Un articolo di Marta Bernardini su Nigrizia
Ricordare le vittime del 3 ottobre 2013 significa ricordare le 40mila persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni, i morti come quelli del 30 settembre 2013 a Sampieri, un’altra costa siciliana, e tutti i corpi ancora dispersi in mare. Dispersi che non verranno probabilmente mai recuperati, assenti ma presenti per i familiari che non possono piangerli. Tutto questo con l’amara certezza che altre persone continuano a morire.
Per cercare di restituire dignità e memoria, scegliamo di rivolgere il nostro impegno simbolico e politico ricordando, dando un nome e un volto dove possibile, perché le voci non siano più sempre solo le nostre.
Siamo e saremo a Lampedusa per denunciare quanto accade: chiediamo che non ci siano altri morti alle frontiere, altre persone costrette a subire violenze, torture, a dover fuggire dal loro paese, dall’Afghanistan alla Tunisia, fino alla Libia, ovunque siano. Crediamo nell’autodeterminazione delle persone e dei popoli, e che l’Europa si debba fare carico del diritto di ognuno ed ognuna a cercare una vita migliore, dignitosa, con sogni e desideri.
Servono corridoi umanitari, vie di accesso legali, serve che l’Europa condivida la responsabilità dell’accoglienza. E nel frattempo occorre che chi salva vite in mare lo possa fare nel migliore dei modi.
12.681 sono le persone arrivate dal 1 maggio al 31 luglio su questo piccolo lembo di Sicilia. Nel mese di agosto sono arrivate a Lampedusa 5.579 persone. Di queste, 3.773 sono partite dalle coste tunisine mentre 1.804 dalla Libia. Moltissime quelle respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate in carceri infernali. Persone a cui vanno garantiti diritti, dignità, una possibilità di futuro.
Saremo a Lampedusa dunque – non solo in questi giorni ma tutti i giorni dell’anno – per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparci dei vivi. Donne, uomini, bambini e bambine che arrivano al molo, dopo giorni di navigazione in mare aperto. Ci guardano, spesso sembrano “morti viventi”, non ancora morti ma neanche pienamente vivi, de-umanizzati, camminano a stento.
Altre volte, con i loro sguardi, corpi dritti, affermano la loro determinazione, la resistenza alla violenza della frontiera, combattenti felici di avercela fatta. Sono sopravvissuti e sopravvissute, spesso all’orrore dei lager libici, altre volte allo sfruttamento delle risorse, altre ancora a crisi climatiche, politiche e democratiche di cui sappiamo sempre troppo poco.
Tutte queste riflessioni rientrano nel nostro impegno ecumenico, come chiese, ad essere dalla parte di chi è reso ultimo, a non voltare lo sguardo altrove, a dire che non sapevamo.
Alla commemorazione ecumenica in programma domenica 3 ottobre a Lampedusa sono intervenuti, tra altre voci, il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, a partire da un passo biblico: Deuteronomio 4, 9-14.
Il filo rosso di questo brano è la memoria, un tema biblico fondamentale: nella Bibbia la memoria fa diventare coloro che ricordano dei contemporanei di coloro che vissero gli avvenimenti ricordati. Annulla cioè in qualche modo la distanza e si struttura non solo una solidarietà ma anche una immedesimazione nell’altro, nell’altra.
Il riferimento al mantenere viva la memoria indica inoltre un aspetto educativo e di testimonianza, la volontà di raccontare, di lasciare un segno per chi verrà dopo di noi. Diceva giustamente Greta Thunberg in questi giorni che «è ora di dire basta al bla bla bla» per le politiche sul clima, così strettamente connesse anche ai flussi migratori. Siamo d’accordo, il tempo è ora, per coltivare memoria e costruire così anche un futuro più umano.
In occasione del convegno Rimpatri forzati e tutela dei diritti fondamentali, organizzato a Palazzo Merulana dal Garante nazionale, è stato pubblicato il “Rapporto tematico sull’attività di monitoraggio di rimpatrio forzato di cittadini stranieri tra gennaio 2019 e giugno 2021” e diffusi i dati dei rimpatri forzati effettuati da gennaio a settembre 2021.
Dall’inizio del 2021 al 15 settembre sono state rimpatriate 2226 persone, più della metà verso la Tunisia (1159). Gli altri principali Paesi di destinazione sono l’Albania (462) e l’Egitto (252). Il 61,2% dei rimpatri sono stati operati tramite voli charter con scorta a bordo, il 12,3% con voli commerciali con scorta e il 26,5% con voli commerciali senza scorta (al 58% verso l’Albania).Per quanto riguarda i 71 voli charter, su 1362 persone 1105 sono state quelle rimpatriate in Tunisia, 227 in Egitto, e 30 in Georgia. Rispetto agli anni scorsi è abbastanza chiara una flessione sui voli di rimpatrio a causa della pandemia: 6398 le persone rimpatriate nel 2018, 6531 nel 2019, 3351 nel 2020 e 2226 nel periodo da primo gennaio al 15 settembre 2021.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al quale è affidato per legge il compito di monitorare i voli di rimpatrio forzato, nel periodo dal gennaio 2019 – giugno 2021 ha monitorato 56 operazioni di rimpatrio forzato verso Tunisia, Nigeria, Egitto, Albania, Marocco, Algeria, Gambia, Georgia, Kosovo, Pakistan, Perù e Romania.Rispetto alle carenze riscontrate, queste alcune delle raccomandazioni espresse dal Garante nazionale:– Garantire il controllo parlamentare sugli accordi di riammissione;– Introdurre una banca dati per gli eventi critici o altri accadimenti particolari (atti di contenimento, interventi sanitari, proteste, fughe, episodi di autolesionismo, reclami…) come strumento di trasparenza e tutela;– Investire nella formazione di tutte le Forze di polizia impiegate nelle operazioni di rimpatrio forzato;– Prevedere nuove professionalità nei voli di rimpatrio per la mediazione culturale e il supporto socio-psicologico;– Garantire al cittadino straniero interessato un congruo preavviso a tutela del diritto di difesa e nel rispetto della dignità della persona;– Un deciso allineamento dell’uso delle misure coercitive agli standard internazionali;– Migliorare l’assistenza sanitaria garantendo valutazioni preventive di idoneità effettive e la continuità di trattamenti e programmi terapeutici;– Un deciso e urgente adeguamento dei locali utilizzati negli scali aeroportuali.
Foto in evidenza del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Piera Francesca Mastantuono
Su Corriere TV
«Se fossimo stati al loro posto, se avessimo avuto il potere di quelle barche che ci hanno illuminati e sono andate via, li avremmo salvati tutti. Perché sono andati via? Perché ci hanno lasciati annegare?« Sono un pugno nello stomaco le parole di Solomon Asefa, uno dei superstiti della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 che fece 368 morti accertati. Le ha raccolte in Svezia, insieme alle toccanti testimonianze di altri eritrei sopravvissuti al naufragio e di familiari delle vittime, la trasmissione d’inchiesta Spotlight dal titolo «3 ottobre. Il naufragio di Lampedusa ancora senza verità» di Valerio Cataldi e Raffaella Cosentino, in onda venerdì 1 ottobre alle 21.30 su RaiNews24. La loro è una precisa richiesta di verità. Dopo 8 anni sono ancora molti i punti oscuri e resta un fantasma una delle due barche che li ha avvistati prima che la barca si ribaltasse e non ha avvisato la guardia costiera. Spotlight ricostruisce la vicenda e le indagini con interviste a tutti i protagonisti, rivelazioni e documenti inediti, mentre sullo schermo scorrono le drammatiche testimonianze su ciò che accadde quella notte, a solo mezzo miglio dal porto di Lampedusa. Le voci dei superstiti sono affidate allo straordinario doppiaggio di Francesco Pannofino e Francesco Venditti e degli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola del Cinema, Daniele Gatti e Beniamino Presutti.
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È stato presentato ieri il progetto “Voci senza frontiere”, una raccolta di 30 nomi di esperte/i in molteplici aree professionali – dalla sanità alla giustizia, dall’informazione alla ricerca – rappresentanti della società plurale italiana. Un progetto realizzato con il supporto dell’8 per Mille della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, con il patrocinio di Rai per il Sociale e dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR).
Un punto di partenza per raccogliere voci autorevoli e competenti con l’obiettivo, come affermato da Valerio Cataldi, Presidente della Carta di Roma, di “rappresentare la realtà che viviamo ogni giorno ma che non viene rappresentata”, e di diventare uno strumento utilizzato dalle redazioni. Capire chi siamo e dove siamo passa anche attraverso le voci che riescono a raccontare la realtà. “Mettere in lista, in fila persone che stanno facendo cose per l’interazione e per il nostro vivere plurale è importante. Noi siamo voci che si fanno sentire insieme”, racconta la scrittrice Igiaba Scego.
La brillante conduzione di Veronica Fernandes, giornalista di RaiNews24, conduce alla scoperta della guida, pensata come una raccolta di figure esperte che possono essere conosciute da tutti coloro che accedono ai media per informarsi. Ad oggi, le voci della società plurale risultano marginali nel nostro panorama informativo, il 2% di presenza nei telegiornali del prime time nel primo semestre del 2021, come ricordato da Paola Barretta (Coordinatrice dell’Associazione Carta di Roma e ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia). Pertanto, la guida presentata oggi risponde alla sfida di portare la voce di esperti e professionisti esponenti della diaspora, di seconde e terze generazioni e di rappresentanti delle differenti comunità affinché “indipendentemente dall’origine e dalla provenienza, vengano intervistati in qualità di esperti. Un elenco non esaustivo, del tutto provvisorio, che rappresenta però un punto di partenza. Così un’avvocatessa di origine egiziana competente in diritto civile viene intervistata in materia giuridica non sulla situazione in Egitto”.
A questo proposito, Mehret Tewolde, Direttrice esecutiva Italia Africa Business Week, mette in luce come ci siano “tantissimi medici di origine straniera, tantissimi ricercatori e operatori sanitari: ce ne fosse stato solo uno che ha parlato durante la fase di emergenza sanitari nei media mainstream. Quello era il momento in cui potevamo abbattere le barriere, perché eravamo tutti spaventati e non abbiamo dato conto alle apparenze. Si poteva accompagnare la società a riconoscersi per quello che è nella realtà oggi”. Rivendica, inoltre, la necessità di includere le persone di origine straniera all’interno delle aziende: “è fondamentale perché favorisce e ti costringe a conoscere l’altro. Nel momento in cui tu lo conosci, ti fai ambasciatore della diversità” e conclude affermando che “le voci ci sono, ma è necessario l’ascolto attivo”.
“Voci senza frontiere è progetto prezioso per la RAI e per il Paese. La Rai considera l’inclusione una priorità e un dovere. Non si può essere deboli, in questo momento, sul tema delle diseguaglianze. Sui temi etici e civili, la Rai e la nostra redazione saranno sempre in prima linea, perché vogliamo sostenere le ragioni del bene comune”, sottolinea il Direttore Rai per il Sociale, Giovanni Parapini. “Il ruolo del Servizio Pubblico deve tornare alle sue origini e deve farlo con il contributo di voci diverse, appunto, voci senza frontiere”.
Kwanza Musi Dos Santos, co-fondatrice dell’Associazione QuestaèRoma, evidenzia come sia presente un’invisibilità sistemica non solo nei media, ma anche nelle aziende, nella Pubblica Amministrazione e nell’intera società. Non è dunque possibile limitarsi alla rappresentazione di esperti e professionisti di origine straniera nei media mainstream, ma è importante implementare la loro presenza “dall’inizio alla fine della catena di produzione di una qualsiasi azienda”. La necessità è quella di “inserire queste persone dentro tutti i livelli, tutte le istituzioni, tutte le aziende, tutte le organizzazioni”.
Triantafillos Loukarelis, Direttore dell’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali (UNAR), sottolinea come il progetto sia una “salita di livello, che entrerà a far parte della Strategia Nazionale contro il Razzismo, la Xenofobia e l’Intolleranza che attualmente si sta inaugurando insieme a 120 associazioni”. In questo paese – prosegue Loukarelis – c’è bisogno di affermative action, non un’azione obbligata ma una scelta di qualità. “Non ci interessa una “machiettizzazione”, un intervento sensazionalistico delle persone di origine straniera. A noi interessa rappresentare la professionalità e i contenuti delle persone in contesti informativi in cui possono esprimere la pienezza delle loro competenze”.
Roberto Natale, giornalista Rai, afferma come con questa guida “sia stato fatto un importante passo avanti” e sottolinea come essa “si inserisce in un momento in cui il valore della competenza sembra essere tornato in auge” e “il giornalismo italiano non può non cogliere questa occasione e fare un salto ulteriore di competenza per re-legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica”. E se gli italiani hanno una percezione distorta di determinati fenomeni, questa non può non essere in parte responsabilità dei giornalisti, i quali hanno “strumentalmente fomentato percezioni distorte, raccontando i casi singoli, anziché raccontare le dimensioni reali dei fenomeni, senza saper raccontare il mondo che gli italiani di seconda e terza generazioni hanno costruito.”
“Comunicare le esistenze di soggetti della società multi-culturale significa cambiare il linguaggio a livello visivo e a livello verbale, significa decostruire dei concetti che feriscono i corpi delle persone di cui vogliamo parlare, significa in qualche modo decolonizzare il nostro linguaggio e il nostro immaginario collettivo”, così conclude Susanna Owusu Twumwah, Communication officer del Summit Nazionale delle Diaspore.
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L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha lanciato un concorso giornalistico nell’Africa occidentale e centrale per promuovere servizi di qualità sui temi della migrazione, tra i quali la migrazione ambientale, il reinserimento dei migranti, la sensibilizzazione sulla migrazione irregolare e le alternative alla migrazione irregolare nella regione.
Il concorso si propone di celebrare i giornalisti che portano l’attenzione sui molteplici aspetti della migrazione nell’Africa occidentale e centrale, sia in lingua inglese che francese. Si concentra sulla promozione di un’informazione equa ed equilibrata in materia di migrazione, compresa la migrazione ambientale, e sulla sensibilizzazione della migrazione sicura e sulle alternative alla migrazione irregolare.
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Su Avvenire
Papa Francesco ha salutato e abbracciato, durante l’Udienza Generale di oggi, oltre 100 tra operatori e migranti del centro di accoglienza Mondo Migliore di Rocca di Papa. “Il Santo Padre ha consolato e incoraggiato gli operatori che stanno per perdere il lavoro a causa dei padri Oblati di Maria Vergine, proprietari dell’immobile, e della Croce Rossa Italiana che dal primo ottobre gestirà il centro”, scrive in un comunicato la cooperativa. “Né Oblati né Croce Rossa, infatti, hanno ancora risposto ai continui appelli lanciati dai lavoratori e dai sindacati”.
Il gruppo, composto anche da circa 40 bambini, è stato guidato da Angelo Chiorazzo, fondatore della Cooperativa Auxilium, e daDomenico Alagia, coordinatore del centro accoglienza. Un centro all’avanguardia che in cinque anni di attività ha accolto oltre7000 migranti (con oltre 600 minori) con professionalità e umanità riconosciuta anche dal pontefice e dalle più alte cariche istituzionali.
“È per tutti noi un momento triste – ha dichiarato Angelo Chiorazzo -. È impossibile collaborare con rappresentanti di Ordini religiosi che avendo una visione principalmente economica dell’accoglienza dei migranti rischiano di far perdere la fiducia nelle istituzioni ecclesiastiche. Come ci ricorda papa Francesco: nella vita vengono prima le persone“.
Immagine in evidenza di Avvenire
Su Riforma
Non sono immagini che arrivano da secoli oscuri o da qualche provincia in mano a estremisti di qualsivoglia religione. Sono guardie di frontiera degli Stati Uniti, che, cappello da cowboy in testa, a dorso di cavallo minacciano di frustate donne, uomini, bambini, al confine messicano. Sono pressoché tutti esuli haitiani, in fuga da ogni sorta di calamità naturale ed economica, da una delle nazioni più povere e martoriate della Terra.
Un video e delle fotografie che mostrano le guardie di frontiera che apparentemente minacciano i migranti con le redine e con delle fruste sono state condivise sui social media nei giorni scorsi scatenando un’indignazione diffusa.
«Non credo che chiunque abbia visto quel filmato possa pensare che sia accettabile o appropriato tale atteggiamento», ha detto ai giornalisti la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki intervenuta sulla vicenda.
«Non sono a conoscenza del contesto completo. Non riesco però a immaginare quale contesto lo renderebbe appropriato», ha aggiunto.
Il capo della pattuglia di frontiera degli Stati Uniti Raul Ortiz ha affermato che “l’incidente” è ora oggetto di indagini per assicurare che non vi sia stata una risposta «inaccettabile» da parte delle forze dell’ordine. Ortiz ha affermato che gli agenti stavano operando in un ambiente difficile, cercando di garantire la sicurezza dei migranti durante la ricerca di potenziali trafficanti.
Il segretario del Dipartimento per la sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, a sua volta figlio di immigrati cubani, ha affermato che le lunghe redini sono utilizzate da funzionari a cavallo per «assicurare il controllo del cavallo».
«Ma indagheremo sui fatti», ha aggiunto durante una conferenza stampa.
Il campo sotto un ponte che attraversa il Rio Grande è diventato l’ultimo punto critico per le autorità statunitensi che cercano di arginare il flusso di migranti in fuga dalla violenza delle bande, dalla povertà estrema e dai disastri naturali nei loro Paesi d’origine.
Il campo ospita temporaneamente più di 12.000 migranti, anche se il governatore del Texas Greg Abbott ha affermato che sabato il numero ha raggiunto quota 16.000. Molti hanno viaggiato per migliaia di chilometri, sperando di chiedere asilo negli Stati Uniti.
Lunedì, quando le temperature sono salite fino a 40 gradi, i migranti hanno manifestato contro la continua carenza di cibo e acqua nel campo.
Durante il giorno centinaia di migranti erano tornati dalla parte del Messico nel tentativo di recuperare cibo e acqua, comprese famiglie con bambini piccoli, sollevando zaini, valigie e effetti personali in sacchetti di plastica sopra le loro teste. Proprio per evitare il questo trasporto è intervenuta la polizia di frontiera.
«Questo trattamento è razzismo, a causa del colore della nostra pelle», ha detto Maxon Prudhomme, un migrante haitiano sulle rive del Rio Grande in Messico raggiunto dai giornalisti della agenzia Reuters.
Intanto i primi voli che deportano migranti dal campo di Del Rio sono arrivati ad Haiti domenica, con almeno altri tre che partiranno in questi giorni, rimpatri forzati a tempo di record.
Lunedì 20, il segretario di Stato americano Antony Blinken in una telefonata ha parlato con il primo ministro haitiano Ariel Henry del rimpatrio dei migranti haitiani al confine meridionale degli Stati Uniti, ha reso noto il Dipartimento di Stato in una nota.
I due uomini «hanno discusso dei pericoli della migrazione irregolare, che mette le persone a grande rischio e spesso richiede ai migranti e alle loro famiglie di contrarre debiti paralizzanti».
Blinken ha dichiarato su Twitter di aver parlato anche con il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard «dei nostri sforzi per promuovere una migrazione sicura, ordinata e umana». Negli ultimi anni Washington ha esercitato pressioni crescenti sul Messico affinché bloccasse il flusso di migranti verso il confine.
La prospettiva delle deportazioni grava pesantemente sui residenti del campo, alcuni dei quali hanno viaggiato mesi per raggiungere il confine.
Mayorkas ha detto che si aspetta da uno a tre voli di rimpatrio giornalieri per Haiti, aggiungendo che un’ondata di 600 agenti di frontiera e altro personale sono stati schierati nell’area.
«Se entrate negli Stati Uniti illegalmente, verrete espulsi. Il vostro viaggio non avrà successo», ha detto in una conferenza stampa.
Mentre il presidente Joe Biden ha annullato molte delle politiche sull’immigrazione del suo predecessore Donald Trump all’inizio di quest’anno, ha lasciato in vigore un’ampia politica di espulsione in base alla quale la maggior parte dei migranti sorpresi ad attraversare il confine tra Stati Uniti e Messico vengono rapidamente respinti.
Foto in evidenza di Riforma
Un articolo di Lorenzo Tondo su The Guardian
Gaspare, un pescatore di Sciacca in Sicilia, aveva salvato decine di migranti che tentavano di raggiungere l’Italia in barca dalla Libia quando le autorità italiane hanno minacciato di arrestare lui e il suo equipaggio per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
“Mi chiedo se anche uno dei nostri politici abbia mai sentito le grida disperate di aiuto in alto mare nel buio della notte”, ha detto nel 2019. “Mi chiedo cosa avrebbero fatto. Nessun essere umano – marinaio o no – si sarebbe allontanato”.
Le sue parole risuonano di nuovo nel momento in cui il ministro degli Interni del Regno Unito, Priti Patel, intensifica la sua campagna per rimandare indietro le barche che trasportano migranti attraverso la Manica.
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Immagine in evidenza di Gareth Fuller/PA
Di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Tutti si interrogano se il ritorno del governo dei talebani in Afghanistan produrrà o meno una grave crisi migratoria in Europa; per l’Afghanistan questo ritorno dei talebani avvenuto dopo 20 anni di conflitto interno è un cambiamento profondo e probabilmente di lunga durata. Se nell’ultimo decennio larga parte degli afgani che sono fuggiti dal Paese lo hanno fatto per sottrarsi a una situazione di conflitto e violenza generalizzata, d’ora in poi chi lascerà il Paese lo farà prevalentemente per il fondato timore di subire persecuzioni per ragioni politiche, etniche, religiose o di appartenenza a un dato gruppo sociale, rientrando a pieno titolo nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra del 1951.
I Paesi europei, salvo eccezioni positive tra cui l’Italia, dove il tasso di riconoscimento di una forma di protezione ai cittadini afghani ha sempre superato il 90%, nell’ultimo decennio hanno escogitato ogni stratagemma possibile per evitare di riconoscere protezione (anche quella sussidiaria) agli afghani fingendo che il Paese fosse pacificato o applicando in modo distorto il criterio dell’area interna sicura, dichiarando appunto sicure zone dell’Afghanistan che non lo erano affatto. Come ha ben evidenziato l’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi), nei 12 anni compresi tra il 2008 e il 2020, in Europa sono state presentate solo 600mila domande di asilo da parte dei cittadini afghani; poco meno della metà sono state rigettate con circa 70mila persone rimpatriate, tra cui non meno di 15mila donne.
In alcuni Paesi europei della rotta balcanica, come Croazia e Bulgaria, il tasso medio di riconoscimento di uno status di protezione agli afghani è inferiore al 10% mentre è di poco più del 25% in Slovenia e del 55% in Grecia. Con l’arrivo al potere dei talebani un elevato numero di cittadini afghani, non vedendo alcuna prospettiva di vita, deciderà di lasciare il Paese in tutti i modi possibili. Nel farlo incontreranno però ostacoli insormontabili in quanto molti sono i Paesi che si frappongono sulla loro strada prima di arrivare in Europa, ragione per cui la previsione di una seria crisi di arrivi in Europa pare almeno al momento piuttosto azzardata.
I confinanti Pakistan e Iran, che già complessivamente ospitano più di 2,5 milioni di rifugiati afghani, ostacoleranno altri ingressi e comprimeranno ulteriormente il livello, già minimo, di protezione concesso. La Turchia, a sua volta, aumenterà il ricatto verso l’Ue mentre in parallelo completerà la costruzione del muro con l’Iran (oggi di 160 chilometri) ed è probabile un’escalationdella tensione con la Grecia che ha appena completato il suo muro lungo il confine turco. Non si intravedono per ora segnali che l’Europa voglia tornare a rispettare il diritto di chiedere asilo alle proprie frontiere o attuare un programma pluriennale di reinsediamento dei rifugiati afghani di ampie dimensioni, fermando la propria folle corsa alla delega/esternalizzazione a Stati terzi dei propri obblighi di protezione solennemente proclamati ma pervicacemente violati.
Molto più probabilmente, i cittadini afghani (il gruppo più numeroso di rifugiati al mondo insieme ai siriani) rimarranno senza protezione ancor più di quest’ultimi, intrappolati nel loro Paese ed esposti ad ogni genere di persecuzione da parte di un regime atroce o verranno chiusi nei Paesi confinanti, privi di una reale protezione giuridica e senza prospettive per il futuro. Se così dovesse accadere, poco rimarrà di quel diritto, sancito dalla Convenzione di Ginevra, che nacque 70 anni fa sulle macerie della seconda guerra mondiale, insieme alle attuali democrazie, tra cui la nostra. La posta in gioco non è solo il futuro dell’Afghanistan.
Di Riccardo Bonacina su Vita
“Duemila soldati dispiegati, coprifuoco serale, nessuna manifestazione è autorizzata. La prima volta dal 1981, dai tempi del comunismo. Da quando c’era il Muro di Berlino e chi s’ immaginava ne avrebbero costruito un altro qui, poco sopra Lublino. Posano due chilometri di filo spinato al giorno. Calcolano le spaziature. L’avvolgono a triplo giro. Allineano le estremità. Piantano le staffe.” «Lo faremo uguale agli ungheresi», aveva promesso in agosto il ministro dell’Interno, e così è”. Fin qui Francesco Battistini che sul Corriere racconta che cosa accade lungo la linea del confine tra Polonia e Bielorussia.
Un ulteriore muro, quello polacco, che sorge in Europa e che si aggiunge alle barriere già erette in Ungheria, Grecia e Bulgaria, Austria e Croazia.
La sede di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, istituita nel 2004, ha sede proprio a Varsavia. Per la prima volta la sede di Frontex è vicina a una frontiera in emergenza, ma questo non basta a scuotere il torpore dell’Agenzia. Al suo timone dal 2015 Fabrice Leggeri di cui in tanti vorrebbero le dimissioni per le troppe leggerezze (nomen omem) e una gestione non trasparente dei budget e del personale.
Budget che ormai arriva a sfiorare il miliardo di eruro, 900 milioni di euro all’anno: questo è il costo che Frontex avrà per le casse di Bruxelles da qui al 2027, budget che contempla anche il raaggiungimento di 10mila agenti di sicurezza (attualmente sono 6500) con lo scopo di potenziare la sorveglianza dei confini europei. Cifre astronomiche, se si considera (come emerso dal rapporto dei revisori contabili europei) come i ruoli dell’agenzia siano di fatto poco chiari, in quanto poggiano su un mandato eccessivamente generico attribuitegli nel 2016. E soprattutto, in netta e costante crescita rispetto al passato.
La mancanza di risultati e una situazione che ha spinto i revisori a scrivere apertamente di “sperpero” di denaro pubblico potrebbero aprire le porte a una pesante revisione da parte dell’Unione europea. Uno scenario che in particolare mette principalmente sotto accusa il direttore stesso di Frontex, Fabrice Leggeri.
Navi, veicoli, aerei, droni, radar e tecnologie di sorveglianza biometrica sempre più sofisticate. Sono gli strumenti più innovativi con cui l’agenzia Frontex effettua il controllo delle frontiere marittime e terrestri dell’Unione. Le inchieste che la vedono coinvolta negli ultimi mesi ci raccontano anche di respingimenti collettivi e rapporti non chiari con la guardia costiera libica oltre che di una gestione non trasparente del suo budget miliardario, che ha attirato l’attenzione – un’indagine è tutt’ora in corso – dell’Ufficio Antifrode dell’Unione Europea.
Numerose organizzazioni non governative hanno sottolineato che, sebbene prevista dal Regolamento dell’Agenzia, la tutela dei diritti fondamentali non sia al centro dell’azione di Frontex. In vari casi, quest’ultima è stata accusata di non aver monitorato e riportato violazioni dei diritti dei migranti avvenute sia al largo delle acque del Mediterraneo sia nei confini orientali dell’Europa e, talvolta, di aver preso parte direttamente a respingimenti in contrasto con il principio di non-refoulement.
Nell’ultimo anno, Frontex è finita nell’occhio del ciclone in seguito alle critiche provenienti da numerose organizzazioni non governative e organi d’informazioni. Questi hanno accusato l’Agenzia di non rispettare alcuni diritti fondamentali, tra cui il principio di non-refoulement, principio di diritto consuetudinario, sancito nell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ribadito nella legislazione europea agli articoli 18 e 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) ed espresso all’Articolo 4 del Protocollo Addizionale n. 4 alla CEDU. L’articolo 33 della Convenzione recita: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.”
Mar Egeo. Nel Pushback Report 2020, l’associazione Mare Liberum (2020) parla di almeno 9000 persone illegalmente respinte nel Mar Egeo nel 2020. I respingimenti riportati avvengono in vari modi: uomini mascherati che attaccano le barche dei rifugiati, navi della guardia costiera che caricano i migranti per poi scaricarli sulle isole turche, o anche più semplicemente vari tentativi di respingimento (spinte, manovre per dirottare il veicolo, spari) affinché la barca dei rifugiati ritorni nelle acque turche. Una delle azioni più importanti di analisi e raccolta di prove dei respingimenti è stata condotta dalla ONG Border Violence Monitoring Network, che a fine 2020 ha pubblicato un testo da 1500 pagine in due volumi dal titolo “The Black Book of Pushbacks” (2020). Per quanto riguarda la situazione in Grecia, l’ONG stima che più di 3500 persone abbiano subito respingimenti nel 2020.
Rotta balcanica. Le violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica hanno destato la preoccupazione delle ONG, degli organi d’informazione e delle istituzioni. Anche in questo caso si tratta soprattutto di respingimenti illegali o di violenze esercitate dalle forze dell’ordine. Secondo l’UNHCR (2020), nei solo ultimi tre mesi del 2020, si sarebbero verificati 10.000 respingimenti illegali verso la Bosnia dai paesi limitrofi e, di conseguenza, soprattutto dalla Croazia. Ma non si tratta di un fenomeno nuovo. Dal 2016 ad oggi, il già citato Border Violence Moniroting Network (2021) ha raccolto più di 624 testimonianze in Croazia, in base alle quali ci sarebbero stati 6621 respingimenti illegali da quel paese. Tra i 1128 migranti sul confine croatobosniaco intervistati in una ricerca del DanishRefugeeCouncil (2020), il 22 % ha segnalato arresti o detenzione arbitraria, l’80 % furti o distruzione dei propri beni, e il 59 % violenze fisiche da parte dei corpi di sicurezza croati. All’inizio del 2021, la visita di un gruppo di Europarlamentari al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina ha puntato i riflettori sulla tragica situazione nel campo profughi di Lipa, nel cantone dell’Una Sana. Dopo l’incendio del campo originale nella notte del 23 dicembre 2020, è stata montata una tendopoli gestita dalle organizzazioni umanitarie, dove però mancano i servizi fondamentali. Il tentativo di scappare dal campo ed arrivare in Europa, soprannominato “The game”.
Mediterraneo centrale. Per quanto riguarda la complessa situazione libica, le accuse rivolte Frontex non sono di un coinvolgimento diretto nei respingimenti, con navi o mezzi propri, ma piuttosto di una collaborazione indiretta con la Guardia Costiera Libica affinché le imbarcazioni trasportanti i migranti siano riportate in Libia, paese considerato “non sicuro”. Si tratterebbe quindi di respingimenti illegali appaltati a terzi, in cui Frontex giocherebbe un ruolo di coordinamento e sorveglianza, ma senza attività dirette in mare. La questione dei respingimenti in Libia e il ruolo di Frontex sono stati oggetto dell’azione di Amnesty International. Nel rapporto “Malta: Waves of Impunity” (2020) l’ONG ha criticato la politica maltese di respingimento dei migranti, portando come esempio concreto il “respingimento del lunedì di Pasqua”, avvenuto il 15 aprile del 2020. Il 12 maggio, la Ong Sea Watch ha pubblicato un rapporto dal titolo Crimes of the European Border and Coast Guard Agency Frontex in the Central Mediterranean Sea inerente ai presunti crimini commessi da Frontex. Come viene evidenziato dal rapporto, Frontex si serve di aeroplani per il monitoraggio di imbarcazioni in difficoltà nel Mediterraneo per poi contattare le “autorità competenti” affinché si attivino nelle attività di ricerca e soccorso. Tuttavia, l’agenzia contatta unicamente la Guardia Costiera Libica, se l’imbarcazione si trova nella zona SAR libica, senza considerare le altre imbarcazioni che si trovano nelle vicinanze. Frontex si rende quindi responsabile delle intercettazioni e dei respingimenti di persone in difficoltà verso la Libia che, dal canto suo, le riporta nei centri di detenzione.
La violazione di diritti umani nei respingimenti ha anche dato origine alla Campagna internazionale Abolire Frontex.
Frontex è ormai al centro di un tornado di polemiche, non da ultimo, all’interno del Parlamento europeo, i membri della Commissione per il controllo dei bilanci (CONT) hanno recentemente votato a favore della concessione dei fondi del bilancio 2019 alla maggior parte delle istituzioni e delle agenzie dell’UE, ad eccezione di Frontex. Decidendo per il rinvio della decisione solo sui conti dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, si palesa l’attenzione vigile del Parlamento di controllo nel bilancio delle singole istituzioni, specie visti i ritardi nell’attuare le azioni promesse per la tutela dei diritti fondamentali. Il Parlamento vuole chiarimenti e azioni da parte dell’Agenzia e non sembra disposto a mollare la presa, sta ora a Frontex rispondere nella maniera adeguata.
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