Di Sara De Carli su Vita
Al 24 maggio 2021, secondo il Viminale, sono sbarcati in Italia 2.279 minori stranieri non accompagnati, su 13.766 persone che hanno raggiunto l’Italia via mare. In tutto il 2020, i bambini e i ragazzi giunti soli via mare erano stati 4.687, l’anno prima 1.680. I numeri relativi ai minori stranieri che si trovano a vivere soli nel nostro Paese stanno tornando a salire: complessivamente i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia al 30 aprile 2021 erano 6.633, tornati stabilmente da ottobre 2020 sopra quota 6mila. Siamo ancora molto distanti dai numeri del 2017, quando avevamo più di 18mila minori stranieri soli, ma gli addetti ai lavori hanno già richiamato la necessità di alzare l’attenzione affinché i loro diritti di bambini e ragazzi siano rispettati. Perché questo sono, prima di tutti, bambini e ragazzi che necessitano di adulti di riferimento, che li accompagnino.
Fondamentale è che ognuno di loro abbia un tutore volontario al suo fianco: una figura che l’Italia ha introdotto nel 2017 con la “legge Zampa” e che non soltanto ci ha permesso di arrivare alla chiusura della procedura di infrazione a nostro carico da parte della Commissione Europea ma ci ha fatti diventare in qualche modo modello per l’accoglienza.
Per questo la Garante Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza Carla Garlatti a inizio maggio ha ribadito che ogni minore non accompagnato presente in Italia deve avere un tutore volontario: garantirglielo non è un auspicio o un semplice valore aggiunto del nostro sistema di accoglienza, bensì un dovere. «Avere un tutore volontario è un diritto che tutti i MNA devono ottenere. Ci sono zone d’Italia in cui il numero di tutori è adeguato al numero di minori e altre in cui non lo è affatto, perciò è necessario proseguire con una campagna di sensibilizzazione», ha detto. I numeri ufficiali sono fermi al 30 giugno 2019: 2.967 tutori volontari formati e 2.960 iscritti negli albi dei tribunali, grossomodo uno ogni due MNA presenti al momento in Italia.
L’altra area su cui lavorare è l’accoglienza in famiglia, con un affido. Il progetto Terreferme, nato nel 2018 da un’intesa tra CNCA e Unicef, è ora diventato una delle azioni del programma Child Guarantee, con l’obiettivo di realizzare 35 affidi di MNA entro il marzo 2022. Gli affidi già avviati sono 26, di cui 12 hanno riguardato MNA che dalla Sicilia hanno trovato una famiglia in Lombardia e Veneto (la necessità di riequilibrare la presenza dei minori sul territorio nazionale era uno dei punti di partenza del progetto). Altri cinque progetti di affido potrebbero concretizzarsi al termine della scuola, con un primo affido a tempo pieno di una ragazza in una famiglia siciliana. Terreferme infatti in questi anni si è “allargato”, con la formazione di famiglie affidatarie in Sicilia, con l’apertura agli affidi diurni e anche a minori stranieri che hanno una famiglia, ma fragile.
«Ha funzionato la squadra, la tenuta nel tempo, la tenuta delle famiglie. Avere operatori che garantiscono una reperibilità H24, 365 giorni l’anno, rassicura molto le famiglie. Anche i Comuni sono più disponibili a farsi coinvolgere», commenta Liviana Marelli, responsabile Minori e Famiglie del CNCA. I nodi sono la gestione della burocrazia legata ai documenti, ai premessi, alla regolarizzazione – «le famiglie da sole non ce la fanno», dice – e lo snodo della maggiore età: «Ai 18 anni hanno tutti avuto il prosieguo amministrativo e sono ancora in famiglia, tranne uno che è tornato in Sicilia ma si definisce “il figlio lontano” della famiglia affidataria. Il rischio però è che questi ragazzi precipitino in una posizione di irregolarità che interrompa i percorsi importanti che hanno avviato».
di Annalisa Camilli su Internazionale
Il 15 luglio la camera dei deputati ha approvato la delibera che autorizza e proroga le missioni militari italiane all’estero. Tra queste c’è anche quella che permette il finanziamento della cosiddetta guardia costiera libica e dei centri di detenzione per stranieri nel paese nordafricano in cui secondo l’alto commissario delle Nazioni Unite ai diritti umani sono stati documentati “inimmaginabili orrori”.
Nello stesso giorno Amnesty international ha pubblicato un nuovo rapporto – Nessuno ti cercherà: il ritorno forzato dal mare alla detenzione arbitraria in Libia – che raccoglie testimonianze di violazioni e abusi nei centri di detenzione libici nei primi sei mesi del 2021, comprese violenze sessuali contro uomini, donne e bambini intercettati mentre attraversano il Mediterraneo e rinviati con la forza nei centri in Libia.
Il rapporto ha anche rilevato che dalla fine del 2020 la Direzione per la lotta alla migrazione illegale (Dcim), un dipartimento del ministero dell’interno libico, ha legittimato gli abusi aggiungendo al suo controllo due nuovi centri di detenzione. In uno dei due centri i sopravvissuti hanno raccontato che le guardie hanno violentato le donne costringendole a fare sesso in cambio di cibo o della libertà.
Anche Oxfam ha aggiornato il suo rapporto sulle spese militari dell’Italia in Libia, rilevando che nel 2021 sono cresciuti di mezzo milione di euro i finanziamenti destinati al blocco dei flussi migratori. “Da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021. In totale sono 32,6 i milioni destinati alla guardia costiera libica dal 2017; salgono a 271 i milioni spesi dall’Italia per le missioni nel paese nordafricano”, spiega Oxfam.
Rispetto al 2020, anche le risorse destinate alle missioni navali che non prevedono il salvataggio dei migranti in mare sono aumentate: di 17 milioni quelle destinate a Mare sicuro e di 15 milioni quelle per la missione europea Irini. “Dall’inizio del 2021 ci sono state oltre 720 vittime lungo la rotta del Mediterraneo centrale, almeno 7.135 dalla firma dell’accordo tra Italia e Libia nel 2017 e oltre 13mila i migranti che sono stati riportati in Libia”, afferma il rapporto.
Anche l’Arci ha pubblicato un documento in cui denuncia l’operato della cosiddetta guardia costiera libica e le responsabilità dell’Italia e la poca trasparenza negli accordi tra i due paesi. “Che si tratti di accordi, dichiarazioni tra ministri, intese o programmi di attuazione dei vari progetti, la costellazione di misure che formano la cooperazione tra Italia e Libia per il blocco dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale è comunque accomunata da una grave mancanza di trasparenza, spesso giustificata dalle autorità italiane in termini di attività ‘di elevata sensibilità istituzionale’, ma che in realtà sembra finalizzata a tenere lontana dal controllo democratico e dall’opinione pubblica la realtà delle misure di esternalizzazione delle frontiere, gravemente lesive dei diritti umani e delle norme costituzionali e internazionali”, scrive.
“Attraverso la consultazione di documenti pubblici sui siti ministeriali, abbiamo cercato di mettere insieme i principali programmi che contribuiscono al supporto delle autorità di frontiera libiche, con cui a oggi l’Italia e l’Unione europea hanno fornito manutenzione e formato gli equipaggi di almeno sei o sette motovedette di proprietà libica e ceduto gratuitamente, oltre alle quattro motovedette risalenti agli accordi del 2009, altre dodici unità navali di proprietà della guardia di finanza e della guardia costiera italiane e venti battelli di nuova costruzione”, continua l’Arci denunciando le azioni documentate di aggressioni contro imbarcazioni di migranti e pescherecci delle motovedette libiche donate dall’Italia.
A cura dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni
Secondo un nuovo rapporto pubblicato dall’OIM, sono almeno 1.146 le persone che nei primi 6 mesi del 2021 hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. A oggi, quest’anno le morti lungo queste rotte sono più che raddoppiate rispetto allo stesso periodo del 2020, quando il numero noto dei migranti annegati era 513.
Il rapporto analizza la situazione in corso lungo alcune delle rotte migratorie marittime più pericolose del mondo. Mentre il numero di persone che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo è aumentato del 58% tra gennaio e giugno di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2020, più del doppio delle persone hanno perso la vita.
“L’OIM ribadisce l’invito agli Stati a prendere misure urgenti e proattive per ridurre le morti lungo le rotte migratorie marittime verso l’Europa e rispettare quelli che sono gli obblighi definiti dal diritto internazionale“, afferma il Direttore Generale dell’OIM António Vitorino. “Per raggiungere questo obiettivo occorre aumentare gli sforzi di ricerca e soccorso in mare (SAR), stabilire meccanismi di sbarco prevedibili e garantire l’accesso a canali migratori legali e sicuri.”
L’analisi, realizzata dal “Missing Migrants Project” presso il Global Migration Data Analysis Centre (GMDAC) dell’OIM, mostra come l’aumento dei decessi sia avvenuto in un periodo nel quale da una parte è stato registrato un insufficiente numero di operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e lungo la rotta atlantica, e dall’altro è stato osservato un aumento dei migranti intercettati in mare al largo della costa nordafricana.
La maggior parte degli uomini, donne e bambini che sono morti nel 2021 allo scopo di raggiungere l’Europa stavano tentando di attraversare il Mediterraneo. L’OIM ha registrato un numero totale di 896 morti per queste rotte.
Di queste, almeno 741 persone sono morte sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre 149 persone hanno perso la vita attraversando il Mediterraneo occidentale e 6 sono morte lungo la rotta del Mediterraneo orientale, nel tratto di mare che separala Turchia dalla Grecia.
Nello stesso periodo, circa 250 persone sono annegate tentando di raggiungere le isole Canarie in Spagna Lungo la rotta Atlantica. Tuttavia, queste potrebbero essere tutte stime per difetto. Centinaia di casi di naufragi invisibili sono stati segnalati da ONG che si sono messe in contatto diretto con le persone che lanciavano SOS a bordo dei barconi o con le loro famiglie. Questi casi, che sono estremamente difficili da verificare, indicano che il numero di morti possa essere molto più alte di quanto si pensi.
Un esempio di ciò risale al 24 marzo, quando Sohail Al Sagheer, un rapper algerino di 22 anni, è stato dichiarato disperso dopo essere partito con nove amici da Orano, in Algeria, per raggiungere la Spagna. I suoi famlliari hanno condotto un’affannosa ricerca di informazioni per scoprire cosa fosse successo, sconvolti dalla possibilità che potesse essere stato vittima di un naufragio avvenuto al largo di Almería, in Spagna. Il corpo senza vita del ragazzo è stato poi ritrovato il 5 aprile, al largo della costa di Aïn Témouchent, in Algeria.
Il rapporto dell’OIM mostra anche un aumento, per il secondo anno consecutivo, delle operazioni marittime degli stati nordafricani lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Più di 31.500 persone sono state intercettate o soccorse dalle autorità nordafricane nella prima metà del 2021, rispetto alle 23.117 dei primi sei mesi del 2020.
Le operazioni al largo della Tunisia sono aumentate del 90 per cento nei primi sei mesi del 2021 rispetto al 2020.
Inoltre, oltre 15.300 persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia nei primi sei mesi dell’anno, quasi tre volte di più rispetto allo stesso periodo del 2020 (5.476 persone). Questo è un dato preoccupante visto che i migranti che vengono riportati in Libia sono soggetti a detenzione arbitraria, estorsione, tortura.
Il rapporto evidenzia come ci siano ancora delle lacune nei dati relativi ai flussi migratori marittimi verso l’Europa. Dati migliori possono aiutare gli stati ad affrontare con urgenzagli impegni definiti dall’obiettivo 8 del Global Compact for Migration per “salvare vite e intraprendere sforzi internazionali coordinati sui migranti scomparsi“.
Il report completo qui
Foto in evidenza Organizzazione Internazionale per le migrazioni
di Bracalente Marta, Heredia Zuloeta Lauren E., Aversa Ilaria e Gkliati Mariana* su Redattore Sociale
Episodi di vittimizzazione per aggressione, furto, detenzione non autorizzata, trasferimento in mare forzato e senza mezzi di navigazione ed espulsione collettiva. Per la prima volta Frontex, Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, risponderà di abusi ai danni di migranti, comprese violazioni dei diritti umani tra cui respingimenti indiscriminati. Il 25 maggio, infatti, è stata intrapresa la prima azione legale contro l’Agenzia da parte delle organizzazioni Front-lex, Progress Lawyers Network e Greek Helsinki Monitor, presso la Corte di Giustizia Europea. La causa è stata presentata per conto di due richiedenti asilo (un minore non accompagnato e una donna) mentre cercavano asilo in territorio UE sull’isola di Lesbo in Grecia. Oggi, 14 Luglio, è iniziata la discussione del caso presso la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo.
Le accuse mosse contro Frontex traggono fonte da molteplici testimonianze che ricostruiscono gli eventi passati dalle vittime. Tra i fatti presentati si trovano anche prove di altre operazioni di respingimenti senza giusta causa durante i loro tentativi di cercare protezione in UE.
Dalle testimonianze presenti nell’azione legale, un membro del presunto gruppo di migranti respinti indiscriminatamente, minorenne e amico del richiedente anche lui minore, è caduto in acqua ed è morto annegato. La Guardia Costiera Ellenica (HCG) non ha recuperato il corpo. La Guardia Costiera Turca (TCG) ha poi confermato che un corpo morto è stato trovato nel periodo dal 12 al 14 giugno 2020. Proprio in questa occasione, continua il denunciante, gli ufficiali della Guardia Costiera ellenica hanno confiscato soldi, telefoni ed effetti personali oltre ad aver picchiato e molestato altri membri del gruppo del denunciante.
Front-lex e il team di avvocati che hanno presentato l’azione legale, sostengono la responsabilità di Frontex in questi eventi: l’Agenzia dovrebbe svolgere un ruolo di monitoraggio regolare della gestione delle frontiere esterne, compreso il rispetto dei diritti fondamentali. Anche se gli Stati membri mantengono la responsabilità primaria nella gestione delle proprie frontiere esterne e dell’emissione delle decisioni di rimpatrio infatti, le attività dell’Agenzia dovrebbero sostenere l’applicazione delle misure dell’Unione relative alla gestione delle frontiere esterne e ai rimpatri rafforzando, valutando e coordinando le azioni degli Stati membri che attuano tali misure.
Dal Regolamento del 2016, ma ancora di più dai cambiamenti apportati nel 2019 alle competenze dell’Agenzia e dalle proposte per i prossimi anni, diventa sempre più evidente che Frontex stia diventando un corpo di para-polizia fino al punto di aver proposto fondi per 11 miliardi di euro tra il 2019 e il 2027, inclusi fondi per lo stanziamento di agenti armati e, per la prima volta, direttamente impiegati da Frontex, e, quindi, dall’Unione Europea. Questa nuova urgenza ha spinto il gruppo di avvocati guidati da Front-lex a sostenere le difficoltà del procedimento alla Corte di Giustizia Europea per garantire l’attribuzione di responsabilità a Frontex sulle operazioni nell’Egeo.
Nonostante la mobilitazione pubblica e di attivisti e le prove forensi presentate ai vari gruppi di scrutinio e all’opinione pubblica di giornalisti europei d’inchiesta, l’accesso alla Corte di Giustizia Europea è ancora difficile per singoli applicanti, specie nel caso in cui vi siano in situazioni precarie e pericolose come richiedenti asilo. Nel caso di quest’azione legale, infatti, la Corte si dovrà pronunciare circa l’ammissibilità dell’azione, e, solo dopo, valuterà se i fatti esposti generano responsabilità del Direttore Esecutivo e dell’Agenzia.
A risultato di una precedente azione intrapresa contro l’Ungheria, il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri ha sospeso le operazioni di Frontex in Ungheria. Poiché l’azione legale è stata presentata contro l’Ungheria, le azioni sospese sono solo quelle nelle zone di transito e per i respingimenti in terra, mentre le attività di ritorno proseguono.
Nel caso dell’Ungheria il direttore esecutivo Leggeri ha deciso di sospendere le operazioni solo dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea, mentre nel caso del Mar Egeo, in esame nell’azione Legale, ha ribadito che il suo potere è discrezionale.
Nonostante le dichiarazioni di Leggeri, nell’articolo 46 del Regolamento dell’Agenzia del 2019 si conferma espressamente che, in caso di violazioni di diritti fondamentali o di obblighi in materia di protezioni internazionale di natura grave o potenzialmente persistenti, il direttore esecutivo dell’Agenzia, dovrà sospendere, cessare o revocare il finanziamento di qualsiasi attività dell’Agenzia.
Con questa azione Front-lex, Progress Lawyers Network e Greek Helsinki Monitor intendono sottolineare alle autorità europee quanto queste violazioni dei diritti fondamentali di tutte le persone vengano sottaciute e insabbiate dall’agenzia in modo sistematico, richiedendo quindi la sospensione delle operazioni dell’Agenzia nell’Egeo.
Varie inchieste giornalistiche sul campo nelle isole Greche dell’Egeo, hanno evidenziato come il sistema di monitoraggio interno dell’Agenzia, unito all’inadeguato meccanismo di segnalazione dei Serious Incidents, continuino sistematicamente a fare in modo che non solo le poche problematiche riportate non vengano poi investigate appieno, ma che la maggior parte di esse non raggiungano nemmeno gli addetti al monitoraggio delle operazioni. Si legge nell’azione legale che, già a febbraio 2021, gli avvocati hanno invitato l’Agenzia a definire la sua posizione in relazione al suo obbligo ai sensi dell’art. 46 del suo regolamento istitutivo, e a sospendere o terminare immediatamente tali attività attraverso una richiesta preliminare. L’Agenzia non ha accettato le loro richieste e non ha sospeso le proprie operazioni, senza fornire una giustificazione soddisfacente. Di conseguenza, i ricorrenti sostengono l’incapacità dell’Agenzia e del direttore esecutivo a compiere le obbligazioni dirette a rispettare i diritti fondamentali.
Dalle raccomandazioni scaturite da varie indagini a livello istituzionale europeo è evidente che l’attività di sorveglianza delle frontiere di Frontex vada a sua volta monitorata, soprattutto riguardo al rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, per la maggior parte dei giornalisti, attivisti, e per l’opinione pubblica, ma non per Leggeri. La pubblicazione del report del Frontex Scrutiny working group del Parlamento Europeo circa le indagini sul convolgimento dell’Agenzia nelle violazioni dei diritti umani, è prevista il 15 luglio 2021.
*Bracalente Marta e Heredia Zuloeta Lauren Estefania sono studentesse della Clinicade Diritti, dell’immigrazione e della Cittadinanza dell’Università degli Studi di Roma Tre e partecipanti al progetto “European Border and Coast Guard Agency: SystemicAccountability in Practice”. Aversa Ilaria (LecturerallaUniversityof Greenwich, volontariaStatewatch) fa parte del progetto “EuropeanBorder and CoastGuard Agency: SystemicAccountability in Practice”.Gkliati Mariana (Leiden University, Universityof London) leader del progetto “EuropeanBorder and CoastGuard Agency: SystemicAccountability in Practice”.
Congolese asylum-seekers line up to undergo security and health screening in Zombo, near the border between Uganda and the Democratic Republic of Congo. ; In July 2020, UNHCR, the Government of Uganda and partners mounted an emergency operation in the Zombo district to receive thousands of asylum-seekers stranded in no-man's land between Uganda and the Democratic Republic of the Congo (DRC) since late-May. The Guladjo and Mount Zeu border points have been opened for three days to receive civilians who are among an estimated 45,000 people displaced by militia violence in eastern DRC. Like many countries, Uganda closed its borders in March to contain the spread of COVID-19. Upon arrival at the border, all asylum-seekers underwent security and health screening. Vulnerable individuals were identified and fast-tracked for assistance. Mandatory 14-day quarantine and COVID-19 testing is being carried out at Zewdu Farm Institute, where arrivals are being registered and given food and basic aid.
Qual è il paese che ospita più rifugiati al mondo? Da dove proviene il maggior numero di nuove domande d'asilo? Quanti rifugiati hanno potuto tornare in sicurezza nel proprio paese? 10 domande per scoprire quanto ne conosci sul tema.
A cura di Redazione
Foto in evidenza di Rocco Nuri
Realizzato in collaborazione con
Le fonti usate per questo quiz sono: Unhcr Global Trends 2020; Unhcr
Hai risposto a tutte le domande, per conoscere i risultati clicca sul pulsante "Invio" qui sotto.
Time's up
di Filippo Miraglia su Domani
La strage nel Mediterraneo continua. Le violenze e le torture in Libia si consumano davanti agli occhi di tutti. Il velo sull’orrore a pochi chilometri dalle nostre coste è stato strappato da tempo oramai, eppure Governo e Parlamento si apprestano a confermare il sostegno finanziario alle attività delle milizie che gestiscono la cosiddetta guardia costiera libica e i lager in cui vengono rinchiusi i migranti.
Nel 2020 le persone costrette ad abbandonare le proprie case per persecuzioni, guerre e violenze, in aumento secondo l’agenzia per i rifugiati dell’ONU, sono state più di 82 milioni, nonostante il covid e le limitazioni ai movimenti. Un numero che aumenta anno dopo anno, dal dopo guerra a oggi.
Le aree ricche del pianeta accolgono sempre meno rifugiati (30 per cento in meno rispetto al 2019) e così la maggior parte di loro sono costretti a cercare protezione in quelle parti del pianeta che hanno maggiori difficoltà.
L’Ue, che è tra le aree del mondo che ne accoglie di meno, non vuole più fare nemmeno quel poco che ha fatto finora, nonostante spesso le cause di guerre, persecuzioni e disastri ambientali, all’origine dell’immigrazione forzata, siano responsabilità anche sue.
Per questo i governi europei stipulano accordi in tema d’immigrazione e diritto d’asilo con il solo obiettivo di aumentare gli ostacoli che impediscono alle persone di muoversi e, soprattutto, di muoversi legalmente, rivolgendosi direttamente agli Stati col proprio passaporto.
L’unica alternativa, in molti casi per tentare di salvare la vita, è affidarsi a chi organizza, lucrandoci e ovviamente senza curarsi della sicurezza di chi si rivolge a loro, l’attraversamento illegale delle frontiere, marittime e terrestri.
In questo quadro davvero tragico, l’Italia ha fatto da apripista nella sperimentazione dell’esternalizzazione delle frontiere, anche attraverso accordi con soggetti che ricorrono senza alcuna remora alla violenza, alle torture e, come tutti hanno potuto vedere, anche a omicidi plurimi.
Le nostre motovedette, la strumentazione e le risorse fornite dall’Italia in seguito al Memoradum firmato con la Libia (2017), ad opera dell’allora titolare del Viminale Marco Minniti – che aumenteranno secondo quanto riportato nella delibera Missioni all’esame in queste ore del nostro Parlamento – hanno consentito alle milizie libiche che si spacciano per guardia costiera, di riportare nei lager più di 60 mila persone.
Esseri umani sfuggiti alle violenze che, con la nostra complicità e in contrasto con le leggi italiane e le convenzioni internazionali, sono state catturate e riportate indietro dai loro stessi aguzzini.
Il fatto che il presidente del Consiglio abbia ringraziato la Libia per aver “salvato” queste persone riconsegnandole alle violenze dei centri di detenzione, è davvero sconcertante, oltre che inaccettabile.
Per questo le associazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione, la coalizione della società civile che promuove e tutela i diritti dei migranti e dei rifugiati, hanno scritto a Draghi, chiedendogli di invertire la rotta. Gli abbiamo chiesto di revocare ogni sostegno alla cosiddetta guardia costiera, per avviare una nuova stagione dei diritti, in Italia e in Europa. Alimentare odio, paure e razzismo, oltre a consolidare la cultura delle destre xenofobe e dei sovranisti, rappresenta davvero un rischio per la tenuta dell’Ue.
Non possiamo più assistere inermi alla strage che ogni giorno si compie sotto i nostri occhi, né si può tollerare che si sostengano con risorse pubbliche gruppi che usano la violenza, fino alla strage, per arricchirsi sulla pelle di migliaia di innocenti.
Sappiamo poi, anche dalle testimonianze di esponenti della società civile libica, che il sostegno alle milizie e gli accordi sul controllo dei flussi migratori sono un fattore di destabilizzazione che impedisce il processo di pace anziché aiutarlo.
Se l’UE e il governo italiano volessero davvero sostenere il dialogo in Libia dovrebbero sottrarre, con una operazione di evacuazione delle persone detenute, la principale arma di ricatto delle milizie.
È urgente fermare la strage attraverso un programma europeo di ricerca e salvataggio, come più volte chiesto dal Commissario ONU per i rifugiati, che ha denunciato il sostegno alla “guardia costiera libica” che il governo si appresta a rinnovare, chiedendo di bloccarlo. È sul fronte del salvataggio delle vite umane che ci piacerebbe veder impegnata l’Italia, non su quello del sostegno alle bande che si contendono il controllo della Libia. Si potrebbe cominciare dal consentire alle navi delle Ong bloccate di poter tornare in mare.
Ci chiediamo, e chiediamo al governo e al Parlamento: quale Europa vogliamo costruire? Quale senso vogliamo dare ad una unione di popoli e di Stati per il nostro comune futuro? Accodarsi all’ideologia oscurantista e razzista di Orban, di Salvini e Meloni, di Le Pen, o tornare allo spirito di Ventotene, ai principi contenuti nel Trattato Europeo? La risposta a questa domanda oggi arriva anche dalle decisioni che prenderanno governo e Parlamento nelle prossime ore. Non siamo ottimisti, ma non vogliamo arrenderci.
Saremo in piazza il prossimo 14 luglio per dire che non si può far finta che le decisioni prese nei palazzi delle istituzioni non abbiano conseguenze sulla vita e sulla morte di migliaia di persone. Non ci si può comportare come se si avesse una benda che impedisce di vedere l’orrore al quale assistiamo quotidianamente. La verità, con le sue pesanti responsabilità, è oramai davanti agli occhi di tutti.
A cura di Oxfam Italia
Mentre cala in tutto il mondo il numero di contagi, in Africa dove sono immani le difficoltà di tracciamento dei nuovi casi, molti paesi stanno affrontando la terza ondata della pandemia senza essere minimamente preparati. Basti pensare che solo nell’ultima settimana al contrario del resto del mondo l’incidenza di nuovi contagi registrati è cresciuta del 33% ogni 100 mila abitanti, con un +42% di mortalità per un totale di quasi 180 mila nuove persone infette, che sono certamente sottostimate a causa delle difficoltà di tracciamento e diagnosi.
È la denuncia lanciata oggi da Oxfam e EMERGENCY, attraverso la testimonianza diretta dei propri operatori sul campo in due paesi allo stremo come Uganda e Sudan.
“Dopo la prima ondata avevamo tirato un sospiro di sollievo, ma ora sta accadendo ciò che temevamo: il Covid-19 è esploso in Africa, investendo i fragili sistemi sanitari dei Paesi dove lavoriamo. Il continente sta registrando circa un milione di nuove infezioni ogni 68 giorni. Noi che viviamo qui vediamo gli effetti dell’egoismo dei Paesi ricchi che non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per avviare una campagna vaccinale in grado di arginare realmente il virus. E ora la situazione è drammatica”. Così Giacomo Menaldo, Country director di EMERGENCY in Uganda e Costanza Barucci, coordinatrice di progetto di Oxfam Italia in Sudan, raccontano la realtà che si trovano davanti agli occhi ogni giorno.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), le varianti del Covid-19, stanno infatti “amplificando e accelerando” la nuova ondata e, senza un adeguato aumento nella fornitura di vaccini, il continente non sarà in grado di arginarne la diffusione. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha sottolineato che, senza l’aiuto internazionale, nel prossimo futuro l’Africa sub-sahariana rischia di essere piegata da continue nuove ondate di infezioni, paralizzando investimenti, produttività e crescita economica.
“In Uganda stiamo rivivendo la situazione di marzo 2020 in Europa: allora i grandi ospedali nazionali erano del tutto impreparati a una ospedalizzazione di massa; oggi in Uganda gli ospedali non hanno ossigeno sufficiente per i pazienti e hanno difficoltà a implementare norme preventive e protettive per lo staff sanitario, che purtroppo sta registrando un aumento di contagi – racconta Giacomo Menaldo, Country director di EMERGENCY in Uganda – Il tutto si cala in una infrastruttura sanitaria più debole rispetto agli standard europei. La situazione è così seria che lo scorso 18 giugno il presidente Musuveni ha deciso di emanare nuove regole per un lockdown più restrittivo, inasprendo anche le sanzioni per i trasgressori.”
EMERGENCY è testimone diretto dell’aggravarsi della situazione in Uganda, dove ad aprile ha aperto un Centro di chirurgia pediatrica sulle righe del lago Vittoria.
Con una media di 816 nuovi positivi al giorno, l’Uganda è stato per settimane il quinto Paese africano con il maggior numero di nuove infezioni quotidiane. Nel giro di un mese i nuovi contagi settimanali sono aumentati di quasi trenta volte, passando da 366 nella settimana del 10 maggio a un picco di 9926 in quella del 14 giugno. Sono stati finora riportati più di 79.977 casi totali e 1.023 morti, ma i numeri sono probabilmente sottostimati a causa della limitata capacità delle strutture sanitarie di primo livello di fare una campagna di test su larga scala.
Per cercare di mantenere la trasmissione sotto controllo, il governo ha imposto un nuovo lockdown parziale di 42 giorni in cui scuole, luoghi di preghiera e mercati rimarranno chiusi, ha vietato ogni spostamento tra distretti, effettuato sia con veicoli pubblici che privati, e ha ripristinato il coprifuoco serale a partire dalle ore 19.
“Purtroppo è già scattata anche la corsa al profitto della sanità privata, con aziende, anche straniere, che hanno trasformato interi hotel in centri Covid a cui è possibile accedere solo a seguito di lauti pagamenti: abbiamo letto anche di parcelle fino a 3.000 dollari pagate dai pazienti all’ammissione,(6)” – prosegue Menaldo.
Dall’inizio della crisi, EMERGENCY ha adottato in tutte le sue strutture sanitarie protocolli di controllo delle infezioni, che includono la formazione del personale, la compartimentazione degli spazi e la separazione dei flussi sporco-pulito per ridurre il rischio di contagio. Al momento, al Centro di chirurgia pediatrica di Entebbe lavora uno staff internazionale che ha in parte già affrontato il Covid-19 in Italia durante la prima ondata.
“Abbiamo proposto al governo di condividere l’esperienza maturata nell’anno passato nella gestione del Covid e le conoscenze del nostro staff, mettendole a disposizione delle strutture pubbliche locali – spiega Menaldo – L’Uganda è stato uno dei primi paesi africani a imporre un lockdown molto duro all’inizio della pandemia, e sembrava che fossero riusciti a tenere sotto controllo il contagio. Ma la diffusione delle varianti beta e delta nella fascia più giovane e una campagna vaccinale rallentata in termini di approvvigionamento hanno fatto precipitare la situazione.”
La situazione resta molto critica anche in Sudan, paese incluso dalle Nazioni Unite nella lista dei 46 paesi meno sviluppati al mondo, dove solo nei centri urbani è possibile accedere alle poche strutture sanitarie disponibili quando la malattia è ormai in fase avanzata. Affrontare l’emergenza, tracciando e isolando i nuovi contagi per prevenire lo scoppio di focolai e fornire cure adeguate rappresenta una sfida complessa per tutti i sistemi sanitari, in particolar modo per quelli dei paesi a basso reddito con sistemi sanitari fragili.
I dati ufficiali in Sudan registrano 36.658 casi e poco più di 2.750 decessi dall’inizio della pandemia su 43,850 milioni (8) di abitanti (secondo le stime delle Nazioni Unite). Numeri parziali che non rispecchiano affatto la reale estensione del contagio, ma sono la riprova dell’impossibilità di effettuare il tracciamento, processare tamponi, eseguire diagnosi, raccogliere e analizzare i dati.È dunque più che mai fondamentale immunizzare con il vaccino la popolazione in tempi brevi.
“In tutto il Sudan al momento ci sono solo 110 ventilatori in 18 stati e la disponibilità di ossigeno copre solo una piccola parte delle crescenti necessità. – spiega Costanza Barucci, coordinatrice di progetto di Oxfam Italia in Sudan – La maggior parte dei centri di isolamento monitorati dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) in 15 stati non dispone di sistemi igienico-sanitari adeguati. Il personale medico e sanitario specializzato è mal distribuito e concentrato solo nelle principali aree urbane del Paese. Un’emergenza che dall’inizio della pandemia Oxfam ha cercato di fronteggiare formando il personale sanitario e fornendo kit- igienici nei centri sanitari di Port Sudan, sensibilizzando la cittadinanza sulle norme per prevenire il contagio. Ora più che mai serve intensificare la risposta a livello internazionale, prima di tutto vaccinando il maggior numero di persone possibile”.
I casi di Uganda e Sudan mettono a nudo tutta la debolezza dell’iniziativa Covax promossa dall’OMS per portare i vaccini contro il Covid-19 nei paesi poveri. All’Uganda sono state infatti destinate quasi 3,2 milioni di dosi, ma fino a oggi ne ha ricevute solo poco più di un milione (9), e ne ha somministrate 937.417: considerando che per ogni persona sono necessarie due dosi, significa che finora circa solo l’1% della popolazione ugandese è stata vaccinata.
In totale il Sudan ha invece richiesto 17 milioni di dosi di vaccino, per coprire con le due dosi necessarie 8,5 milioni di persone entro fine 2021. Al 30 giugno però erano state somministrate appena 677.957 dosi.
Ciò significa che nella migliore delle ipotesi, sulla base dei pochi dati disponibili, al momento poco più dello 1,5% della popolazione sudanese ha ricevuto la prima dose di vaccino e che se tutto andasse secondo i piani di Covax, entro l’anno sarebbe immunizzato poco più del 20%. Al momento in Africa è stato vaccinata appena il 2,6% della popolazione con almeno una dose, contro il 50,4% dei cittadini dell’Unione europea.
La People’s Vaccine Alliance (PVA), una coalizione mondiale di organizzazioni e attivisti che include premi Nobel, scienziati e leader religiosi e di cui sia EMERGENCY che Oxfam fanno parte, sostiene da tempo che la condivisione dei brevetti e del know-how sia l’unica soluzione per vaccinare l’intera popolazione mondiale e bloccare le varianti.
“La sospensione della proprietà intellettuale dei brevetti detenuti dai colossi farmaceutici sui vaccini Covid e il trasferimento di know-how, per renderne possibile la produzione direttamente nei paesi in via di sviluppo, aumentando le dosi disponibili a livello globale, resta l’unica vera strada per sconfiggere la pandemia. – concludono Sara Albiani, policy advisor sulla salute globale di Oxfam Italia e Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY – Il sistema di donazioni di dosi dai paesi ricchi ai paesi poveri e l’iniziativa Covax non fermeranno la pandemia e nel frattempo moriranno ancora centinaia di migliaia di persone. Per questo rilanciamo con forza l’appello all’Italia e all’Unione Europea a prendere posizione per rendere i vaccini un bene pubblico globale seguendo l’esempio di Stati Uniti e Francia e supportando la sospensione dei brevetti richiesta in seno all’Organizzazione mondiale del commercio: se non verrà raggiunto almeno il 60% di immunizzazione a livello globale entro la fine dell’anno, le varianti del virus potrebbero prendere il sopravvento”.
Foto in copertina di Oxfam Italia
Di Giulia Belardelli su HuffPost
Aumenta la conta dei morti nel Mediterraneo centrale, ma la rotta migratoria più letale del mondo resta un deserto senza soccorsi. Le navi delle ong sono quasi tutte ferme per procedimenti amministrativi e obblighi di quarantena. L’Unione europea si guarda bene dall’impegnarsi in operazioni di pattugliamento in acque internazionali. Quasi tutto il “lavoro sporco” è demandato alla Guardia costiera libica, che però nel caso dell’ultimo naufragio c’entra poco, perché il barchino affondato a sole 5 miglia da Lampedusa era partito dalla Tunisia e non dalla Libia, da cui in migliaia cercano di fuggire per essere ricacciati indietro. Storie di abusi, privazioni, viaggi impossibili che si consumano nell’indifferenza di un’Europa più che mai smaniosa d’estate e leggerezza, da anni abituata all’idea che il Mare nostrum sia, per altri, cimitero.
A Lampedusa l’ennesima tragedia suscita la rabbia del sindaco Totò Martello. “Non si vuole prendere coscienza di quello che succede nel Mediterraneo, non vale a nulla la solidarietà che, adesso, ci arriverà. Perché la solidarietà deve essere vera e concreta”. Sul molo Favarolo sono stati portati i cadaveri di sette donne, tra cui una incinta, ma i dispersi sono almeno nove, soprattutto bambini. L’imbarcazione era partita da Sfax, in Tunisia, con a bordo una sessantina di persone; tra le nazionalità segnalate Costa d’Avorio, Burkina Faso, Guinea e altre. Le donne ivoriane che arrivano dalla Tunisia, in particolare, sono spesso vittime di tratta sia a scopo sessuale sia a scopo di sfruttamento domestico, una doppia vulnerabilità che le accomuna alle nigeriane che giungono dalla Libia.
Quello che le organizzazioni competenti lamentano da tempo è l’assenza di un sistema di soccorso in acque internazionali, che assieme alla mancanza di vie legali per entrare in Ue rende il Mediterraneo un campo aperto per i trafficanti di esseri umani.
È per sopperire a questo vuoto che sono scese in mare le navi delle ong, il cui lavoro è però continuamente bloccato da fermi amministrativi o rallentato da misure anti-Covid. La Geo Barents, la nave con cui Medici Senza Frontiere è tornata in mare a metà maggio, si trova attualmente al porto di Augusta, con l’equipaggio in quarantena dal 19 giugno; oggi dovrebbe essere l’ultimo giorno. La Sea Watch 3 è in cantiere a Burriana, in Spagna, sotto fermo amministrativo del governo italiano che ha autorizzato il viaggio di sola andata. La Open Arms, partita da Pozzallo dopo una nuova ispezione il 25 giugno, è ora diretta in Spagna per cantiere. Sea Watch è in fermo amministrativo, così come Sea Eye 4. Mediterranea è in cantiere a Chioggia, mentre l’Aita Mari ha fatto ritorno in Spagna, senza aver fatto la quarantena. La Ocean Viking è partita domenica sera dal porto di Marsiglia: “i team a bordo – fa sapere la ong – stanno attualmente svolgendo una serie di esercitazioni prima di raggiungere il Mediterraneo centrale. Una volta arrivata nella zona delle operazioni sarà – purtroppo – l’unica nave di soccorso civile presente nell’area”.
Con l’avanzare dell’estate è lecito aspettarsi un aumento delle partenze, anche se fare previsioni è impossibile. Lo spiega ad HuffPost Flavio Di Giacomo, portavoce della Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) per il Mediterraneo. “Allo stato attuale, la situazione in Libia resta altamente frammentata. Sappiamo che ci sono circa 5mila migranti chiusi nei centri di detenzione: potrebbero rimanere sigillati lì o finire nelle mani di altri trafficanti. Il dramma di queste persone è che sono usate come arma sia all’esterno sia all’interno, dalle varie milizie e forze rivali. In Libia ci sono ancora tantissimi attori in lotta tra loro, non è come la Turchia che chiude o apre i rubinetti”.
L’aspetto importante da sottolineare – che rende ancora più drammatica la rinuncia europea a salvare vite in mare – è che non siamo di fronte a un’emergenza numerica in termini di arrivi, ma a a una gigantesca emergenza umanitaria. “Con il naufragio di oggi – afferma Di Giacomo – abbiamo probabilmente superato i 700 morti nel Mediterraneo centrale dall’inizio del 2021, contro i 240 dell’anno scorso. C’è un aumento degli arrivi rispetto allo scorso anno ma quando si parla di numeri in aumento si tende a fare un’analisi superficiale e restrittiva: non dobbiamo guardare gli ultimi due anni, segnati anche dalla pandemia, ma gli anni dal 2014 al 2017, quando arrivavano 150-180mila migranti all’anno. Per fare un paragone, a giugno del 2017 erano oltre 80mila i migranti arrivati in Italia nei primi sei mesi, ora siamo a 20mila. Si tratta di un numero abbastanza residuale rispetto a ciò che abbiamo visto in passato. Siamo invece nel pieno di un’emergenza umanitaria in cui le persone muoiono in mare in assenza di un sistema di soccorso in acque internazionali”.
È un appello che chi segue questi temi lancia ogni giorno: c’è un disperato bisogno di un sistema di pattugliamento europeo in acque internazionali, o quanto meno di un maggiore sostegno – e non il contrario – al lavoro delle Ong in mare. “Queste imbarcazioni sono sempre fatiscenti, basta un’onda alta per farle andare giù, cinque minuti possono fare la differenza tra la vita e la morte”, prosegue il portavoce IOM. “Il soccorso deve essere immediato, non si può aspettare che arrivino così vicino alle coste” o lasciarli morire dopo due giorni di SOS, come è stato il caso dei 130 annegati nel Canale di Sicilia ad aprile.
Quel che è certo è che la prima metà del 2021 ha dimostrato una volta per tutte che i migranti partono lo stesso, con o senza Ong. Partono perché i fattori di spinta (push) sono più forti dei fattori di attrazione (pull): dalla Libia non si può che scappare perché resta un posto pericoloso e non sicuro per chiunque, soprattutto per i migranti. Eppure, negli ultimi mesi le autorità italiane ed europee hanno sempre più demandato le operazioni di pattugliamento e soccorso alla Guardia costiera libica, aprendo così un altro fronte di emergenza umanitaria. Secondo l’IOM, quest’anno le motovedette di Tripoli hanno riportato indietro oltre 14mila persone, uomini donne e bambini che in molti casi finiscono in quell’inferno in terra che sono i centri di detenzione libici.
Notizie drammatiche arrivano anche dalla rotta che collega l’Africa occidentale alle Isole Canarie attraverso l’Oceano Atlantico. Una bambina di 5 anni trovata su un barcone alla deriva è morta nella notte mentre veniva trasportata d’urgenza in ospedale da un elicottero dell’esercito spagnolo. Dall’inizio dell’anno in Spagna sono arrivate 6.700 persone dalla rotta atlantica e 5.200 sul territorio spagnolo. Sulla rotta atlantica, dall’inizio dell’anno, sono morte 130 persone. In generale, la rotta più pericolosa e letale del mondo resta quella del Mediterraneo centrale. Dal 2014, anno in cui l’IOM ha iniziato a contare i morti nel Mediterraneo, lungo la rotta centrale sono morte 18mila persone; in tutto il Mediterraneo siamo sulle 23.600.
Sono questi i numeri che dovrebbero smuovere l’Ue, non la paura di un’invasione che non c’è. “C’è una tendenza a creare un allarme sui numeri, ma un continente con 450 milioni di persone non può spaventarsi per 20 o 30mila persone”, osserva Di Giacomo. “In Italia parliamo dello 0,033% della popolazione, è evidente che sono numeri gestibili”. Agli occhi dell’opinione pubblica, l’emergenza umanitaria è sempre più sbiadita; i nostri sistemi anestetizzati registrano l’ennesima tragedia, per cancellarla subito dopo. “Mancano proposte e soluzioni per bloccare i trafficanti”, conclude il portavoce IOM. “Mancano canali regolari per rifugiati e migranti in cerca di lavoro; praticamente non ci sono più vie legali per entrare in Italia. Se si tolgono le vie legali, è chiaro che ad approfittarne sarà sempre la criminalità organizzata”. Come è cronaca di queste ore, ancora, nel paradiso-inferno di Lampedusa.
A cura della redazione di Carta di Roma
Nel Tg2 delle 13 di oggi, 28 giugno, il quinto titolo era dedicato ad una notizia molto allarmante giunta dalla Germania. Questo il testo del titolo letto dalla conduttrice: “Dopo il caso di venerdì a Wurzburg, su cui si indaga per odio islamista, nuovo attacco ai passanti in Germania, due persone sono state ferite, in fuga l’aggressore”.
A distanza di pochi giorni, dunque, due “attacchi” con modalità analoghe, su uno si “indaga per odio islamista”. L’ombra del terrorismo è evidente.
Il lancio da studio del studio del servizio si concentra sull’episodio del giorno e non ripropone l’accostamento con quello precedente: “In Germania questa mattina c’è stato un nuovo attacco con un coltello a Erfurt. Ferite due persone. L’aggressore è ancora in fuga”.
La cronaca del corrispondente invece è centrata sulla sovrapposizione dei due episodi. La prima metà del servizio racconta quello più recente, quello avvenuto nella mattinata: “Tutto è successo in pochi secondi. Alle sei del mattino in una zona periferica di Erfurt, capoluogo della Turingia, nell’est della Germania. Un uomo ha ferito due passanti con un coltello. Sono in ospedale ma non in pericolo di vita”. A questo punto il corrispondente traccia il profilo dell’aggressore e qui le informazioni risultano dissonanti rispetto all’enfasi del titolo: “Testimoni lo descrivono sui 30 anni, biondo, parla tedesco senza alcun accento. La polizia lo cerca invano da stamane, anche con gli elicotteri”. Quindi l’attacco è condotto presumibilmente da un tedesco, certamente da un uomo biondo che “parla tedesco senza accento”.
Cosa ha a che fare questo episodio con il paventato allarme terrorismo dell'”odio islamista” annunciato nel titolo? Sembra non c’entri un bel niente, in effetti lo ammette anche il corrispondente della Germania che prosegue il racconto della seconda metà del servizio dedicata al primo episodio di aggressione avvenuto un paio di giorni prima in un’altra parte della Germania: “Ci sono evidenti differenze, ma la strage di oggi riporta alla strage di tre giorni fa a Wurzburg nel sud della Germania”. Ci sono evidenti differenze, dunque. La prima, il corrispondente la sottolinea subito, a Wurzburg: “Un somalo 24enne con problemi psichici nel centro della città ha preso di mira diverse donne uccidendone 3, ferendone gravemente 5 e molte altre più lievemente”. Cambia l’episodio e cambia anche il linguaggio: nel primo caso l’aggressore era “un uomo”, adesso invece diventa “un somalo”. È un esempio da manuale di etnicizzazione della notizia, quella cattiva abitudine del giornalismo che trasforma nazionalità in notizia. Non è più una persona a commettere il reato ma è un somalo, per di più con problemi psichici. La nazionalità è associata all’atto commesso, come se ne fosse un sinonimo.
Ma il racconto non finisce con la negazione della dimensione umana dell’aggressore. Poco dopo succede qualcosa di ancora più sorprendente, anche l’ipotesi che il movente sia da attribuire all'”odio islamista” sembra perdere consistenza, affidata solo a degli indizi. Ci informa il servizio che: “nel rifugio per senzatetto dove l’uomo abitava ci sono indizi di propaganda d’odio islamista, ha detto il portavoce della Cancelleria Zeiberg. Ma l’aggressore ha precedenti per patologie psichiche, tutti elementi, ha concluso sui quali bisogna indagare”.
Quindi qual è davvero la storia che il servizio ci ha raccontato? Perché nel titolo si parla di un duplice attacco e ne viene suggerita la matrice dell’odio islamista? Cos’è poi l'”odio islamista”, come si configura effettivamente?
A noi sembra un modo inaccettabile di raccontare notizie, un modo centrato sull’equivoco, la supposizione, l’indizio, che fanno carta straccia della ricerca della verità sostanziale dei fatti che dovrebbe essere il primo dei principi del buon giornalismo. Non del giornalismo buono, ma del buon giornalismo (tra gli obiettivi del contratto di servizio pubblico della Rai che integra, tra le altre, la Carta di Roma) di cui oggi, nel Tg delle 13, non si è vista traccia.
Per la gran parte dei ragazzi in ogni parte del mondo diventare maggiorenni significa festa, indipendenza, cambiamento. Non è così per i minori non accompagnati arrivati in Europa per i quali il compimento del diciottesimo anno è solo fonte di ansia.
Per dirla con A., 20 anni, fuggito dall’Eritrea e oggi residente in Olanda: “Entrare nell’età adulta non è per noi una transizione ma la fine di tutto il sistema di supporto e protezione su cui possiamo fare affidamento”.
Una situazione fatta di perenne incertezza e ostacoli da affrontare, con cui, presto o tardi, devono confrontarsi migliaia di minori migranti non accompagnati arrivati in Europa. Anche se i flussi si sono ridotti negli ultimi anni, ad oggi sono 6.633 quelli accolti in Italia, e paesi come la Francia, ne contano più di 30.000. Si tratta di ragazzi che spesso hanno alle spalle esperienze terribili. Basti pensare a quanto successo negli ultimi mesi nei Balcani e al confine orientale italiano, dove molti minorenni soli sono stati respinti dalle polizie di frontiera e costretti a un viaggio a ritroso verso la Bosnia. A quanto avviene sulle isole greche, dove centinaia di minori senza famiglia sono bloccati da mesi in campi profughi senza accesso a servizi e istruzione. E non ultima, alla situazione delle nostre coste, dove, negli ultimi 5 mesi sono sbarcati oltre 2.600 ragazzi soli.
È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, Greek Council for Refugees, Dutch Council for Refugees, ACLI Francia in un nuovo rapporto, che denuncia i rischi che comporta compiere 18 anni per i minori arrivati soli in Europa, nella fase in cui dovrebbero invece progettare il loro futuro nei paesi di accoglienza.
Dal report emerge chiaramente che nessuno dei 5 paesi presi in esame – Francia, Grecia, Paesi Bassi, Irlanda e Italia – ha adottato politiche sistemiche in grado sostenere i giovani migranti nel loro percorso di integrazione.
“Uno dei capisaldi della legislazione europea è la protezione dei minori a prescindere dal loro status legale, grazie al quale si garantisce una difesa dal rischio di sfruttamento, abusi, abbandono. – ha detto Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia su migrazione e asilo – Diventare maggiorenni non vuol dire che questi rischi scompaiano dall’oggi al domani. A sparire improvvisamente è ogni forma di protezione, con ragazzi che rischiano in molti casi di ritrovarsi per strada senza nessuno a cui rivolgersi.”
La norma prevede che i minori rifugiati arrivati in Europa siano ospitati in strutture adeguate e affidati a tutori per tutte le questioni amministrative e legali. L’accesso a strutture di accoglienza per i neo-maggiorenni varia però da paese a paese: in Irlanda vengono trasferiti in alloggi per adulti caratterizzati da standard molto bassi, in Grecia possono finire in uno dei campi profughi o per strada, in Italia ci sono diverse opzioni ma anche il rischio, più che concreto, di essere messi semplicemente alla porta.
“A 18 anni non diventi improvvisamente adulto – racconta L. 25 anni – in Irlanda dove vivo, molti ragazzi a quell’età vivono ancora in famiglia.”
Altro muro da affrontare è la burocrazia labirintica in cui questi ragazzi sono costretti a muoversi. Questo sembra valere un po’ ovunque nei paesi considerati, ma è l’Italia a meritare un’analisi a sé stante, proprio a partire a dalla sfida che un diciottenne migrante deve affrontare per ottenere il permesso di soggiorno.
Una delle difficoltà più serie per i ragazzi neomaggiorenni in Italia, riguarda l’ottenimento di un permesso di soggiorno: a 18 anni il diritto di non essere espulsi decade ed è necessario ottenere un documento che garantisca il diritto a restare. Chi ha fatto richiesta di asilo e diventa maggiorenne mentre è ancora in attesa dell’esito può trovarsi in enorme difficoltà, qualora la sua domanda venga rigettata. A quel punto è infatti preclusa la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno di altro tipo, ad esempio per studio o lavoro, e il rischio di cadere nell’irregolarità è altissimo. Anche per chi ha ottenuto un permesso di soggiorno per minore età, la strada è tutt’altro che in discesa. Diventati maggiorenni, i titolari di questo permesso di soggiorno devono dimostrare il possesso di specifici requisiti per ottenerne la modifica, cioè la conversione in permesso per studio, lavoro o attesa occupazione, e poter quindi restare in Italia regolarmente.
“I ragazzi si ritrovano di fronte a procedure farraginose, che non sono in grado di affrontare da soli e che non tengono conto delle loro reali esigenze o delle effettive possibilità che i territori offrono. Esponendoli al rischio di perdere il diritto a restare regolarmente in Italia”, aggiunge Capitani.
Trovare lavoro è infatti complesso per questi giovani, che appena arrivati in Italia devono concentrarsi sull’apprendimento della lingua, e che spesso quindi ritardano l’inizio di percorsi formativi o tirocini che sono, di fatto, l’unico canale per poter essere assunti. La ricerca di una casa è un altro grande problema. Sembrano funzionare le esperienze di “semi-autonomia”, dove ragazzi neomaggiorenni vivono insieme con il sostegno di un peer educator, ma negli altri casi perdere il diritto all’accoglienza è fonte d’ansia, visto anche il carattere fortemente discriminatorio del mercato immobiliare e la necessità di pagarsi un affitto a fronte di lavori spesso saltuari.
“Al Governo italiano chiediamo di affrontare in modo più organico il passaggio dei minori non accompagnati all’età adulta, garantendo il coordinamento di tutti gli attori coinvolti. – conclude Capitani – E di promuovere in particolare il ruolo dei tutori volontari, previsto dalla Legge Zampa, e dei tutori sociali dopo il compimento della maggiore età. All’Europa, di spingere gli Stati Membri verso politiche strutturate e di mettere a disposizione più fondi per l’integrazione.”
Foto in evidenza Oxfam Italia/Alessandro Rota
Ricevi aggiornamenti iscrivendoti qui:
Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.
Controlla la tua casella di posta o la cartella spam per confermare la tua iscrizione
Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
Le migrazioni nel 2021, il nuovo fact-checking di Ispi
© 2014 Carta di Roma developed by Orange Pixel srlAutorizzazione del Tribunale di Roma n° 148/2015 del 24 luglio 2015. - Sede legale: Corso Vittorio Emanuele II 349, 00186, Roma. - Direttore responsabile: Domenica Canchano.