvato dalla Camera non punisce idee, opinioni e manifestazioni di pensiero, bensì condotte: il testo licenziato dalla Camera il 4 novembre del 2020 reprime infatti l’istigazione a commettere reati di discriminazione (i c.d. discorsi che incitano all’odio) e la commissione di reati fondati sulla discriminazione, ossia i comportamenti aggressivi motivati da discriminazione, come chiaramente emerge dalla lettera del disegno di legge, e in particolare dal suo art. 4.
Sottolineiamo inoltre l’importanza degli strumenti di prevenzione e di sostegno alle vittime che sarebbero finalmente introdotti nel nostro ordinamento con la definitiva approvazione del disegno di legge, ovvero: a) la previsione di stanziamenti a favore dei centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere, per prestare assistenza legale, sanitaria, psicologica e materiale alle vittime dei reati di odio e di discriminazione; b) l’inserimento nell’offerta formativa scolastica di programmi di sensibilizzazione nei confronti di questo tipo di discriminazioni; c) il riconoscimento del 17 maggio quale giornata nazionale contro l’omofobia, dedicata alla promozione della cultura del rispetto e dell’inclusione nonché al contrasto dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Come sappiamo dal nostro costante lavoro di monitoraggio e contrasto alle discriminazioni, in Italia esiste un serio problema di discriminazione verso le persone omosessuali, transessuali e disabili, nonché un sistema di arretratezza culturale e sociale nei confronti delle donne che fomenta misoginia, violenze e femminicidi. Una realtà che è sotto gli occhi di tutti, come purtroppo ci ricordano le gravissime aggressioni omofobe che spesso si verificano lungo tutta la Penisola, e l’agghiacciante e pressoché giornaliera cronaca riguardante i femminicidi.
L’approvazione del disegno di legge anche da parte del Senato permetterebbe di dotare la magistratura di norme adeguate e le vittime di una tutela legale dei loro diritti, e consentirebbe finalmente l’avvio di percorsi culturali e sociali volti a rimuovere alla radice i pregiudizi discriminatori.
Come Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e fenomeni d’odio auspichiamo pertanto che il Senato proceda speditamente all’esame del disegno di legge e alla sua approvazione, sia per porre rimedio alla lacuna normativa e alla mancanza di tutela contro i crimini d’odio e i discorsi d’odio con riguardo al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e all’abilismo, sia per attuare il dettato costituzionale della pari dignità delle persone e in ossequio alle Convenzioni europee e internazionali, verso l’affermazione di una cultura del diritto e della prevenzione dei fenomeni d’odio come risposta ferma e duratura al culto della violenza e alle prassi discriminatorie.
Ci preoccupa, tuttavia, la possibilità che la determinante votazione di “non passaggio agli articoli”, che avrà luogo il 27 ottobre 2021, possa avvenire – a seguito di richiesta inoltrata da un gruppo di senatrici e senatori – a scrutinio segreto. Riteniamo, infatti, che l’importanza sociale del provvedimento in discussione giustifichi, da parte Sua, una scelta di prevalenza sul contenuto del decreto che La induca, così come era già avvenuto nella discussione parlamentare riguardo le unioni civili, a negare tale opzione ponendo tutte le forze politiche di fronte ad una chiara presa di posizione di fronte all’elettorato e alla società civile.
Certi che queste nostre brevi annotazioni saranno tenute in considerazione voglia accogliere i nostri più cordiali saluti.
p. Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai crimini d’odio
il coordinatore, Federico Faloppa
Di Giovanni Maria del Re su Avvenire
Quattro ore e mezzo. Tanto è durata la discussione, accesissima, dei 27 leader sulle migrazioni, tema dominante ieri al secondo giorno del Consiglio Europeo. A tener banco anzitutto la questione dei «muri» che dovrebbero – secondo un gruppo di Stati – esser finanziati dall’Ue. I più accesi sono i Paesi dell’Est che confinano con la Bielorussia: il dittatore di Minsk Aleksandr Lukashenko attira sempre più migranti per poi spingerli verso l’Ue, come «arma» contro l’Europa che lo sanziona per la repressione dei dissidenti. La Bielorussia viene citata con la promessa di nuove misure restrittive Ue.
Alcuni Paesi, come Polonia e le Repubbliche baltiche hanno già iniziato a costruire muri al confine. Già un mese fa dodici Stati (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno scritto a Bruxelles chiedendo finanziamenti Ue per realizzarli. Ieri sono tornati a farlo. «Abbiamo urgente bisogno di barriere fisiche – ha dichiarato il presidente lituano Gitanas Nauseda – di fronte a quello che fa Lukashenko.
Nessuno sa che cosa accadrà domani, potremmo trovarci di fronte a 3-4-5.000 migranti che provano a passare il confine tutti assieme o in punti diversi». «Abbiamo chiaramente bisogno – ha avvertito anche il neo cancelliere austriaco Alexander Schallenberg – di contromisure alla frontiera, con droni, recinti o qualcosa del genere cofinanziati dall’Ue».
Questi Paesi hanno ottenuto l’aggiunta di un paragrafo-chiave nelle conclusioni del vertice – le cui bozze sono state riscritte varie volte – dalla formulazione ambigua – che cercheranno di vendersi come apertura: si chiede alla Commissione di proporre «i necessari cambiamenti legislativi» al sistema giuridico Ue e «misure concrete sorrette da adeguato sostegno finanziario per assicurare una risposta immediata e appropriata in linea con gli obblighi internazionali, incluso i diritti fondamentali».
In realtà, ha precisato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «sono stata molto chiara che non ci saranno finanziamenti Ue per fili spinati o muri». Molti altri leader sono contrari, tra cui l’Italia. Su un punto però sono tutti d’accordo: la necessità di «un controllo efficace delle frontiere esterne».
A rischio è la tenuta stessa dell’area senza frontiere di Schengen, messa già a dura prova dalla crisi migratoria del 2015. «Guarderemo alle necessarie misure legali per migliorare la situazione – ha assicurato Von der Leyen – apportando modifiche al codice sullo spazio Schengen che sarà sul tavolo come nuova proposta».
L’altro punto che ha tenuto banco è quello dei movimenti secondari, che preoccupano Stati come Germania, Belgio, Olanda. Soprattutto quest’ultima chiede all’Italia di impedire che i migranti approdati sulle sue coste proseguano poi verso il Nord Europa. Le tensioni sono state forti, alla fine però si è trovato il compromesso. Il testo delle conclusioni afferma sì che «bisogna mantenere gli sforzi per ridurre i movimenti secondari», tuttavia l’Italia ha strappato un’aggiunta importante, e cioè che si tratterà anche di «assicurare un giusto equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra Stati membri».
Nel complesso, comunque, l’impressione è che la discussione abbia almeno rafforzato la sensazione dell’urgenza di soluzioni comuni, con l’occhio rivolto al Patto sulla migrazione proposto dalla Commissione Europea e per ora bloccato soprattutto sul fronte proprio della solidarietà e della ridistribuzione dei migranti. «Posso dire – ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel – che questa volta ho avuto l’impressione che vi fosse una convergenza sempre più ampia».
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