Un articolo di Daniel Keane su The Independent
Shabia Mantoo, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ha avvertito che gli afghani che desiderano fuggire dai talebani “non hanno una via d’uscita chiara” e che la “grande maggioranza” non è in grado di andarsene attraverso i “canali regolari”.
UNHCR stima che il 90% dei 2,6 milioni di rifugiati afghani al di fuori del Paese viva nei vicini Iran e Pakistan. Ma i talebani hanno chiuso i punti di controllo chiave e il Pakistan ha recentemente fortificato il confine con l’Afghanistan e la Turchia.
In confronto, circa 630.000 afghani hanno chiesto asilo nei paesi dell’UE negli ultimi 10 anni, con i numeri più alti in Germania, Ungheria, Grecia e Svezia, secondo la EU statistics agency.
Quali Paesi stanno accettando i rifugiati afghani?
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Un articolo di Simone Benazzo su Valigia Blu
Il think tank svizzero Global Initiative Against Transnational Organized Crime ha pubblicato a maggio un report dedicato al traffico di persone, droghe e denaro nei Balcani occidentali, curato da Walter Kemp, Kristina Amerhauser e Ruggero Scaturro.
Lo studio è stato uno dei primi a trattare in modo sistemico e diacronico le evoluzioni che la “rotta balcanica” ha esperito nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Quello che era inizialmente un corridoio per stupefacenti è divenuto in seguito, specie a causa delle guerre in ex Jugoslavia, l’El Dorado per i trafficanti di armi e, in tempi recenti, la via obbligata per decine di migliaia di esseri umani in fuga da guerra, povertà, catastrofi ambientali.
Se fin dagli anni ‘70 con “rotta balcanica” si intendeva principalmente la rete di traffico di droga – soprattutto eroina – che si dirama per la penisola balcanica, nel 2015 l’espressione ha infatti assunto un significato inedito. Circa 1,5 milioni di rifugiati e richiedenti asilo, perlopiù in fuga dalla guerra in Siria, si sono messi in marcia attraversando la Turchia, la Grecia e i Balcani occidentali con l’obiettivo di raggiungere l’Europa centro-occidentale.
Inizialmente presi alla sprovvista da numeri così ingenti, i governi dei paesi dell’Unione Europea hanno poi reagito incalzati dalle retoriche che paventavano l’arrivo di “orde” di stranieri.
Nel marzo del 2016 la rotta balcanica è stata quindi ufficialmente chiusa, tramite la costruzione di barriere lungo i confini, l’aumento dei controlli frontalieri, affidati sovente all’agenzia UE Frontex, e la velocizzazione dell’analisi delle richieste di asilo. Oltre naturalmente al noto accordo tra Ue e Turchia, un do ut des da 3 (+ 3) miliardi di euro che ha reso Ankara il secondino di fiducia di Bruxelles.
Se queste azioni hanno effettivamente causato un calo significativo del numero di rifugiati e richiedenti asilo, il flusso non si è comunque arrestato. La gran parte delle motivazioni che avevano spinto le persone a migrare nel 2015 – guerra in Siria, Libia e Afghanistan; instabilità nel Corno d’Africa; disuguaglianza Nord-Sud – non sono svanite. Si sono spesso anzi esacerbate, come mostra il caso dell’Afghanistan dove, dopo l’addio degli USA, il controllo dell’intero territorio da parte dei talebani ha spinto ondate di afgani a fuggire.
L’erezione di muri nel 2016 ha ampliato il mercato dei trafficanti di esseri umani. Alcuni confini un tempo molto porosi, come quello tra Grecia e Macedonia del Nord e quello tra Serbia e Ungheria, sono diventati più difficili da varcare. I migranti hanno quindi dovuto cercare vie alternative per raggiungere i paesi UE – per esempio, dalla Bosnia Erzegovina alla Croazia, dall’Albania all’Italia, dalla Serbia alla Romania e alla Bulgaria.
All’aumento di insidie, difficoltà e pericoli nello spostarsi per ciascun paese della rotta e, soprattutto, nell’attraversare un confine, corrisponde una maggior disponibilità a pagare del migrante, soggetto vulnerabile con solitamente uno spettro molto limitato di opzioni tra cui scegliere. Dunque, più margine di guadagno per i trafficanti.
Che hanno, inoltre, capitalizzato la pandemia da COVID-19. Le dichiarazioni di stato d’emergenza e la chiusura totale dei confini hanno ulteriormente complicato spostamenti e attraversamenti, rendendo l’attività di questi network ormai altamente specializzati ancora più redditizia.
Visti con gli occhi del crimine organizzato, i migranti incarnano il prototipo del cliente ideale. Non hanno diritti da vantare; non posso esporre reclami e proteste; devono necessariamente nascondersi dalle autorità; quasi sempre, sono disposti a tutto pur di approdare nell’UE, anche a sborsare cifre astronomiche per percorrere poche decine di km. Spesso i primi tentativi di attraversamento sono infruttuosi e si è costretti a riprovarci più e più volte. A ogni giro viene richiesto di pagare una quota.
La casella zero per chi prova a intraprendere la rotta balcanica è di norma Salonicco, in Grecia, dove si raduna la gran parte delle persone in arrivo dalla Turchia. La stazione ferroviaria di questo porto greco brulica di adescatori, pronti a offrire ai migranti, più o meno disperati e più o meno ricchi, le proprie prestazioni.
Secondo gli autori del report, i trafficanti possono essere suddivisi in tre categorie.
I “fixer” trasportano i migranti all’interno di un paese. Non richiedendo grandi livelli di organizzazione e formazione, il settore è abbastanza aperto: capita anche che privati cittadini si improvvisino tassisti per condurre le persone da un hub (stazione, aeroporto, porto) al successivo confine internazionale. Le tariffe variano in base alla lunghezza della tratta, al numero dei passeggeri e alla probabilità di essere fermati. Se possono bastare anche solo 20 euro per attraversare il Montenegro da un confine all’altro, per il tratto Gevgelija – Veles, in Macedonia del Nord, le cifre si aggirano tra i 500 e i 700 euro.
I “gatekeeper” si incaricano di far passare i confini: pochi km, spesso percorsi a piedi, ma decisivi. Per riuscire nell’impresa serve un discreto livello di organizzazione e competenze diverse, motivo per cui spesso operano gruppi misti composti da locali che conoscono bene l’area e migranti già in loco da tempo, che fungono da interpreti e mediatori. A fronte di un servizio così delicato e multidimensionale, le tariffe, che non di rado includono mazzette ai doganieri, si alzano: per andare dalla serba Novi Kneževac in Ungheria o Romania servono tra i 200 e i 500 euro, ma il biglietto d’ingresso del tunnel che da Kelebija (Serbia) conduce a Ásotthalom (Ungheria) parte da 800 e può salire fino al triplo.
I “package dealers”, infine, rappresentano il vertice della piramide del traffico di esseri umani nei Balcani Occidentali. Offrono, come suggerisce il nome, un pacchetto completo, agendo come una sorta di agenzia di viaggio per viaggiatori senza biglietto di ritorno. Offrono consulenze, informazioni, alloggio, trasporti. Tramite una rete capillare di sottoposti riescono a individuare i propri clienti, principalmente famiglie, già nei campi rifugiati in Turchia o nelle grandi città al confine greco-turco. I costi, anche in questo caso, dipendono soprattutto da: punto di partenza, punto di arrivo, mezzo di trasporto, pericolosità della tratta. Dalla Repubblica serba (una delle tre entità amministrative in cui è divisa la Bosnia Erzegovina) alla Slovenia si paga sui 1.000 euro a persona, per l’intera rotta – dalla Turchia all’UE via Balcani occidentali – una famiglia di quattro persone può arrivare a spendere tra i 15 e i 20 mila euro.
Per stimare (margine di errore: 20%) a quanto possa ammontare il giro d’affari annuo derivante da questo “business” gli autori del report si sono concentrati sulle tre aree più calde: i confini Grecia-Macedonia del Nord e Grecia – Albania (19,5 – 29 milioni di euro); il confine Bosnia e Croazia (7 – 10,5); e i confini Serbia – Ungheria e Serbia – Romania (8,5 – 10,5).
Complessivamente, allora, il “business” della rotta balcanica frutta ai trafficanti tra i 35 e i 50 milioni di euro all’anno.
Ma i contrabbandieri di uomini non sono gli unici soggetti che prosperano grazie alla politica di securitarizzazione delle migrazioni con cui gli Stati UE provano ad arroccarsi. Si sta formando un comparto tecnologico-industriale che deve il proprio sviluppo a questa politica.
Sebbene non esista ancora un quadro uniforme ed esaustivo, probabilmente a causa della difficoltà a reperire informazioni su un argomento così controverso, vari elementi indicano che l’impiego di tecnologie avanzate di controllo e sorveglianza di ultima generazione stia diventando sempre più diffuso lungo la frontiera comunitaria.
A fine gennaio Border Violence Monitoring Network ha trasmesso un report a Tendayi Achiume, Relatrice Speciale ONU sulle forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia ed intolleranza. Il documento si sofferma sul ruolo della tecnologia nei respingimenti operati dalla polizia di frontiera croata verso Serbia e Bosnia. Si basa sulle testimonianze dirette delle persone respinte e abusate al confine, e contiene una descrizione accurata, anche sotto il profilo tecnico, delle tecnologie adottate (droni, elicotteri, scanner per il riconoscimento di persone dentro a veicoli, visori termici per visione notturna e diurna). La polizia croata dispone inoltre di termocamere capaci di identificare una persona entro un raggio di circa 1.5 km e un veicolo a 3 km di distanza. La tecnologia più avanzata sono però i droni. Quelli in dotazione ai doganieri croati possono individuare una persona distante quasi 10 km durante il giorno e 2 durante la notte. Viaggiano a quasi 130 km/h e raggiungono un’altezza di 3500 metri, senza mai smettere di trasmettere dati in tempo reale.
Come riportato dal Guardian, anche le guardie di confine ungheresi dispongono di tecnologie come visori termici e droni di sorveglianza. Sempre nel 2017, il governo ungherese aveva deciso di rendere ancora più invalicabile la frontiera con la Serbia, installando una rete elettrificata, puntellata di rilevatori di temperatura, telecamere e altoparlanti che diffondono senza interruzioni uno squillo estremamente fastidioso a fini dissuasivi. Anche grazie a queste tecnologie, il paese centroeuropeo ha potuto respingere migliaia di persone (2.824 solo nel mese gennaio) in Serbia, una prassi giudicata contraria al diritto comunitario dalla Corte europea di giustizia e che ha portato alla sospensione delle attività di Frontex nel paese. Un emendamento introdotto nel 2017 sottrae al controllo di quel poco che rimane della società civile magiara gli investimenti che Budapest compie nel campo della gestione della migrazione – una prassi abituale nell’Ungheria di Viktor Orbán, applicata anche nel caso dei progetti infrastrutturali in cui è coinvolta la Cina.
Anche la Romania si è dotata di attrezzatura hi-tech per il controllo della migrazione, come spiegato sul sito della polizia di frontiera romena, che può impiegare più di un centinaio di visori termici e una ventina di veicoli equipaggiati con questa tecnologia, oltre a sensori ideati per rilevare il battito cardiaco a distanza.
Tuttavia, la nuova frontiera, anche in questo campo, riguarda l’uso dell’intelligenza artificiale (IA). Lo scorso giugno il Servizio Ricerca del Parlamento europeo ha pubblicato una dettagliata analisi dal titolo “L’intelligenza artificiale ai confini Ue” in cui la ricercatrice Costica Dumbrava ha elencato le possibili applicazioni dell’IA nel campo della gestione delle migrazioni: identificazione biometrica (presa di impronta digitale automatizzata e riconoscimento facciale); valutazione del rischio tramite algoritmi; monitoraggio, analisi e previsione dei flussi migratori; rilevamento dello stato emozionale.
Alcune di queste tecniche, secondo quanto sostenuto da AP News, sarebbero già utilizzate in Grecia in via sperimentale; sarebbero state installate sfruttando il periodo di relativa quiete imposta dalla pandemia anche in questa zona calda. A cavallo del confine greco-turco si sta così configurando un laboratorio a cielo aperto dove vengono testate le più futuristiche modalità di controllo. Si intravede il profilo di un modello futuro di “border management” completamente automatizzato grazie al massiccio ricorso a IA e altri dispositivi digitali.
Tra le tecnologie adottate dalla polizia di confine greca, non di rado coadiuvata dal personale di Frontex: telecamere a lungo raggio, visori notturni e sensori di varia gamma installati sulle torrette di sorveglianza per raccogliere dati sui movimenti sospetti e inviarli a centri di ricerca dove questi vengono analizzati tramite software di IA; rilevatori di bugie, anch’essi basati su IA, e bot impiegati durante gli interrogatori come “poliziotti virtuali”; scanner palmari per la lettura e la catalogazione dell’intreccio delle vene della mano; tecnologie per la ricostruzione 3D della silhouette del migrante, nel caso si sia, per esempio, mimetizzato nel fogliame.
A finanziare l’acquisto di queste tecnologie, così come l’attività di ricerca necessaria a idearle, è stata spesso la stessa UE. Incalzata dagli Stati membri più oltranzisti sul tema migrazione, la Commissione europea si è mostrata via via più disponibile a convogliare il grosso delle risorse (finanziarie e politiche) di cui dispone allo scopo di sigillare i confini esterni.
Dei quasi 25,7 miliardi di euro (prezzi correnti) che Bruxelles ha stanziato al paragrafo di spesa “Migrazione e controllo dei confini” nel prossimo bilancio pluriennale 2021-2027, 11,1 sono destinati al capitolo “migrazione” e 14,4 a “controllo dei confini”. Per far comprendere quanto lo Zeitgeist politico del continente sia mutato in un tempo relativamente contenuto basti ricordare che nel bilancio precedente non compariva nemmeno una sezione dedicata specificatamente alla gestione dei flussi migratori, ma solo un generico “Fondo per l’asilo, la migrazione e l’integrazione” nella voce di spesa “Sicurezza e cittadinanza”, che si era meritato la cifra esigua di 3,1 milioni.
E la voce di spesa che ha visto l’incremento più vistoso in termini percentuali è stata proprio “agenzie decentralizzate – confini” (+164% rispetto al precedente bilancio pluriennale), ovvero Frontex e, in misura minore, Easo. Come indicato in un report di ASGI, i fondi allocati a Frontex erano già passati dai 6,3 milioni di euro del 2005 ai 333 del 2019. Nello specifico la quota dedicata alle “operazioni di rimpatrio” era aumentata da 80 mila euro (2005) a 63 milioni (2019). Per i prossimi sette anni Frontex potrà contare su una dote da 11 miliardi di euro, di cui 2,2 miliardi per l’acquisizione, la manutenzione e la gestione di risorse per la sorveglianza aerea, marittima e terrestre. È in previsione anche un aumento del personale: dalle attuali 6.500 unità dovrebbe raggiungere quota 10 mila nel 2027. Come ricorda il Cespi, l’evoluzione di Frontex “rientra nella strategia europea di rafforzamento nella governance delle migrazioni e di risposta alle esigenze securitarie interne”.
In breve, l’UE – direttamente o tramite le agenzie che da essa emanano – sembra pronta a spendere tanto per impedire che soggetti indesiderati (o indesiderabili) riescano a valicare le mura del blocco. Soprattutto nel settore più promettente: le nuove tecnologie di controllo e sorveglianza.
Lo ha chiarito, lo scorso 2 giugno, la Commissione europea inviando una comunicazione a Parlamento europeo e Consiglio denominata proprio “Una strategia per un’area Schengen pienamente funzionante e resiliente”. Venticinque pagine che possono essere considerate una sorta di manifesto programmatico comunitario dove vengono enucleati sia i principi da seguire che le azioni da compiere per una “gestione moderna ed efficace dei confini esterni dell’UE” [corsivo dell’autore].
La strategia si prefigge di “trasformare il sistema di gestione del confine esterno in uno dei sistemi più performanti al mondo”. Fare dell’UE una “fortezza digitalizzata”, secondo le ONG che si occupano di migrazione.
Nell’introduzione si spiega che per aumentare la fiducia nella solidità della gestione del confine esterno dell’UE è necessario adottare un “approccio integrato e strategico”, che si traduca in una “sorveglianza sistematica delle attività ai confini” e nell’utilizzo di “tecnologie digitali moderne e interconnesse e procedure sempre più digitalizzate”. Si invitano gli Stati membri ad aggiornare e condividere i database nazionali dove vengono raccolte le informazioni sulle persone che provano ad attraversare la frontiera UE, e si propone di adottare forme di pre-screening per queste persone. Ovvero, schedare le persone accalcate ai confini prima che riescano effettivamente a varcarlo. Questo allo scopo di “accelerare le procedure per identificarne lo status” e, ma questo il documento non lo esplicita, velocizzare le espulsioni.
Al netto dei richiami più o meno vaghi al rispetto dei “diritti fondamentali” che puntellano il documento, lo spirito che lo anima emerge in modo nitido. La “gestione dei confini esterni” è declassata a una semplice questione di sicurezza, bisogna evitare con ogni mezzo che qualcuno riesca ad entrare nell’Ue senza averne i requisiti, il ricorso a tecnologie sempre più sofisticate è il modo più efficace per ottenere questo risultato.
Di Giorgia Serughetti su Domani
Con le immagini di corpi e volti nascosti dal burqa, le donne afghane tornano a rappresentare il simbolo dell’oppressione fondamentalista islamica. Non solo: dopo il collasso delle istituzioni di Kabul di fronte al ritorno dei talebani, il destino di quelle giovani donne, cresciute nella faticosa conquista di libertà, istruzione, lavoro, evoca la fragilità del modello democratico e dei diritti umani nel mondo.
Per questo, per l’opinione pubblica occidentale, “salvare” le donne e le bambine afghane appare come una priorità unanime. Persino Matteo Salvini sposa l’ipotesi di corridoi umanitari dedicati – beninteso, solo a loro: «Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no».
Di contro, voci critiche come quella della scrittrice Igiaba Scego mettono in guardia verso il “white saviorism”, cioè la retorica paternalista dell’occidente bianco: «le donne afgane», ha scritto su Facebook, «non vogliono essere salvate, vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione. Non cercano salvatori/salvatrici, ma alleate e alleati».
Naturalmente, come hanno mostrato le immagini di persone fuga all’aeroporto di Kabul, tante donne e tanti uomini vogliono letteralmente essere messi in salvo fuori dai confini del paese. Ciò rende particolarmente urgente l’apertura di corridoi umanitari. Tuttavia, le critiche alla retorica umanitaria colgono un aspetto cruciale: passata l’onda emotiva, queste risposte rischiano di lasciare immutata la realtà, esonerando le democrazie occidentali dal volgere lo sguardo al proprio interno, alle proprie politiche in materia di frontiere, migrazioni e asilo, con speciale riguardo proprio alle donne.
L’Afghanistan è la seconda nazionalità per numero di domande d’asilo nell’Unione Europea e, secondo i calcoli dell’Ispi, sono almeno 310.000 le persone di questo gruppo oggi prive di protezione, di cui circa 60.000 sono donne, quasi la metà minorenni.
Al di sotto delle accorate denunce dei diritti conculcati in altre parti del mondo, la realtà è che le nostre procedure d’asilo stentano a riconoscere come forme di persecuzione la violenze che hanno luogo nel “privato”, le violazioni della libertà, della salute, dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne – anche per l’assenza di riferimenti al “genere” nel diritto internazionale dei rifugiati.
Nel nostro libro Donne senza Stato, Ilaria Boiano ed io sosteniamo che per rispondere alla richiesta di protezione di donne che subiscono violenze di genere nel proprio paese occorrerebbe «un sistema rivisitato sotto il profilo dei presupposti e che potrebbe trovare ispirazione dal diritto di asilo previsto all’articolo 10 della Costituzione italiana», secondo cui l’asilo va accordato allo «straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche».
Si tratta di una proposta radicale e senz’altro ambiziosa per la vastità dei gruppi umani, in particolare di donne, che potrebbe interessare. Ma come essere all’altezza altrimenti dei principi che professiamo?
Foto in evidenza di Dire
Su Federazione Nazionale Stampa Italiana
Sono tanti i giornalisti afgani, soprattutto quelli che nel corso degli ultimi vent’anni hanno collaborato con i media occidentali, che in queste ore rischiano, insieme con le loro famiglie, di restare vittime di vendette, ritorsioni ed esecuzioni sommarie da parte dei talebani. La Federazione nazionale della Stampa italiana ha chiesto al governo italiano di valutare, nell’ambito delle ricollocazioni a scopi umanitari di cittadini afgani, la possibilità di accogliere in Italia i giornalisti, e le loro famiglie, che sono stati punti di riferimento importanti per i giornalisti e i media italiani.
Un primo elenco è stato già inviato al ministero della Difesa, che ha mostrato grande disponibilità e sensibilità. Nei prossimi giorni la Fnsi continuerà a raccogliere le segnalazioni sulla situazione dei giornalisti in Afghanistan e, facendo riferimento alla Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), si adopererà per far sì che tutti i governi dell’Unione europea e dell’Occidente si facciano carico di offrire accoglienza ai giornalisti afgani.
«Abbiamo il dovere – afferma Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi e componente del Comitato esecutivo della Ifj – di aiutare, nei limiti delle nostre possibilità, i colleghi afgani e le loro famiglie. Nei confronti di molti di loro è già partita una spietata caccia all’uomo. A dispetto delle dichiarazioni falsamente rassicuranti dei giorni scorsi, il regime dei talebani intende regolare i conti con tutti coloro che negli anni passati hanno collaborato con i media occidentali. Non meno preoccupante è la situazione delle giornaliste e dei giornalisti che lavorano nei media afgani, considerata l’avversione del nuovo regime alle libertà e ai diritti civili. I giornalisti e i media europei e occidentali non possono restare indifferenti».
Foto in evidenza di John MacDougall/Afp via @IFJGlobal
Di Vittoria Casa su Domani
Tra i tanti meriti da attribuire alle vittorie olimpiche italiane, c’è sicuramente anche quello di riattualizzare il dibattito sulla cittadinanza. Se si scorre la lista della delegazione italiana ai giochi di Tokyo, ci si imbatte in cognomi come Jacobs, Herrera Abreu, Hooper, Kaddari, Lukudo, Eyob Ghebrehiwet Faniel, Abdelwaheb, Zaytsev e tanti altri. A grandi linee, un terzo delle nostre atlete e dei nostri atleti ha origini che certo non affondano nella storia d’Italia. Eppure sono italianissimi e quando gareggiano o cantano l’inno sul podio, il cuore di chi guarda la tv non può che battere più forte.
L’Italia dello sport non è lontana dall’Italia che viviamo tutti. Nel paese risiedono ufficialmente più di 5 milioni di stranieri, circa 900mila dei quali sono alunni con background migratorio. Si tratta di bambine e di bambini nati e cresciuti nella penisola che devono aspettare i diciott’anni per fare domanda di riconoscimento della nazionalità italiana (niente d’automatico, tutto sempre in mano alla burocrazia).
Ecco, per una volta proviamo a dare loro voce, proviamo a immaginarceli attraverso le parole delle nostre atlete e dei nostri atleti durante le interviste di questa estate: ragazze e ragazzi che spesso parlano un italiano con accento lombardo, romano, toscano, eccetera.
Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha evocato per questi giovani lo “ius soli sportivo”, ovvero il riconoscimento automatico della nazionalità italiana per chi ha compiuto 18 anni e un giorno. Niente domanda, burocrazia, prefetture o ministeri. Solo una tutela automatica per ragazze e ragazzi che dal 2016, pur non essendo ancora formalmente italiani, possono gareggiare per le rispettive federazioni sportive.
Ma non basta. Perché le legittime esigenze del mondo sportivo non possono essere derubricate dalla politica a faccenda di settore. I problemi dei nostri giovani atleti sono esattamente gli stessi problemi di un’intera generazione e la risposta dovrebbe essere data a tutti. Durante la scorsa legislatura, una legge sulla cittadinanza è stata approvata alla Camera per poi arenarsi al Senato.
Al tempo si parlava di “Ius Culturae”, ovvero di un diritto di cittadinanza legato all’istruzione. Si prevedeva che potessero chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni e che avevano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni oppure superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). Gli altri, seppur nati all’estero e compresi in un’età tra i 12 e i 18 anni, potevano ottenere il passaporto se residenti per almeno sei anni e se capaci di finire ciclo scolastico.
Lo “Ius Culturae” o “Ius Scholae” è ancora oggi il compromesso minimo di un paese che voglia dirsi civile. In primo luogo perché conferirebbe la cittadinanza a persone che hanno già una forte identità italiana. In secondo luogo perché forse avrebbe un peso sui risultati scolastici: tra i 18 e i 24 anni, i nostri ragazzi senza cittadinanza italiana che non hanno un diploma sono il 36,5 per cento contro una media italiana dell’11,3 per cento e una media europea del 10 per cento.
Dunque, per questi giovani occorre una nuova legge sulla cittadinanza così come occorre il ricorso a veri e propri patti integrativi di comunità. Enti locali, istituzioni, pubbliche e private, realtà del terzo settore e scuole dovrebbero sottoscrivere specifici accordi al fine di mettere a disposizione di questi bambini una vera e propria rete di referenti che li accompagni e li incoraggi, preveda per ognuno di loro un coordinamento specifico con obiettivi precisi, li aiuti a inserirsi nei contesti più diversi, da quello scolastico a quello sportivo.
Sta per prendere il via il Recovery Plan e con esso il più grande Piano per l’infanzia 0-6 anni della storia recente. La questione della cittadinanza dei bambini con background migratorio non può essere messa da parte. Una nuova legge sulla cittadinanza è senz’altro indispensabile. Dobbiamo investire sugli italiani del futuro, su chi viene da altrove ma sarà parte viva dell’Italia che verrà.
Su Centro Astalli
Il Centro Astalli raccoglie e fa suo l’appello di S.E. Mons. Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, nel chiedere a istituzioni nazionali e sovranazionali, di non perdere altro tempo.
Salvare chi rischia la vita in mare, in assenza di alternative legali per entrare in Europa, è dovere umanitario non derogabile. I dati del Ministero dell’Interno ci dicono che nel 2021 sono arrivati via mare in Italia 30mila migranti.
Padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, ribadisce: “La situazione del Mediterraneo va affrontata con tempestiva risolutezza e mettendo al centro diritti umani e dignità dei naufraghi. Si tratta di un numero che fa gridare all’emergenza e all’invasione solo chi fa della paura e della demagogia gli unici strumenti da usare nel dibattito politico e mediatico.
È necessario un nuovo patto sociale in cui autorità nazionali, enti locali e cittadini insieme decidano di porre fine all’ecatombe di uomini, donne e bambini in cerca di salvezza e accolgano in maniera diffusa in tutti i territori i migranti. In questo modo l’impatto che si avrebbe sulle comunità locali sarebbe minimo e non rappresenterebbe un onore o un’emergenza per nessuno”.
Un articolo di Europa Today
L’intenzione della Danimarca di espellere i rifugiati siriani, ritenendo ormai la Siria un Paese sicuro, “creerà un pericoloso precedente” per tutti i richiedenti asilo anche di altre nazioni. Per questo un’associazione ha deciso di portare il governo di Copenaghen alla Corte europea dei diritti umani (Cedu). La premier socialdemocratica Mette Frederiksen ha deciso da tempo di abbracciare la linea dura sull’immigrazione, e ha promesso di arrivare a “zero” richiedenti asilo ammessi nella nazione. La stretta ha colpito anche le migliaia di persone provenienti dal Paese governato da Bashar al-Assad, con il governo che sostiene che nella regione, dilaniata da una tremenda guerra civile iniziata nel 2011, la situazione sia “migliorata in modo significativo”.
Come racconta il Guardian, il gruppo Guernica 37, che ha sede a Londra e che fornisce assistenza pro-bono e a prezzi accessibili nei casi di giustizia transnazionale e diritti umani, sta lavorando con avvocati in materia di asilo e famiglie colpite in Danimarca per lanciare una sfida alla politica del governo in base al principio della convenzione di Ginevra di “non respingimento”, visto che né l’Onu né altri Paesi considerano Damasco sicura. “La situazione è profondamente preoccupante. Mentre il rischio di violenza diretta correlata al conflitto potrebbe essere diminuito in alcune parti della Siria, il rischio di violenza politica rimane più alto che mai e i rifugiati di ritorno dall’Europa sono presi di mira dalle forze di sicurezza del regime”, si legge in una nota di Guernica 37. “Se gli sforzi del governo danese per rimpatriare forzatamente i rifugiati in Siria avranno successo, si creerà un pericoloso precedente, che è probabile che molti altri Stati europei seguiranno”.
Uno dei maggiori problemi della decisione di Copenaghen è che poiché le autorità danesi riconoscono che gli uomini corrono il rischio di essere arruolati nell’esercito o puniti per aver evaso la coscrizione, la maggior parte delle persone dai decreti di espulsione sembrano essere donne e anziani, molti dei quali rischiano di essere separati dalle loro famiglie. Ghalia, una 27enne che si è riunita con i suoi genitori e fratelli quando è arrivata in Danimarca nel 2015, ha avuto il permesso di soggiorno revocato a marzo. È l’unico membro della sua famiglia ad essere colpito. “Ho paura all’idea di entrare da sola nel centro per immigrati, lì non puoi lavorare, non puoi studiare. È come una prigione”, ha detto aggiungendo anche di non poter “tornare in Siria”, perché “se torno verrò arrestata”.
Il tempo per bloccare le espulsioni stringe e Carl Buckley, l’avvocato che guida la causa, sa che quello della Cedu è un “sistema lento”, per questo ha annunciato che farà domanda per avere subito “misure provvisorie, che implicherebbero l’ordine alla Danimarca di smettere di revocare le residenze fino a quando non sarà stata presa in considerazione dal tribunale di Strasburgo la denuncia di merito”. In Danimarca vivono 5,8 milioni di persone, di cui circa 500mila nati all’estero e 35mila sono siriani. Negli ultimi anni, tuttavia, la reputazione di tolleranza e apertura del Paese scandinavo è stata influenzata dall’ascesa del partito popolare danese di estrema destra che ha condizionato anche le politiche del centro sinistra.
Foto in evidenza di Europa Today
Un articolo di Rosita Rijtano su lavialibera
Decine di persone in fila per un tozzo di pane, con una coperta sulle spalle e ai piedi, affondati nella neve, delle infradito. Le abbiamo viste lo scorso febbraio nelle foto scattate all’interno di Lipa: il campo profughi al confine tra la Bosnia e la Croazia che alla vigilia di Natale 2020 è stato incendiato ed è diventato il simbolo dell’abbandono in cui vivono migliaia di migranti in transito ogni anno sulla rotta balcanica. Lipa, oggi in ricostruzione, è uno dei mega-centri in cui le autorità bosniache hanno scelto di confinare i profughi che arrivano nel Paese per lo più da Pakistan, Afghanistan, Siria, Iran, Algeria e Palestina. Una politica di “non gestione” del fenomeno migratorio che, come evidenzia il rapporto “Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza” curato dalla rete RiVolti ai Balcani, gode del sostegno morale e materiale dell’Unione europea. Strategia che si affianca ai respingimenti portati avanti dalla Croazia, con il coinvolgimento delle forze dell’ordine italiane impegnate al confine italo-sloveno nelle cosiddette riammissioni: una pratica, temporaneamente sospesa, che consente alla polizia triestina di rispedire in Slovenia parte dei migranti intercettati alla frontiera, su cui sono stati sollevati dubbi di legittimità e su cui lavialibera ha chiesto spiegazioni alle forze dell’ordine, ma non ha ricevuto risposte.
È stata proprio l’Europa a finanziare questi centri, spendendo negli ultimi anni oltre 100 milioni di euro per aiutare il Paese dei Balcani a far fronte all’arrivo di migranti. Circa 13,8 sono stati stanziati attraverso uno specifico meccanismo per le emergenze, mentre altri 88 sono stati assegnati dall’Ue alla Bosnia ed Erzegovina nel periodo 2018-2021 per “la gestione delle migrazioni, l’implementazione del sistema di asilo e accoglienza, nonché la gestione delle frontiere”. Buona parte di questi fondi è stata destinata alla costruzione di campi che Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), definisce “campi di confinamento”: grandi strutture, spesso fatiscenti e degradate, lontane dai centri abitati e altamente sorvegliate, in cui gli standard di vita sono molto bassi. “Una strategia scellerata che vede responsabilità della Bosnia ma soprattutto delle istituzioni europee – ha detto Schiavone durante la conferenza di presentazione del dossier –. Non è possibile che con soldi dei cittadini dell’Unione vengano finanziate strutture di questo tipo, in cui vengono sistematicamente violati i diritti umani”.
Da notare che il numero dei posti disponibili all’interno dei centri non solo è sempre rimasto di alcune migliaia, ma è persino diminuito nell’ultimo periodo: agli inizi del 2021 la capienza era di circa 4.700 persone a fronte delle 8.200 dell’anno precedente. Un numero ridotto se si pensa che, secondo l’ultimo report dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), nel mese di maggio 2021 sono stati registrati dalle autorità bosniache 1.937 nuovi migranti e richiedenti asilo. Il numero di arrivi è così salito a 5.920 persone nel 2021 per un totale di 75.333 da gennaio 2018 a oggi. Dati che rendono chiara la strategia della Bosnia, portata avanti grazie ai finanziamenti europei. Da una parte, concentrare i profughi in grandi campi. Dall’altra, limitare i posti di accoglienza e favorire una politica dell’abbandono di chi sceglie o è costretto, per mancanza di alternative, a vivere al di fuori di queste strutture.
La linea è evidente in uno dei dieci cantoni di cui si compone la Bosnia ed Erzegovina: il cantone Una Sana, al confine con la Croazia, dove sia l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) sia il Servizio affari esteri bosniaco hanno segnalato che nell’inverno 2020/21 il numero di migranti nei boschi, in aree pericolose e edifici abbandonati è cresciuto molto, superando anche quota tremila. Una diretta conseguenza non solo dell’aumento degli arrivi, ma anche della chiusura di molti centri cui fa da contraltare il proseguimento dei lavori per il nuovo campo di Lipa che entro l’inverno dovrà poter accogliere mille persone, di cui 200 minori non accompagnati. Lipa, nato nell’aprile 2020 grazie ai soldi dell’Unione europea e dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale (Usaid), sorge su un altipiano isolato e privo di servizi, a 25 chilometri dalla città più vicina, Bihac. Quando il 23 febbraio del 2020 un incendio lo rase al suolo, il mondo scoprì le condizioni inumane in cui erano stati costretti a vivere i migranti: a circa nove mesi dalla sua apertura, il campo non aveva ancora né le fogne né l’allaccio alla corrente elettrica.
L’attenzione è durata poco, ha evidenziato Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica, aggiungendo che “per l’Ue, oggi Lipa è diventato un modello da finanziare e replicare nonostante sia uno strumento di segregazione e confinamento delle persone”. Significativo è che l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dopo aver gestito il campo per mesi, si sia tirata indietro quando è diventato inagibile per poi tornare ad aver un ruolo a partire dal 30 dicembre 2020, quando il Consiglio dei ministri bosniaco ha deciso che nell’arco di quattro mesi Lipa sarebbe stato riconvertito a centro di accoglienza ufficiale, a diretta gestione governativa con finanziamenti provenienti dall’Unione europea e con un ruolo di supporto tecnico proprio da parte dell’Oim. “Da quel momento – si legge nel report – la stessa Oim ha trasformato la propria narrazione del campo, da luogo deprecabile e inumano a possibile luogo di accoglienza sul quale veicolare attenzione mediatica e fondi anche raccolti da organizzazioni non governative di diversi Paesi dell’Ue”. Non solo. Secondo gli autori del dossier, il ruolo dell’organizzazione delle Nazioni unite nella gestione dei centri sarebbe ora alle battute finali e si sta procedendo a un progressivo passaggio di consegne nelle mani del governo bosniaco.
Accanto a questa politica portata avanti grazie ai finanziamenti Ue, definita “di confinamento”, è stata adottata una “strategia della deterrenza“: i migranti che vivono al di fuori dei campi sono stati criminalizzati e sottoposti a sgomberi, detenzioni arbitrarie e violazioni delle libertà personali. Anche in questo caso il governo del cantone Una Sana ha dettato la linea: a partire dall’estate 2020 ha creato ulteriori posti di blocco per impedire l’ingresso dei profughi al proprio interno, ha vietato loro l’acquisto di biglietti di bus e treni, gli assembramenti nelle aree pubbliche e la possibilità di prendere in affitto stanze in hotel e ostelli o in abitazioni private, andando a punire chi gli forniva sostegno. Così pure chi forniva supporto alle persone in transito, ha fatto marcia indietro. In parallelo, il discorso pubblico e politico nei confronti dei migranti è diventato sempre più ostile. Sono state organizzate manifestazioni, autorizzate dalle autorità, contro la loro presenza e non sono mancati pestaggi e intimidazioni.
A questo clima d’odio, si affianca l’inerzia del governo bosniaco nel prendere in carico le richieste di asilo. Nel 2020 su 14.432 manifestazioni di volontà di chiedere protezione, i procedimenti effettivamente avviati sono stati solo 244 (pari all’1,7 per cento del totale). A marzo 2021 le domande pendenti erano 237 di cui 109 presentate da persone appartenenti a nuclei familiari. Tutte azioni che creano un ambiente ostile, precario e pericoloso rendendo ancora più dura e difficile la sopravvivenza dei migranti in Bosnia. L’obiettivo è chiaro: spingere queste persone ad andare via e, in ultima istanza, disincentivare i nuovi arrivi.
“Si tratta di una strategia che si colloca in armonia con i respingimenti violenti, collettivi e a catena che le autorità croate attuano sistematicamente lungo i confini dell’Unione europea con la Bosnia ed Erzegovina”, denunciano i redattori del report. Respingimenti e violenze, documentate, che hanno potuto contare anche sulla complicità, seppur involontaria, delle forze dell’ordine italiane impegnate, fino a qualche mese fa, a rispedire indietro chi arrivava al confine italo-sloveno, dando inizio a “una catena illegale di restituzioni che spinge i migranti al di fuori dell’Unione Europea”, come spiegato da Schiavone a lavialibera. “Una pratica che porta le persone dalla Slovenia alla Croazia, dove subiscono documentate violenze da parte della polizia, e poi dalla Croazia alla Bosnia, dove vengono lasciati in condizioni di abbandono morale e materiale”. In pratica, la polizia italiana effettuava le cosiddette riammissioni – cioè restituiva a quella slovena parte dei migranti intercettati al confine – grazie a un accordo bilaterale firmato a Roma il 3 settembre 1996 tra il governo della Repubblica italiana e quello della Slovenia.
Un accordo che per i legali dell’Asgi ha una legittimità dubbia nell’ordinamento italiano ed è inapplicabile ai richiedenti asilo cioè a coloro che, alla frontiera, manifestano la volontà di chiedere protezione internazionale. Inoltre ciascuna riammissione dovrebbe essere accompagnata da un provvedimento motivato e notificato all’interessato, nonché impugnabile di fronte all’autorità giudiziaria. Mentre, secondo molte testimonianze raccolte dalle associazioni umanitarie, le persone riammesse non avrebbero ricevuto alcun provvedimento e ignare di tutto si sarebbero ritrovate prima in Slovenia, poi in Croazia e infine in Serbia o in Bosnia, anche se avevano intenzione di chiedere asilo nel nostro Paese. Lavialibera ha chiesto alle forze dell’ordine e al ministero dell’Interno di spiegare come vengono effettuate le riammissioni, ma non ha ricevuto risposte. La pratica è stata sospesa dopo che il tribunale di Roma in un’ordinanza del 18 gennaio 2021 l’ha giudicata illegittima, condannando il ministero dell’Interno. Ma a fine maggio Valerio Valenti, prefetto di Trieste, ha annunciato l’intenzione di riprenderla, precisando che i “presupposti giuridici sono ritenuti esistenti”. L’accordo bilaterale tra Italia e Slovenia “è stato ritenuto dal Ministero non solo valido ma applicabile e coerente con la legislazione europea, in particolare con il regolamento di Dublino, nella misura in cui la Slovenia garantisce l’esercizio degli stessi diritti da parte dei migranti e di rivendicare la protezione internazionale così come in Italia”, ha dichiarato Valenti.
“Chiediamo che l’Unione europea smetta di finanziare i mega-campi in Bosnia”, chiedono gli autori del report “Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza”, concludendo: “Si tratta di una politica irresponsabile che, unita all’instabilità prodotta dall’intreccio dei diversi livelli istituzionali interni alla Bosnia ed Erzegovina, genera una situazione di costante conflitto e ingovernabilità”.
Foto in evidenza lavialibera/Valerio Muscella e Michele Lapin
di Antonio Maria Mira su Avvenire.it
«Siamo di fronte alla rimozione del tema dell’immigrazione dal dibattito politico. È molto grave che iniziative nuove non siano prese a livello nazionale e europeo. Non è che il problema non c’è più perché non se ne parla più sulle prime pagine dei giornali». È la forte denuncia di Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione con il Sud. Che non sta a guardare. «In attesa di un vero salto culturale c’è bisogno di alcune iniziative specifiche che rendano meno drammatiche le cronache che abbiamo sotto gli occhi». Iniziative concrete come il bando della Fondazione che ha come obiettivo l’inserimento lavorativo degli immigrati e il contrasto allo sfruttamento. Scade il 17 settembre ed è rivolto alle organizzazioni del Terzo settore, con uno stanziamento di 2 milioni di euro, per sostenere iniziative esemplari nelle regioni del Sud. Su questo tema Fondazione con il Sud e “Avvenire” hanno promosso un forum di riflessione e proposta. Perché, sottolinea Borgomeo, «bisogna far scattare contemporaneamente una molla di solidarietà e il tema che al Paese conviene una politica di accoglienza».
E proprio questo doppio binario è stato al centro degli interventi al Forum. «Oggi conviene aprire ai flussi migratori – afferma Stefano Granata, presidente di Federsolidarietà –. Nella fase pandemica i bisogni di welfare si sono moltiplicati a fronte di alcune mansioni che sono totalmente mancate e continuano a mancare, tanto è vero che il Piemonte ha avviato una sanatoria temporanea per permettere alle badanti di poter lavorare nelle strutture di accoglienza per anziani, pur non avendo titolo, altrimenti avrebbero dovuto chiudere».
Ma, avverte, «se andremo avanti così nei prossimi 15-20 anni saremo costretti veramente ad andare a cercarli per convincerli a venire nel nostro Paese ». Inoltre «questi flussi hanno bisogno di essere accompagnati dal punto di vista dell’inserimento lavorativo» e «un Paese come il nostro non può immaginare di tutelarsi chiudendo le frontiere: l’emergenza pandemica ci ha fatto capire che non solo non abbiamo la necessità di arginare un fenomeno, ma abbiamo bisogno di qualificarlo, altrimenti non faremo altro che sommare disagi e vulnerabilità dei nostri cittadini a quelli dei cittadini stranieri».
Esemplare è da questo punto di vista il cammino intrapreso dalla città di Palermo. Il sindaco Leoluca Orlando ricorda che «la nostra città è stata per cento anni repressa dal governo mafioso che aveva un’idiosincrasia per le diversità. Il cambio culturale di Palermo deve ringraziare le vittime innocenti della mafia che ci hanno fatto scoprire la cultura della legalità, e le sofferenze dei migranti che ci hanno fatto scoprire che tante volte la legge nega i diritti». Per questo, aggiunge, «non possiamo ignorare la strage nel Mediterraneo». «Ho proposto ai vertici Ue – spiega ancora Orlando – un Servizio europeo di salvezza delle vite umane, perché non possiamo affidarci soltanto alle Ong, spesso bloccate da cavilli giuridici».
Per quanto riguarda la città, «il compito di un’amministrazione comunale è garantire prima della convenienza la sicurezza, che in democrazia si fonda sul rispetto dei diritti di tutti. La premessa è la visibilità di tutti, perché se sono invisibile sono pericoloso e non faccio differenza tra un criminale latitante e un cittadino senza documenti. Per questo ho firmato decine e decine di residenze anagrafiche a dispetto del cosiddetto decreto sicurezza. Nonostante le mille critiche ho avuto il conforto dalla Consulta che eversiva era la legge e non le mie firme».
Per questo, insiste, «abbiamo proposto l’abolizione del permesso di soggiorno a livello europeo, perché è la nuova schiavitù. La dimensione dell’accoglienza deve cedere il passo a quella della coabitazione consentendo a tutti di sentirsi a casa propria». E in questo si cala il contrasto al caporalato, come sottolinea il segretario generale della Fai-Cisl, Onofrio Rota. «Se non c’è una visione d’insieme del fenomeno, volontà e pragmatismo nell’affrontarlo, non si va da nessuna parte. Il fenomeno del caporalato si contrasta soltanto se c’è un’azione corale di tutte le parti ». La Fai ha promosso un servizio SOS Caporalato, con un numero verde (800.199.100) e un’app, «dove raccogliamo le segnalazioni dei lavoratori».
E ancora «il camper dei diritti che va a presidiare le periferie e i ghetti dove vivono sia irregolari che regolari». Infine «stiamo lavorando anche a livello europeo: la Pac non solo deve dare i contributi alle imprese agricole per lo sviluppo, l’aggiornamento della meccanizzazione, il benessere degli animali. Per questo abbiamo chiesto delle clausole di sostenibilità sociale e questo vuol dire che le aziende che godono dei contributi pubblici devono garantire ai lavoratori non solo il rispetto del contratto ma anche di tutte le norme relative alla prevenzione e alla sicurezza».
Ma bisogna «anche contrastare le pratiche sleali che avvengono attraverso le aste al doppio ribasso. Abbiamo lanciato una proposta: come parliamo di tassi antiusura per i cittadini che si rivolgono al sistema bancario, dovremmo avere anche i prezzi anticaporalato, cioè che i prodotti agricoli non possono essere venduti alla grande distribuzione se non vanno giustamente a remunerare l’impresa e il costo del lavoro».
Di Laetitia Leunkeu su Valigia Blu
Gli europei di calcio sono stati, tra le altre cose, una fiera di simboli. Tra questi si è diffusa un’immagine che parla più delle parole che si vorrebbero forzare sulla pelle del suo soggetto: un bambino, nero, immortalato mentre in un momento di gioia sbandiera il tricolore per festeggiare insieme agli altri la vittoria sudata contro gli inglesi. Il suo corpo in breve diventa simbolo politico. Sui profili su cui gira la sua immagine si parla di prova di integrazione, di inclusione, di appartenenza. “Questa è l’Italia!” gridano.
Paradossale l’uso strumentale di un bambino, che nel quadro in cui è ritratto e per come viene raccontata l’immagine appare come una anomalia, una irregolarità di un ordine costituito, un vessillo per rivendicare una famigerata normalità. Paradossale quanto esplicativo di una realtà piuttosto deludente.
Sì l’Italia è questa. È quella tendenza all’”io non vedo i colori”, detto sbrigativamente per liquidare qualsiasi discorso cerchi di sviscerare i meccanismi attraverso cui il razzismo si manifesta, per evitare di veder messi in discussione i propri a priori. È quel paese in cui, sia a destra che a sinistra, i corpi neri e migranti diventano mezzi, strumenti utili talvolta a sanare questa e quella crisi economica (le famose “risorse”), talvolta per guadagnare consensi elettorali su promesse vuote, per poi decidere di rifinanziare chi partecipa in primo luogo alle loro sofferenze.
Quella foto è esemplificativa di come il dibattito pubblico attorno al razzismo in Italia abbia ancora forme elementari in cui, spesso, la lotta contro le discriminazioni si riduce a una constatazione passiva delle realtà più clamorose. Una performance sociale attorno alla quale gravita un alone di deresponsabilizzazione costante.
Qualsiasi tentativo di analisi che cerchi di andare alla radice del problema, che affianchi al piano istituzionale (come ad esempio la legge Bossi-Fini e le sue problematiche) anche una critica delle dinamiche individuali, una denuncia delle micro-aggressioni quotidiane e delle insidie del linguaggio politico-mediatico attorno all’immigrazione, viene visto come un’estremizzazione “inutile” del dibattito, specialmente se fatto dalle minoranze etniche stesse.
“L’Italia non è un paese razzista”
“Siamo il paese meno razzista d’Europa”
“Gli italiani non sono razzisti, sono solo stanchi”
A ripetercelo nelle tv, sui giornali, sui social, alle conferenze, sono italiani bianchi di sangue ai quali cittadinanza, uguaglianza, costruzione identitaria e appartenenza sono date per scontate, coloro per cui le battaglie (degli altri) rimangono teoriche, questioni filosofiche su cui dibattere ponendo la propria voce e le proprie prospettive al centro della discussione.
Lo storico e ricercatore Angelo del Boca, massimo studioso del colonialismo italiano, analizzò il processo di mitizzazione dell’italiano, che per secoli ha usato il sotterfugio della clemenza, il mito dell’italiano buono, per ripulirsi la coscienza dalle atrocità che ha compiuto e che continua a compiere, scriveva nel suo saggio Italiani brava gente?:
“Il mito degli «italiani brava gente», che ha coperto tante infamie, […] appare in realtà, all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico”
“Anziché essere turbati per l’universo disumano che avevano creato, ne erano palesemente fieri. Ciò emerge chiaramente dai documenti ufficiali come dalla corrispondenza privata. Questa fierezza era associata alla convinzione che soltanto gli italiani, per il loro carattere aperto, bonario, tollerante, erano in grado di portare gli indigeni a un grado superiore di civiltà. Riaffiorava dunque anche in Africa, e si imponeva subito con vigore, il mito dell’italiano «buono», «bene accetto», «non razzista», «accomodante»”
Il negazionismo odierno, quindi, dipenderebbe da un mancato processo di decolonizzazione, di analisi e decostruzione dei retaggi storici di quelle pagine di storia che ancora si fatica a riconoscere.
Possiamo vederlo all’opera nelle frasi di chi, da tipico salvatore bianco, invita gli “stranieri” a essere grati all’Italia per la sua accoglienza e a non lamentarsi della propria condizione; di chi afferma che in Italia il razzismo,“quello vero”, non esiste perché “ci sono solo alcuni ignoranti”; di chi, infine, pur riconoscendo in alcune persone atteggiamenti discriminatori, rifiuta di mettere in discussione i propri preconcetti e analizzare i modi in cui egli stesso potrebbe contribuire a quel sistema al quale vorrebbe essere contrapposto.
Ne risulta una miopia selettiva caratteristica non solo nelle destre, che si nascondono dietro ai nazionalismi per fare le loro uscite palesemente xenofobe, ma anche del benaltrismo di chi da “sinistra” vorrebbe farsi portavoce dei diritti degli ultimi.
Analizzare le diverse modalità in cui i fenomeni sociali si manifestano nel contesto specifico del proprio paese, evitando l’assimilazione acritica delle battaglie altrui, è quanto di più corretto per trovare soluzioni coerenti e dunque efficaci. Vivere nella negazione, estraniandosi da una realtà evidente, non aggiunge nulla alla discussione, ma dà ancora più spazio alla discriminazione, che viene allora percepita come normalità, rendendo chi preferisce la cecità esso stesso parte integrante del problema.
Il razzismo in Italia dilaga da anni: traspare nel modo in cui si percepisce, rappresenta e racconta l’altro, sia egli effettivamente straniero nella terra in cui abita o italianissimo.
Le storie di Jerry Boakye, 34 anni morto l’anno scorso dopo aver passato gli ultimi tre anni della sua vita paralizzato in seguito ad un’aggressione razzista su un autobus, quella di Musa Balde suicida nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Torino, di Edith picchiata da 6 donne e poi discreditata dall’infermiera che l’ha soccorsa o ancora Soumaila Sacko ucciso dai caporali per aver denunciato le condizioni di schiavitù in cui vertevano lui, i suoi compagni e molti altri come loro in Italia, sfruttati nella loro situazione di precarietà per portarci i pomodori a basso costo in tavola, sono solo la parte più evidente di un sistema ben radicato.
Il razzismo si manifesta quotidianamente, quando la gente non si fa problemi a perpetrare ignoranza e xenofobia davanti a te perché non si stanno riferendo a te, perché tu sei diversa, tu “non sembri africana”, perché non incarni lo stereotipo di persona africana che hanno dipinto nella mente. Quando entri in un ufficio e la prima cosa che ti chiedono è “parli italiano?”, anche qualora tu in Italia ci fossi nato, perché il nero — sempre rappresentativo di una pluralità — è ovviamente solo l’immigrato, non “integrato”, che non può avere una conoscenza adeguata della lingua. Quando una ragazza con il velo viene additata di essere terrorista per strada, tra le risate di chi ascolta.
Il razzismo è istituzionalizzato quando i bandi per posti di lavoro nel settore pubblico sono quasi tutti riservati ai soli titolari della cittadinanza italiana e, per legge, nessun cittadino non italiano può esercitare mansioni che necessitino di qualifica dirigenziale, quei lavori che “implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri”.
Il razzismo è culturale quando modi di dire come “lavorare come un ne*ro” fanno parte del nostro linguaggio quotidiano.
In quelle televisioni, dove sfilano con fierezza politici e opinionisti a dirci che in Italia non vi è un grosso problema di iniquità sociale legato all’etnia dei suoi cittadini (o meglio residenti perché il titolo di “cittadino” è un lusso ancora per pochi), quanti giornalisti non bianchi conoscete? Conduttori? Meteorologi? Comici?
Il velo di Maya che ognuno si crea per deresponsabilizzarsi non cancella la realtà a cui devono far fronte gli immigrati e i loro figli, perfettamente allineata alla loro perenne condizione di “diversi”, alieni in una narrazione sempre in terza persona. Chi emigra resta per tutta la vita sotto processo. E in questo processo, spesso ad andare a giudizio sono le colpe dei padri e delle madri trasferite su figli innocenti. Il peccato originario è eterno. È il colore della tua pelle, i tuoi capelli, i tuoi tratti che ti tradiscono.
Ciò che si perde a volte anche nell’attivismo antirazzista in Italia è la critica strutturale del razzismo, che non riguarda solo i leader populisti e le loro esternazioni esplicitamente discriminatorie.
Viviamo in un paradosso in cui risulta più scomodo parlare di razzismo che essere razzisti. La metà delle volte in cui parlo della mia esperienza in quanto donna nera in un contesto sociale in cui l’etnia ha ancora valore predominante nei rapporti interpersonali e non, mi sento rispondere “non tutti gli italiani” e per l’altra metà “ma questo succede a tutti, non solo ai neri/immigrati”.
La difficoltà di molti nel capire che ci siano esperienze statisticamente più comuni tra un gruppo di persone, perché questi soggetti hanno delle caratteristiche che spingono gli altri a quei comportamenti nei loro confronti, rappresenta la nostra difficoltà nell’arginare i problemi che ne derivano.
Ciò che emerge da questa tendenza a difendere, contestare, minimizzare o ignorare le esperienze dei diretti interessati è una sorta di fragilità razziale (ovvero la tendenza a sentirsi minacciati ogni volta in cui vengono messi in discussione i propri preconcetti su razza e razzismo) estremamente dannosa, a partire dal fatto che ogni critica al sistema viene percepita come attacco personale.
Cercare di mettere in discussione gli atteggiamenti razzisti considerati rilevanti — sempre da altri e mai dai diretti interessati — nella retorica politica mainstream è lecito, ma far sentire a disagio il tuo interlocutore, implicando una sua responsabilità nel sistema dominante in cui si inserisce e di cui assimila il punto di vista, è inammissibile.
La lotta per i tuoi diritti va bene fintanto che è cauta, poco fastidiosa e magari anche silenziosa.
Questa tendenza a vedere le rivendicazioni odierne come inutili o troppo estreme parte dalla convinzione piuttosto diffusa che oramai le lotte “vere e proprie”, quelle d’altri tempi, siano ormai superate e che ciò che permane siano solo degli echi di una realtà non più attuale e quasi superata, che non necessitano della stessa ferocia e degli stessi mezzi.
Ogni secolo ha i suoi moderati, i suoi “veri combattenti”, quelli che sanno meglio di te come portare avanti le tue battaglie, poiché imparziali e razionali.
Ogni secolo ha, quindi, il suo “moderato bianco” colui che “ha a cuore l’ordine più della giustizia; che preferisce la pace negativa, ossia l’assenza di tensioni, a una pace positiva, ossia la presenza della giustizia; che dice sempre: «Sono d’accordo con voi per quanto riguarda gli obiettivi che vi prefiggete, ma non sono d’accordo con i vostri metodi di azione diretta»; che crede, nel suo paternalismo, di poter essere lui a determinare le scadenze della libertà di un altro; che vive secondo un concetto mitico del tempo e continua a consigliare ai neri di attendere un momento più propizio”.
Il moderato bianco qui descritto da Martin Luther King nella lettera aperta scritta durante i suoi giorni di prigionia a Birmingham nel 1963, è colui che oggi parla di polarizzazione politica come causa di fratture nella società, delle lotte delle minoranze come temi divisivi, chi dice “giusto battersi per questo, ma forse ci sono temi più importanti di cui occuparsi ora” oppure chi, di fronte alle accuse di razzismo nei confronti di un soggetto (pubblico), invita alla cautela, ad analizzare le intenzioni del soggetto in questione piuttosto che il gesto stesso e le sue conseguenze.
Quando si tratta di razzismo o di qualsiasi altra forma di oppressione, la tendenza a voler giustificare le sue manifestazioni con argomenti inerenti alla moralità è piuttosto comune.
«Non era fatto con cattiveria!»
«Non è per niente razzista, non voleva offendere!”
Invocare un’intenzione mal compresa è in realtà un processo comune che scredita la rabbia di chi viene costantemente sottoposto alle conseguenze di queste azioni.
Perché, quando parliamo di razzismo e dei suoi soggetti correlati, diamo tanta importanza all’intento che si nasconderebbe dietro all’atto razzista? Perché l’accusa di razzismo è quasi sistematicamente percepita come un difetto inconfessabile.
Dire a qualcuno che sta mettendo in atto comportamenti razzisti o pregiudizievoli e sottintendere una qualche sua responsabilità diretta in queste dinamiche, si configura come una dichiarazione di guerra, un requisito sufficiente perché chi subisce passi dalla parte del torto.
Tuttavia, il razzismo è raramente circoscritto entro i limiti rappresentati da individui fondamentalmente malvagi (e infatti, poche sono le persone che ancora credono alle teorie gerarchiche della razza del XXI secolo).
“L’intenzione” ha poca importanza in questo contesto: quello che interessa è chiedersi cosa rende le nostre società così permissive riguardo al razzismo, è capire perché nonostante quasi tutti si dicono pronti a condannarlo, questo continui ad affermarsi attraverso politiche razziste, e a condizionare i nostri rapporti sociali.
Focalizzarsi sull’intenzione cancella le interconnessioni sistemiche all’interno dei processi individuali e collettivi che determinano il razzismo. Così facendo non ci interroghiamo sulle condizioni di produzione ed esistenza del razzismo. Allo stesso modo dichiararsi “non razzista” serve a poco. Non è altro che una dichiarazione di neutralità che maschera la deresponsabilizzazione verso queste questioni e, soprattutto, permette di liquidare tutti gli interrogativi riguardo ai rapporti di forza in gioco.
Immagine in evidenza di Djarah Kan
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