Martedì mattina il Consiglio dell’Unione Europea, l’organo in cui siedono i rappresentanti dei governi dei 27 paesi membri, ha approvato in via definitiva il Nuovo Patto su migrazione e asilo, un importante insieme di riforme pensate per modificare in parte il cosiddetto “regolamento di Dublino”, la principale norma europea che regola la gestione di migranti e richiedenti asilo. La riforma era stata già approvata ad aprile dal Parlamento Europeo, ma perché entrasse ufficialmente in vigore mancava ancora il voto del Consiglio.
È la più importante ed estesa riforma degli ultimi anni in materia di immigrazione nell’Unione Europea, ed è frutto di un lungo negoziato durato quattro anni, su cui lo stesso Parlamento e i governi dell’Unione avevano trovato un accordo di massimalo scorso dicembre. La riforma è stata approvata dal Consiglio con i soli voti contrari dei rappresentanti di Ungheria e Polonia. Ora i paesi membri hanno due anni di tempo per implementare le regole previste dalla riforma nel proprio ordinamento giuridico.
In sintesi, il patto prevede norme sull’accoglienza più severe soprattutto per le persone migranti che arrivano in Europa dai paesi considerati “sicuri” (“sicuri” secondo criteri piuttosto controversi, stabiliti dagli stessi paesi d’accoglienza): sono le persone che già oggi hanno meno possibilità che la loro richiesta di protezione internazionale sia approvata. Il nuovo patto prevede misure che renderanno più facile espellerle e rimandarle nei loro paesi d’origine.
Il testo introduce anche un meccanismo limitato di trasferimento dei richiedenti asilo dai paesi di arrivo (quindi principalmente i paesi dell’Europa meridionale, tra cui l’Italia) a quelli interni. La riforma prevede che quando un paese dichiarerà di essere “sotto pressione” gli altri stati membri dovranno scegliere se accettare un certo numero di migranti, pagare una quota a un fondo comune dell’Unione Europea oppure fornire supporto operativo, inviando al paese personale o fornendo attrezzature tecniche.
Cos’è il regolamento di DublinoNegli ultimi anni il regolamento di Dublino era stato al centro di numerose controversie tra paesi europei: è una norma in vigore dal 1997, secondo cui il primo paese in cui una persona migrante arriva è anche quello che si occupa di esaminare la sua richiesta di asilo e dell’accoglienza. La maggior parte dei governi concordava sulla necessità di cambiare le regole, ma per anni non erano riusciti ad accordarsi sul modo in cui farlo.
Per esempio paesi come Italia e Grecia, cioè i principali stati d’ingresso dei richiedenti asilo che arrivano in Europa via mare, chiedevano da tempo l’eliminazione della regola che li rendeva i soli responsabili della registrazione dei migranti all’arrivo, o almeno l’introduzione di meccanismi obbligatori di “redistribuzione” delle persone migranti, di modo da non doversi occupare di tutte le richieste di protezione internazionale. Altri paesi, come quelli dell’Europa orientale, molto più ostili all’immigrazione, si opponevano invece a qualsiasi meccanismo che costringesse loro ad accogliere più persone migranti.
Come cambieràIl Nuovo Patto si basa su dieci leggi, fra cui le principali sono le seguenti. Il Patto introduce una modifica piuttosto importante nei percorsi di richiesta di asilo, stabilendone due possibili e rendendo più veloce il percorso di espulsione: la procedura tradizionale, che di solito richiede diversi mesi per essere completata, o una procedura accelerata che avviene alla frontiera e che dovrebbe durare al massimo 12 settimane, durante le quali le persone migranti dovrebbero essere tenute in strutture apposite.
I richiedenti asilo non possono scegliere quale dei due percorsi seguire, ma vengono divisi in base al loro profilo, stilato attraverso un nuovo e uniforme regolamento di screening: il testo prevede che questa “procedura di frontiera” venga usata principalmente per i richiedenti asilo che per qualche motivo vengono considerati un “pericolo” per i paesi dell’Unione, per coloro che provengono dai paesi considerati “sicuri” e per chi proviene da paesi che, anche per altri motivi, hanno un tasso molto basso (sotto il 20 per cento) di domande d’asilo accolte.
Se la loro richiesta verrà rifiutata, come è molto probabile in questi casi, i migranti dovranno essere espulsi verso il loro paese d’origine o un cosiddetto “paese terzo”, fra cui ci sono anche quelli da cui spesso partono per raggiungere i paesi europei: Tunisia, Libia, Turchia.
Diverse organizzazioni non governative che si occupano di diritti delle persone migranti hanno criticato la riforma anche perché durante le 12 settimane i richiedenti asilo saranno considerati legalmente non presenti sul territorio dell’Unione, nonostante fisicamente lo siano, e questo potrebbe aumentare ulteriormente il rischio che venga loro negato l’accesso a diritti e servizi. In più, valutare una richiesta d’asilo è un procedimento difficile e complesso e che difficilmente può essere completato in maniera accurata in così poco tempo.
Come funzionerà il meccanismo di solidarietàLa seconda importante riforma contenuta nel Patto riguarda l’istituzione del meccanismo di solidarietà “obbligatoria” fra i paesi di arrivo e i paesi interni dell’Unione. In alcuni particolari casi questi ultimi dovranno infatti decidere se accettare un certo numero di persone migranti, fornire assistenza operativa al paese di arrivo che si trova in difficoltà o versare 20mila euro per ogni richiedente che si rifiutano di accogliere in un fondo comune dell’Unione Europea.
I soldi versati in questo fondo non verranno solo redistribuiti fra i paesi di frontiera, più esposti ai flussi migratori, ma potranno essere utilizzati per finanziare «azioni nei paesi terzi o in relazione ad essi che hanno un impatto diretto sui flussi migratori verso l’UE», ossia paesi, come la Libia, da cui i migranti partono per raggiungere l’Europa. Negli ultimi anni l’Unione Europea ha stretto o promosso accordi con questi paesi in modo che le autorità locali li trattengano con la forza sul proprio territorio, molto spesso in condizioni disumane.
I paesi che si rifiuteranno di accogliere richiedenti asilo o versare dei contributi potrebbero incorrere in una procedura di infrazione, uno strumento molto comune usato dalla Commissione Europea, l’organo che nell’Unione Europea detiene il potere esecutivo, per far rispettare le regole agli stati membri.
Fonte: Il Post https://www.ilpost.it/2024/05/14/nuovo-patto-migrazione-asilo-unione-europea-approvato/
La classifica annuale Reporters sans Frontières (RSF) vede peggioramenti importanti nei Balcani e in tutta l’Europa orientale, ma non solo. “Nonostante l’Unione Europea abbia adottato la sua prima legge sulla libertà dei media, l’EMFA, e il fatto che tre Paesi europei – Norvegia, Danimarca e Svezia – siano ancora in cima alla classifica, i politici [europei, nda.] cercano di ridurre lo spazio per il giornalismo indipendente”, scrive RSF.
Il riferimento è in primo luogo al primo ministro ungherese Viktor Orban e al suo omologo slovacco Robert Fico, ma non si tratta di casi isolati. All’interno dell’Ue, “la libertà di stampa è messa a dura prova dai partiti al governo in Ungheria (67a), Malta (73a) e Grecia (88a), i tre Paesi dell’UE con la peggiore classifica”, sostiene l’organizzazione internazionale basata a Parigi, che chiosa: “anche l’Italia di Giorgia Meloni (46a) è scesa di tre posizioni”.
Se la Slovenia avanza di otto posizioni ed è ora 42a, la Croazia, ultimo stato membro ad aver integrato l’Unione europea, è invece peggiorata. Il paese scende di sei posizioni ed è ora 48° nella lista. Pesano gli attacchi sempre più aperti e nervosi del Primo ministro uscente Andrej Plenković ai giornalisti e alle diverse testate, ma anche gli emendamenti al codice penale che criminalizzano la “pubblicazione non autorizzata di materiale giudiziario”.
Proprio ieri, il premier ha attaccato ancora una volta il portale Telegram, colpevole di aver rivelato l’uso indebito di fondi europei destinati alla ricostruzione dopo i terremoti del 2020 (ne abbiamo scritto in questo articolo).
Sprofonda di 17 posizioni la Bosnia Erzegovina (ora 81a), alle prese con la retorica ostile e denigratoria dei politici, dei nuovi provvedimenti legislativi restrittivi e le difficoltà esistenziali del servizio pubblico.
Peggiorano la Serbia (-7, oggi 98a) e l’Albania (-3, ora 99a), così come il Kosovo (75°) che scende di ben 19 posizioni (è il più grande arretramento nell’area).
I motivi sono al tempo stesso simili ed unici ad ogni paese.
A Tirana il Primo ministro Edi Rama si è spinto qualche settimana fa fino a dare una manata in faccia ad una giornalista durante una conferenza stampa (ne abbiamo scritto qui), l’apice di un comportamento largamente diffuso tra i politici, mentre il governo continua ad estendere il suo controllo diretto sulla stampa locale.
In Serbia quest’anno ha segnato l’assoluzione degli agenti di sicurezza accusati dell’omicidio, 25 anni fa, del giornalista serbo Slavko Ćuruvija, ma non sono mancante di recente minacce e attacchi contro i giornalisti a Novi Sad, in un contesto di insicurezza per i reporter e di impunità per chi li attacca. Qui il nostro comunicato al riguardo assieme ad i partner di Media Freedom Rapid Response (MFRR) e la rete SafeJournalists.
In Kosovo è la nuova proposta di legge sui media indipendenti a preoccupare gli osservatori internazionali. “Riteniamo che l’iniziativa legislativa dell’Ufficio del Primo ministro di controllare i media online attraverso un sistema di licenze sia l’ultimo attacco al diritto alla libertà e al pluralismo dei media in Kosovo – scrive ad esempio il Centro europeo per la libertà di stampa e dei media (ECPMF) – l’apparato statale può essere facilmente utilizzato contro qualsiasi media online sotto la minaccia di multe salate, fino a 40.000 euro, che potrebbero rappresentare una seria minaccia esistenziale per qualsiasi mezzo di comunicazione online operante in Kosovo”.
Le poche buone notizie nell’area arrivano dalla Bulgaria (+12 al 59° posto), dove il contesto politico per il giornalismo è migliorato “grazie ad un nuovo governo più attento al diritto all’informazione”, sostiene RSF. La situazione è invece rimasta tutto sommato stabile in Montenegro (40°) e in Macedonia del Nord (36a). La Turchia (158a), infine, “continua a imprigionare i giornalisti e a minare i media attraverso la censura online e il controllo del sistema giudiziario”.
La situazione è complessivamente peggiorata (anche) in Europa orientale e in Asia centrale, ci dice il rapporto di Reporters sans frontières, secondo cui i media dell’area “sono sempre più spesso utilizzati come cinghia di trasmissione per campagne di disinformazione”.
“Lo Stato russo (162°) – si legge nel rapporto – ha proseguito la sua crociata contro il giornalismo indipendente, mentre più di 1.500 giornalisti sono fuggiti all’estero dopo l’invasione dell’Ucraina”. La Russia sale di due posti nella classifica mondiale della libertà di stampa, ma questo è semplicemente “dovuto al calo di altri Paesi”. Il che la dice lunga sulla situazione globale della libertà di stampa.
A sfidare la Russia per la posizione più bassa nella classifica nella regione sono “la Bielorussia (167a), il cui governo perseguita i giornalisti con il pretesto di combattere l’“estremismo”, e il Turkmenistan (175°), il cui presidente ha poteri illimitati e proibisce qualsiasi tipo di informazione indipendente”.
Scende di ben 25 posizioni anche la Georgia (103a), dove “il partito al governo continua a polarizzare la società, coltivando un avvicinamento a Mosca e conducendo una politica sempre più ostile alla libertà di stampa” e non va meglio in Azerbaijan (164°) dove sono peggiorati “tutti gli indicatori, in particolare quello politico, dopo il giro di vite sui media prima delle elezioni presidenziali”.
Infine, il comunicato di RSF si conclude con una nota positiva, riguardante “il salto di 18 posizioni dell’Ucraina (61a), dovuto ai miglioramenti sia dell’indicatore di sicurezza – meno giornalisti uccisi – sia di quello politico”. “Sebbene lo Stato di diritto non sia stato applicato all’intero Paese dopo l’invasione russa, il che ha impedito alle autorità ucraine di garantire la libertà di stampa nei territori occupati, le interferenze politiche nell’Ucraina libera sono diminuite – scrive l’organizzazione internazionale – questo tipo di pressione è limitata dal fatto che i media la denunciano”.
Fonte: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/RSF-liberta-di-stampa-a-dura-prova-231246 di Giovanni Vale
Mentre esce il Rapporto del Centro Astalli, il mondo è attraversato da una gravissima crisi internazionale che mette in discussione la visione del futuro. Il 2023 è stato un anno caratterizzato da sfide globali senza precedenti: tensioni geopolitiche, conflitti che hanno scosso diverse regioni in tutto il mondo, mentre politiche migratorie, restrittive, di chiusura – se non addirittura discriminatorie -, acuiscono precarietà, esclusione e marginalità delle persone migranti. Alto è il prezzo che stanno pagando i rifugiati anche in Italia per la mancanza di investimenti in protezione, accoglienza e inclusione: aumento delle vulnerabilità fisiche, sanitarie e psicologiche a seguito di viaggi sempre più lunghi e difficili, in mano ai trafficanti, in assenza di vie alternative legali di ingresso; ostacoli burocratici per l’accesso alla richiesta di protezione; un ridotto numero di posti in accoglienza; tagli ai costi dei servizi di inclusione; mancanza di opportunità abitative autonome e conseguente impossibilità a immaginare un futuro; marginalizzazione: sono solo alcune delle criticità che emergono dalla lettura del Rapporto annuale 2024 del Centro Astalli.
Aumentano marginalità e disuguaglianze: la precarietà delle persone rifugiate è la vera emergenza.
In tutti i servizi del Centro Astalli si sono fatti sentire forte gli effetti dell’inflazione e delle decretazioni d’urgenza emanate dal Governo in materia di immigrazione, che hanno fatto salire esponenzialmente i numeri delle richieste di aiuto per tutto l’arco dell’anno appena trascorso.
Sono sempre di più i rifugiati e i richiedenti asilo che vivono in strada, hanno sistemazioni precarie sul territorio di Roma (e non solo) e necessitano di un accompagnamento strutturato. Numerose anche le difficoltà manifestate da singoli e nuclei monoparentali nel far fronte al rincaro delle materie prime. Azioni di contrasto a situazioni di marginalità si dimostrano particolarmente urgenti nel caso di donne sole con figli (in aumento del 40%), in cui la madre detiene in modo esclusivo le responsabilità di accudimento e mantenimento, per cui è stato necessario, presso il servizio di orientamento e accompagnamento sociale, realizzare attività specifiche tese all’attivazione della rete istituzionale di riferimento, con i servizi socio- sanitari e le istituzioni scolastiche.
Gli accessi ai servizi di prima accoglienza (mense, docce, distribuzione vestiario, ambulatori) sono alti in tutti i territori. Più di 2.600 utenti hanno usufruito della mensa di Roma che ha distribuito oltre 67mila pasti (erano stati poco più di 46mila nel 2022, con un aumento del 45%): tra loro il 28% (1 persona su 3) è richiedente asilo. È aumentata la presenza di donne migranti, incremento dovuto al gran numero di ucraine, titolari di protezione temporanea, che dall’inizio del conflitto e per molto tempo a seguire non hanno avuto la necessità di rivolgersi a servizi di bassa soglia – probabilmente grazie alla campagna mediatica a loro sostegno -, ma anche di cittadini peruviani, colombiani e venezuelani, in fuga dai loro Paesi a causa di situazioni di violenza generalizzata e di insicurezza sociale.
A Palermo i volontari riscontrano un aumento della povertà assoluta: sono infatti raddoppiati gli accessi ai servizi di prima accoglienza offerti dall’Associazione.
A Trento, è stato potenziato il servizio dei dormitori notturni dove si è riusciti a dare accoglienza a 177 richiedenti asilo senza dimora.
Aumentano marginalità, disuguaglianze ma anche le complessità delle situazioni di cui le persone migranti sono portatrici.
I processi di semplificazione in atto nel tentativo di contenere le migrazioni, non solo sono destinati a fallire nel tempo, ma rendono gli spostamenti e i viaggi dei migranti ancora più mortali e difficili.
Sono 8.541 le persone che hanno perso la vita lungo le rotte migratorie di tutto il mondo nel corso del 2023, anno in cui sono stati registrati più morti in assoluto: 3.105 le persone morte e disperse nel mar Mediterraneo, più di 29mila in totale le vittime dal 2014 (dati OIM).
Le risposte politiche a queste tragedie hanno visto l’inasprimento del contrasto all’attività delle navi umanitarie, la realizzazione di accordi economici per dissuadere gli arrivi, aumentare i rimpatri e cooperare con regimi antidemocratici; l’emanazione di regole di accesso più rigide per i richiedenti asilo in Europa, compresi i minori, mettendo una seria ipoteca sul rispetto dei diritti di persone già duramente provate da situazioni caratterizzate da persecuzioni e violenze subite nei Paesi di origine e in quelli di transito. Strategia onerosa quella dell’esternalizzazione delle frontiere, unita alla pratica dei respingimenti e delle espulsioni illegali, con metodi brutali e coercitivi lungo le rotte europee, con la conseguenza che centinaia di migliaia di persone rimangono imprigionate in terre di mezzo, e vedono aumentare il carico dei traumi a cui sono sottoposti.
Lo stato generale di fragilità trova riscontro nelle quasi 10mila visite mediche, di base e specialistiche svolte presso il SaMiFo (+15% a fronte di un’utenza aumentata solo dell’1,6%). Oltre alla vulnerabilità evidente per persone portatrici di condizioni oggettive (anziani, minori, donne in gravidanza ecc.) o di diagnosi già acclarate, esiste nel mondo dei rifugiati una vulnerabilità più nascosta, spesso legata ai traumi vissuti e non ancora elaborati che per emergere e cominciare una cura ha bisogno di tempo, attenzione e di un’accoglienza dentro luoghi idonei. Pensare di riservare un’accoglienza (sia in termini di alloggio che di documenti) ai soli soggetti vulnerabili, significa scegliere di contribuire ad accrescere il numero delle persone vulnerabili.
L’accoglienza mancata: un duro colpo ai percorsi di integrazione dei migranti forzati
Dal 2017 al 2022, parallelamente alla diminuzione del numero degli sbarchi, il sistema di accoglienza dei titolari di protezione internazionale (vedi SAI) è stato progressivamente contratto, stravolto e svilito, lasciando fuori dalla sua competenza anche i richiedenti asilo. Negli anni si è rafforzato il ruolo dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) e anche in questo caso, a livello politico, ci si è più volte espressi per un’ampia distribuzione degli ospiti in piccole strutture, per poi al contrario favorire grandi concentrazioni di persone e il taglio di molti servizi di inclusione. Tutto questo ha reso più difficoltosa l’emersione e la cura tempestiva delle vulnerabilità e, non a caso nei centri gestiti dal Centro Astalli in convenzione con il SAI, ma anche negli alloggi di semi-autonomia messi a disposizione da Congregazioni religiose, si registra un elevato numero di persone sempre più vulnerabili. Su un totale di 235 persone accolte dal Centro Astalli a Roma, 1 persona su 6 è stata vittima di tortura e violenza, e 1 persona su 5 ha una vulnerabilità sanitaria.
L’accoglienza da diritto sta diventando una concessione, e spesso intesa come luogo di confinamento più che occasione per ricominciare un’esistenza progettuale. Un sistema di accoglienza pubblico che si frammenta e rimanda le opportunità di inclusione a una “seconda fase” accessibile a pochi è lesivo di percorsi di accoglienza e integrazione. Se guardiamo al quadro d’insieme del 2023 dal globale al locale, la questione migratoria non viene certamente affrontata dal punto di vista delle persone che si mettono in viaggio.
La trasformazione del sistema di accoglienza in Italia ha inferto un duro colpo a quell’accoglienza diffusa che ha caratterizzato negli ultimi anni l’impegno di molte realtà a servizio dei migranti forzati.
Le realtà della Rete territoriale del Centro Astalli nel 2023 hanno accolto complessivamente 1.177 persone, secondo un modello di intervento che mette al centro la promozione della persona e che costruisce integrazione dal primo giorno.
Il tramonto del diritto di asilo: se la burocrazia diventa un’arma di discriminazione
Con il passare degli anni l’iter burocratico che affrontano i migranti forzati per il rilascio del permesso di soggiorno sta diventando sempre più lungo e farraginoso. Vite instabili si scontrano con i cambiamenti delle normative e delle prassi dei singoli uffici, che rendono ogni questione burocratica un potenziale labirinto senza uscita. Ad attese lunghe, anche dodici mesi per il rilascio di un documento temporaneo, idoneo ad esempio all’accesso a servizi pubblici e alla ricerca di lavoro, si sommano gli ostacoli amministrativi che ne derivano, come l’impossibilità dell’ottenimento dello SPID, dell’apertura di conti bancari, dell’attivazione di tirocini e contratti lavorativi.
Nel 2023 il Centro Astalli, grazie al sostegno dell’Elemosineria Vaticana, ha erogato contributi per il pagamento delle tasse necessarie al rilascio del permesso di soggiorno e titolo di viaggio per 463 rifugiati, perlopiù nuclei familiari originari dell’Afghanistan. Nel momento in cui le persone iniziano, con difficoltà, il loro percorso in Italia viene loro chiesto un pagamento non irrilevante.
Più soli, invisibili, marginalizzati, spaesati, numerosi sono stati i cittadini stranieri che si sono rivolti agli sportelli del servizio legale con permesso di soggiorno per Protezione speciale in scadenza.
Se pensiamo che in passato questa forma di protezione veniva concessa dalle Commissioni Territoriali allo scopo di “sanare” diversi tipi di situazioni, ci rendiamo facilmente conto delle conseguenze negative che le decisioni politiche prese avranno su molte persone.
→ Cfr. Prendersi cura (dati Accettazione, Servizio di orientamento legale), Inclusione sociale (dati Servizio di orientamento e accompagnamento sociale, Sportello di orientamento e ricerca lavoro), Progetti realizzati nel 2023
(Costruire la città futura con i rifugiati, AIDR), Rete territoriale
L’inclusione sociale dei rifugiati rappresenta un’opportunità di crescita per l’intera società
Promuovere l’integrazione dei rifugiati significa assumerne la corresponsabilità, mettendosi al fianco dei migranti, accogliendo e valorizzando le loro necessità e aspirazioni. I progetti realizzati sono stati in buona parte centrati sul potenziamento dei servizi e delle attività finalizzate a questo obiettivo. In molti casi, per rispondere a richieste di supporto di primaria importanza, quali la povertà alimentare, la sicurezza abitativa e l’accesso alle cure mediche, si è reso utile erogare contributi messi a disposizione grazie a progetti finanziati da enti pubblici e privati.
La lingua è un elemento indispensabile perché garantisce accesso all’istruzione, alla formazione professionale, al lavoro e alla socialità, essenziali nella costruzione del percorso verso l’autonomia e di una dimensione concreta di cittadinanza. In tutti i territori della Rete, è stato rafforzato il servizio della scuola di italiano, con un’attenzione particolare per i più piccoli per i quali sono stati attivati numerosi doposcuola.
Da sempre l’educazione è priorità caratterizzante l’azione dei gesuiti in favore dei rifugiati in tutto il mondo.
Garantire loro l’accesso e il diritto allo studio significa offrire un futuro diverso a molti giovani che spesso hanno conosciuto solo guerra, violenza e distruzione nella loro vita, per metterli nelle condizioni di investire con creatività sul proprio futuro.
Nel corso dell’anno il servizio di accompagnamento all’autonomia a Roma ha sostenuto 659 persone.
Diverse le possibilità di inserimento lavorativo, in particolare per i giovani tra i 18 e i 29 anni, ma spesso con contratti di breve durata, fenomeno che ha inciso negativamente sulla possibilità per i migranti di emanciparsi da una progressiva precarizzazione.
Promuovere l’autonomia delle persone rifugiate significa abbattere le barriere che si frappongono a un’integrazione piena e autonoma, per questo nel corso dell’anno sono state realizzate attività volte a favorire anche la loro inclusione finanziaria ed è proseguita l’attività di contrasto al digital divide con lo scopo di garantire l’accesso di rifugiati e richiedenti asilo ai servizi della Pubblica Amministrazione.
→ Cfr. Inclusione sociale (dati. Servizio di orientamento e accompagnamento sociale, Sportello lavoro e
accompagnamento all’autonomia), Progetti realizzati nel 2023 (Dot2Dot, Interculturazione, Stand together, Comunità
resilienti, Interconnessioni), Rete territoriale.
Oltre l’accoglienza: migranti e diritto all’abitare
Il diritto all’abitare rimane ancora per molti migranti forzati una chimera. I percorsi abitativi di chi esce dal sistema di accoglienza risultano sempre più ardui, spesso aggravati dall’assenza di reti di comunità solide sul territorio e dallo stigma criminalizzante che li accompagna nel discorso pubblico. In questo contesto, l’affitto breve a fini turistici, specialmente nelle grandi città, negli ultimi anni ha rappresentato un potenziale elemento di aggravamento del disagio abitativo delle fasce di popolazione più deboli.
Il mancato accesso al mercato della casa, insieme all’evidente insufficienza di percorsi di accompagnamento in uscita dall’accoglienza, finisce dunque per costringere le persone a situazioni di disagio abitativo estremo, quali la convivenza forzata o la vita per strada. Nel 2023, la Rete territoriale del Centro Astalli ha affrontato le sfide derivanti dall’inflazione e dalla conseguente marginalità economica e sociale che colpisce le persone richiedenti asilo e rifugiate cercando di favorire il raggiungimento di una stabilità lavorativa e abitativa e in generale degli strumenti (non solo economici) per orientarsi nel mercato della casa.
→ Cfr. Accoglienza, Inclusione sociale (dati: Servizio di orientamento e accompagnamento sociale), Progetti realizzati
nel 2023 (Home Sweet Home), Rete territoriale
Investiamo nel patrimonio sociale delle nostre comunità
La società italiana è una società multiculturale nella quale, tuttavia, oggi non assistiamo al moltiplicarsi di processi di coesione, scambio e incontro. Crediamo sia importante investire nel patrimonio sociale delle nostre comunità, valorizzando le diversità che le possono rendere più ricche e forti. In tutte le realtà della Rete territoriale del Centro Astalli si costruiscono ogni giorno spazi di cittadinanza e giustizia, cercando soluzioni che vengano incontro alle esigenze dei rifugiati e della società che li accoglie.
Nei progetti di sensibilizzazione sul diritto di asilo e sul dialogo interreligioso, realizzati in più di 200 istituti scolastici di 19 città italiane, sono stati coinvolti 31.441 studenti. Un numero che incoraggia e motiva nella costruzione di comunità in cui giovani italiani e migranti siano insieme protagonisti.
Siamo sostenuti in questo impegno dalla collaborazione convinta ed indispensabile di 737 volontari: italiani, stranieri, o seconde e terze generazioni di migranti in Italia e anche rifugiati, che desiderano impegnarsi per una società più aperta e più giusta.
→ Cfr. Attività culturali, Campagne e advocacy, Progetti realizzati nel 2023 (Nuove storia, One class, one world, Percorsi)
Progetti per le scuole, Volontariato, Rapporti con i media, Rapporti internazionali, Rete territoriale.
Il Centro Astalli in cifre
Utenti 2023: 22.000, di cui 11.000 a Roma
Volontari: 737
Enti della Rete Territoriale del Centro Astalli: 8
Pasti distribuiti presso la mensa di Via degli Astalli: 67.231
Persone ospitate in strutture d’accoglienza: 1.177
Studenti incontrati nell’ambito dei progetti Finestre e Incontri: 31.441
“Cercheremo di capire cosa può essere fatto per migliorare la qualità dell’informazione in relazione a queste tematiche.”
Paola Barretta, portavoce dell’associazione Carta di Roma, inaugura l’evento “Parole oltre il ghetto. Tra stigma e invisibilità: Rom e Sinti nel racconto mediatico” in collaborazione con Fondazione Diritti Umani, Ordine dei giornalisti e Ufficio Nazionale antidiscriminazioni Razziali.
“Se da un lato parole e linguaggio possono essere veicolo di conoscenza, perché noi dobbiamo conoscere il contributo alle nostre società che hanno dato rom e sinti, dall’altro hanno anche un effetto moltiplicatore nel consolidare stereotipi e pregiudizi.”
Agnese Canevari, Dirigente Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, racconta che secondo un’indagine il 50% delle persone percepisce le comunità rom e sinte come straniere e come un pericolo, solo il 25% conosce il termine antiziganismo. La gran parte degli intervistati ammette che c’è un grosso pregiudizio nei loro confronti. L’informazione a riguardo avviene soprattutto attraverso i media.
“L’8 aprile 1971 si tenne il primo congresso mondiale dei rom. La guerra era finita da poco, stavano ancora sterilizzando le donne rom in alcuni Paesi. E i nostri padri fondatori di una nazione che non ha confini hanno detto: ‘noi rivendichiamo il nostro diritto all’auto-rappresentazione, alla nostra rappresentazione. Pretendiamo di dire ‘noi chi siamo’. Il primo passo è la partecipazione politica, il potere di potere dire chi siamo. Si parla del diritto di un popolo transnazionale di partecipare alla vita pubblica dei luoghi in cui vive. Ma ancora questo viene impedito.”
Dijana Pavlovic, portavoce del movimento Kethane Rom e Sinti in Italia, parla dell’importanza della partecipazione di rom e sinti alla vita pubblica dei Paesi in cui abitano e del riappropriarsi della propria narrazione, della propria storia.
“Il problema è che queste rappresentazioni e manifestazioni d’odio molte persone finiscono con il negare la propria identità, condannandosi a vivere nell’invisibilità. Secondo me bisogna soffermarsi su come rom e sinti vengono rappresentati dai media, sul fatto che vengono associati solo a situazioni negative.”
Eva Rizzin, dell’Università degli studi di Firenze, Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, esperta in analisi delle discriminazioni inizia da una storia di discriminazione per parlare della rappresentazione mediatica di comunità rom e sinte, portando esempi concreti di generalizzazione e approssimazione.
“Rom e sinti emergono nella rappresentazione mediatica spesso come un problema sociale. Tutto questo avviene in un clima di totale normalità, assuefazione e indifferenza. Sono parole che non creano dolore e disagio, ma lo creano nelle persone rom e sinti. E il discorso d’odio può portare anche a episodi di violenza”.
“Le persone rom e sinti spesso scoprono la loro appartenenza in maniera negativa proprio a scuola. È successo a mio figlio nel 2020, il 27 gennaio. Io ero al Nelson Mandela forum a parlare a migliaia di studenti delle persecuzioni subite dalla mia famiglia assieme ai sopravvissuti della Shoah. Lo stesso giorno sono tornata a casa e ho scoperto che a scuola, in un esercizio fatto in classe, la maestra aveva chiesto agli studenti di scrivere la “z” di “zingaro”. Mio figlio si è opposto, ed è iniziato un dibattito in classe, lui è tornato a casa sconvolto. Il giorno dopo le maestre ci hanno chiesto scusa. Ma spesso i bambini che vivono in condizioni di emarginazione non riescono a farsi sentire.”
“L’antiziganismo ha una particolarità: è difficile da vedere, è completamente sconnesso dal percorso storico. E penso che al di là del problema del razzismo e del pregiudizio ci sia un grande problema di conoscenza, il primo strumento di decostruzione di stereotipi e pregiudizi. Di rom e sinti non si sa nulla se non una visione carica di stereotipi”.
“Quello che sappiamo con certezza è che rom e sinti in Italia sono pochi, per oltre la metà italiani, per oltre la metà minorenni, la stragrande maggioranza vive in casa, solo una minoranza vive in altre forme abitative. Ma non è questa l’immagine che spesso raccontiamo e che leggiamo”.
Stefano Pasta, giornalista e docente racconta il paradosso della visibilità e quello della devisibilità, in cui un gruppo target viene reso visibile in modo tale da essere comunque non visto per ciò che in realtà è.
“La visibilità di rom e sinti in questo sistema mediatico non permette la reciprocità e mutualità degli sguardi, non è sociale, non tiene conto dell’arricchimento dell’esperienza, non permette un processo di riconoscimento, li rende ingabbiati in una cultura pressoché immutabile. Non c’è occasione di confronto, di creazione di punti di contatto.”
Questo paradosso della devisibilità fa parte di una forma definita di “ignoranza organizzata”, che non è casuale, perché deriva da un racconto uniforme che nega il meticciato e tende a deumanizzare.
La piramide dell’odio ci dice che tutte le discriminazioni più forti, concretizzate in fatti acuti, si collocano come esito di un processo fatto di fasce di diverse intensità.
“Sinti e rom sono un pezzo della storia italiana da almeno cinque secoli. Una storia marginale perchè reclusi dentro certi spazi. Spazi che spesso si riducono a casi di cronaca nera. Io vorrei dimostrare che possiamo contrastare questa narrazione partendo da testimonianze e creatività”. Danilo De Blasio, giornalista e Direttore della Fondazione dei Diritti Umani racconta il ruolo che può avere un podcast nel cambio di narrazione facendo ascoltare una parte dell’audio documentario “Porrajamos”. “A novembre 2009 in via Rubattino a Molano hanno sgomberato un campo dove vivevano delle persone che avevano trovato uno spazio nello scheletro di una vecchia fabbrica. Quello che volevo raccontare è che c’è stata una grande reazione di solidarietà”.
Roberto Bortone, dell’Ufficio Antidiscriminazioni razziali conclude il convegno “Parole oltre il ghetto” con alcune considerazioni: “Oggi non siamo più nel periodo di propaganda attiva, ma in una fase più tranquilla in cui si parla meno di rom e sinti, ma la pre-propaganda è sempre lì, i meccanismi sono sempre in agguato. La sfida è uscire dalla nostra bolla. Ci sono delle cose che non ci vogliamo dire. Ad esempio che tutto il tema delle contro storie che avete raccontato oggi assumono tratti diversi rispetto ad anni fa. Noi abbiamo vissuto un periodo storico in cui la propaganda anti rom era fortissima e serviva a compiere degli atti, in quel caso violenti. Dopo la strategia europea sono cambiate tante cose, tra cui il discorso mediatico. Ci sono tante sfide comunicative che riguardano tutti. Dobbiamo continuare con creatività e resistenza”.
E’ stata allestita il 5 marzo la mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo”, all’Eremo di Santa Caterina del Sasso, visitabile fino a martedì 9 aprile. Era già stata esposta a Milano presso il Memoriale della Shoah dal 27 settembre al 31 ottobre 2023. Nata da un’idea di Valerio Cataldi, giornalista Rai che da anni si occupa di immigrazione, e di Giulia Tornari, Presidente di Zona. Realizzata grazie ai fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, è un progetto di Carta di Roma e Zona, curato da Paola Barretta, Imma Carpiniello, Valerio Cataldi, Adal Neguse e Giulia Tornari, con le fotografie di Karim El Maktafi.
A dieci anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, quando al largo di Lampedusa persero la vita 368 persone, donne, uomini e bambini che dall’Eritrea cercavano di raggiungere l’Europa, l’esposizione ricorda la prima grande tragedia del Mediterraneo. Per la prima volta infatti, quel giorno di inizio ottobre, i corpi dei naufraghi furono visibili al mondo intero. Un evento che cambiò la percezione dei naufragi e che scatenò una reazione emotiva a livello politico, mediatico e sociale. Da quella tragedia, dal 2014 a oggi, si contano oltre 31.000 persone morte nel Mediterraneo con la speranza di raggiungere l’Europa.
La mostra ha l’obiettivo di mantenere viva la memoria dei migranti del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 attraverso l’esposizione di oggetti appartenuti ai naufraghi e la condivisione di testimonianze dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime e dei soccorritori.
Una bussola, una macchinina rossa, una boccetta di profumo, uno specchietto, un telefono cellulare. La forza di quegli oggetti è che ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo. Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.
La memoria degli oggetti nasce proprio dalle cose appartenute alle persone migranti morte quel tragico 3 ottobre, repertati allora dalla polizia come corpi di reato, prove da portare in tribunale che hanno consentito di identificare le persone decedute anche grazie alle rilevazioni del DNA, di dare loro un nome e restituire dignità anche ai loro familiari. Una macchinetta rossa di un bimbo, un paio di occhiali da sole, una boccetta di profumo, uno specchio rotto, una bussola, un biglietto scritto a penna e ripiegato con cura nella tasca: oggetti di vita quotidiana, l’immagine più evidente di una umanità in fuga. Alcuni familiari hanno dovuto aspettare fino anche a 12 mesi per il riconoscimento dei corpi e anche per vedere tutelati i loro diritti, come banalmente avere un certificato di morte.
L’intento della mostra in occasione dell’anniversario è anche quello di sollevare questioni cruciali che vanno oltre l’individuo, che riguardano i diritti umani e il valore della vita in un mondo globalizzato e di fare un primo passo verso la costruzione di una memoria condivisa.
La mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo” è stata inaugurata all’Eremo di Santa Caterina del Sasso. Ad aprire la rassegna, che sarà poi visitabile fino a martedì 9 aprile, una visita guidata con i curatori.
La rassegna è un progetto di Carta di Roma e Zona e gode del patrocinio del Comune di Leggiuno e Musa e ha il supporto di Archeologistics, impresa sociale impegnata nella valorizzazione dei beni culturali.
La mostra raccoglie e presenta gli oggetti appartenuti alle persone migranti decedute nel naufragio.
Paola Barretta
di Alidad Shiri su l’Adige
Scrivo ancora a caldo, con le lacrime, alcune righe per descrivere il mio stato d’animo e quello degli altri familiari delle vittime del naufragio di Cutro, a 40 minuti di auto da Crotone, avvenuto proprio un anno fa con 94 persone annegate, di cui 35 bambini. Come sapete, sono parente di un giovane di 17 anni, Attiqullah, ancora disperso. È un dolore questo che ti consuma, soffri tutti i giorni, aspetti sempre la notizia dell’identificazione di un corpo su cui piangere, di una notizia certa da comunicare ai parenti che continuano a subissarmi di domande. Come me molti altri uomini e donne di ogni età sono arrivati da tante parti del mondo, per questo momento insieme di memoria, almeno quelli che avevano la fortuna di avere un passaporto internazionale, mentre altri non potevano nemmeno venire, anche se il sogno che gli rimane è quello di andare sulla tomba del proprio caro. Come quello dei genitori di Zahra, che sono bloccati in Iran e non possono nemmeno piangere, pregare sulla tomba del loro figlio di 23 anni, che è stato sepolto in Finlandia a Espo, vicino a Helsinki, dove vive la sorella Zahra insieme al marito Hassan. Come altri che sono arrivati dalla Francia, dall’Olanda, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’ Ungheria, dalla Finlandia e da altre città di Italia. Il cellulare continua a squillare, mentre siamo con Zahra, Hassan, Said, un gruppo di volontari dell’Associazione Memoria Mediterranea e alcuni cronisti al cimitero di Cutro. Stiamo ancora cercando di capire se c’è mio cugino tra i sei corpi senza nome, senza identificazione. È una mamma che ci chiama dall’Iran, anche lei vorrebbe essere in questo anniversario nei luoghi dove hanno perso la vita i suoi figli di 19 e 21 anni. Loro sono sepolti a Bologna, ma è impossibile spiegarle che è molto distante da questo luogo, che non può vedere con videochiamata la tomba. Vorrebbe parlare con i giornalisti per comunicare loro tutto il suo grande dolore, la sua impotenza nell’impossibilità di spostarsi. Ritorniamo a Crotone direttamente al Museo Pitagora. Appena scendo dalla macchina di Anna, inviata di Agorà, veniamo circondati da otto sopravvissuti giovanissimi afghani, che vengono da Amburgo. Hanno voglia di comunicare, raccontare l’inferno che hanno visto un anno fa, nel momento della strage. Uno di loro appartiene a quella famiglia di 21 persone sulla nave, di cui 16 sono morti e solo cinque sopravvissuti. Si mettono in fila per cercare di raccontare a turno quello che è successo. Inizia Mohammad, 25 anni, laureato in economia a Herat. Il padre si trova ancora in carcere, arrestato dai talebani, faceva parte dell’esercito afghano, anche il fratello. I talebani avevano dato a lui due scelte: o fare parte dell’esercito dei talebani o avrebbero arrestato anche lui. Improvvisamente di nascosto è scappato in Iran e quindi in Turchia. Anche Harun Mohammadi ha vissuto questo stesso meccanismo: anche lui non aveva finito Giurisprudenza quando sono arrivati i talebani. Il padre è scappato subito perché aveva lavorato con la NATO, lui un mese dopo con tutta la famiglia. In Iran non avevano documenti, quindi erano irregolari e dovevano sempre nascondersi. Dopo alcuni mesi, è partito anche lui per la Turchia, da dove pagando un trafficante, si arriva sulle coste dell’Italia con un barcone. Quella notte, terribile, se la ricordano bene, fino al momento della strage nella tempesta dove la memoria si offusca. Mohammad si ricorda di essere risalito a galla di avere visto i corpi dei bambini che galleggiavano ormai senza vita, sentiva le urla delle persone disperate. Insieme ad altri sei lui era riuscito ad aggrapparsi ad un’asse di legno. Ogni volta che un’onda arrivava con forza perdeva un paio di compagni, finche è rimasto da solo. Appena uscito dall’acqua,ricorda, si è buttato per terra e aveva parlato con qualcuno che poco dopo non parlava e respirava più. Un’esperienza terribile. Ora questi giovani sopravvissuti parlano della loro vita difficile in Germania. Fino a tre mesi fa le istituzioni tedesche non erano a conoscenza della loro provenienza dal naufragio di Cutro, non avevano nessuna assistenza psicologica, abitano ancora in un centro di accoglienza dove solo per avere una visita medica occorre un mese. Anche per un appuntamento con il medico di base occorrono dieci giorni. Per loro, come per altri sopravvissuti, il problema principale è il ricongiungimento famigliare, che gli era stato promesso dal governo. Con così tanto dolore, tanta rabbia dentro, per i sopravvissuti e per noi parenti delle vittime, non era certo facile tornare in quel luogo. Alcuni non ce la facevano a sopportare tutto questo, ci sono stati tanti malori. Davanti alle telecamere si cercava di trattenere il pianto, ma rientri nelle nostre stanze, il buio ci soffocava e c’erano fiumi di lacrime. Ci consolava ancora una volta l’appoggio, solidarietà, umanità della popolazione locale, dei volontari, delle associazioni che ci hanno accompagnato. Insieme a noi hanno pianto, hanno urlato, hanno camminato sotto la pioggia e ci hanno appoggiato nelle nostre forti richieste di giustizia, verità sulle responsabilità di chi non ha subito soccorso, basta morti nel mare, di organizzare canali sicuri per i ricongiungimenti famigliari, che non debba succedere mai più una simile strage.
The European Parliament today adopted with an overwhelming majority (546 in favour, 47 against, 31 abstentions) the Anti-SLAPP Directive, intended to protect journalists and media outlets from abusive litigations. The European Federation of Journalists (EFJ) joined the organisations of the Coalition Against SLAPPs in Europe (CASE) in welcoming an important step in the fight against SLAPPs, but regrets the considerable room for manoeuvre left to the Member States on several crucial points.
“Some refer to this law as Daphne’s law (Daphne Caruana Galizia) and I think it’s important to mention it, here in this room, named after Daphne. We achieved an additional layer of protection for journalists. There was no definition of SLAPPs in Europe, we now have one: this is important to help the courts better understand SLAPPs,” said the rapporteur Tiemo Wölken (S&D, Germany) during the press conference following the adoption in the plenary session of the European Parliament, on 27 February 2024.
The adopted Directive provides safeguards for journalists targeted by manifestly unfounded claims or abusive court proceedings, in civil matters, and with cross-border implications. These include an accelerated procedure to dismiss cases at the earliest stage, third-party support to targets during court proceedings, penalties for claimants and compensatory damages for victims.
This directive is only applicable to SLAPP cases (see factsheet ‘What is a SLAPP’) with a cross-border dimension, i.e. when both parties are domiciled in different Member States. However, the definition of “cross-border” was broadened during the final phases of the negotiations to also include “other elements relevant to the situation”, irrespective of the means of communication used. For example, information of public interest published in one country could be considered as a “cross-border” element in another country under this directive. It will be up to the national courts and Member States to implement this definition broadly to cases.
Such an addition, however incomplete, was a key demand of the CASE coalition which mapped SLAPP cases across Europe from 2011 until today. According to the research, only less than 10% of the cases identified and vetted are classical cross-border cases. A strict definition, whereby the directive would only apply to SLAPP targets sued in a purely domestic context, would have failed to counteract the growing problem of SLAPPs in the EU.
“The responsibility now lies with Member States to build on the foundation set by the Anti-SLAPP Directive and draft effective national legislation which includes a broad scope to cover also domestic SLAPP cases, robust guarantees in terms of the early dismissal mechanism to filter out SLAPPs, safeguards in national legislation on damage compensation, as well as a number of non-legal instruments detailed in the Commission’s Recommendations,” said CASE in a press release containing analyses of three key articles.
Lo“The Member States will have two years to comply with the directive and we hope to see anti-SLAPP legislations transposed on-time in all countries and going beyond the minimum guarantees provided by this text. The seriousness of the problem requires European governments to be more ambitious as SLAPPs mushroom across the European Union. We also expect the forthcoming Council of Europe Recommendation to provide further guidance,” said EFJ Director Renate Schroeder.
Giornata Mondiale di Preghiera e Riflessione contro la Tratta di Persone
Dal 2 all’8 febbraio una settimana di mobilitazione e preghiera. A Roma l’incontro di 50 giovani di tutti i continenti impegnati contro la tratta.
“Camminare per la Dignità. Ascoltare. Sognare. Agire”: questo il tema della decima Giornata Mondiale di Preghiera e Riflessione contro la Tratta di Persone dell’8 febbraio, giornata istituita nel 2015 per volere di Papa Francesco in occasione della festa di Santa Bakhita, la suora sudanese vittima di tratta e simbolo universale dell’impegno della Chiesa contro questo flagello.
La tratta di esseri umani è il processo attraverso il quale le persone vengono costrette o attirate da false prospettive, reclutate, trasferite e obbligate a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento o di abuso. È un fenomeno, come avvertono i recenti rapporti delle Nazioni Unite, in continua e drammatica evoluzione.
UNA SETTIMANA DI MOBILITAZIONE E PREGHIERA CON L’IMPEGNO DEI GIOVANI AL CENTRO
Migliaia di persone in tutto il mondo – in tante parrocchie, comunità, associazioni – si riuniranno per riflettere, pregare e condividere la propria esperienza di impegno contro questo fenomeno globale.
Attesi a Roma 50 giovani, tra studenti, volontari, ricercatori, creativi, comunicatori, attivisti e operatori contro la tratta, rappresentanti delle reti internazionali partner della giornata.
Le iniziative, che li vedranno coinvolti, prenderanno il via il 2 di febbraio con l’arrivo di tutti i delegati a Roma. Per il giorno successivo, 3 febbraio, sono previste attività di formazione e sensibilizzazione sul tema della tratta e la mattina di domenica 4 febbraio la partecipazione alla Preghiera dell’Angelus in Piazza San Pietro.
Martedì 6 febbraio alle ore 16.15 verrà realizzato un flash-mob contro la tratta a Piazza Santa Maria in Trastevere a Roma ed alle 17.30, nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, si terrà una Veglia Ecumenica in 5 lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e portoghese) ispirata ai 5 elementi: acqua, fuoco, aria, metallo e terra.
Mercoledì 7 febbraio il gruppo internazionale parteciperà all’Udienza con Papa Francesco nell’Aula Paolo VI in Vaticano.
IL PELLEGRINAGGIO ONLINE IN TUTTI I CONTINENTI
Giovedì 8 febbraio si terrà il pellegrinaggio online di preghiera e riflessione contro la tratta che attraversa tutti i continenti e fusi orari. Si inizierà alle 9.30 dall’Oceania, seguono l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa, l’Europa, il Sud America e, infine, si chiuderà alle 16.30 con il Nord America. Sono oltre 50 i Paesi coinvolti e il blocco centrale, per il secondo anno consecutivo, vedrà per protagonisti i giovani impegnati contro la tratta. Come accaduto negli ultimi anni, è atteso anche un messaggio di Papa Francesco.
L’evento sarà trasmesso in diretta streaming in 5 lingue (Inglese, Spagnolo, Portoghese, Francese, Italiano) su www.prayagainsttrafficking.net.
“La tratta è intorno a noi, nelle nostre città, ma è spesso invisibile ai nostri occhi. Con questa Giornata vogliamo aumentare la consapevolezza sulla tratta, riflettere sulla situazione di violenza e ingiustizia subita dalle vittime di questo fenomeno globale e indicare delle soluzioni concrete. Invitiamo quindi tutti a mettersi in attento ascolto e osservazione; a sognare insieme ai giovani un mondo migliore e ad agire perché la situazione cambi, partendo da un impegno personale, comunitario e delle istituzioni per contrastare con determinazione ed efficacia le cause della tratta e dello sfruttamento.” ha dichiarato Suor Abby Avelino, MM, coordinatrice della Giornata
LA RETE DELLA GIORNATA
L’iniziativa è coordinata da Talitha Kum, la rete internazionale anti-tratta che conta più 6000 suore, amici e partner, ed è promossa dall’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG) e dall’Unione dei Superiori Generali (USG), in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, il Dicastero della Comunicazione, Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, la Rete Mondiale di Preghiera del Papa, Caritas Internationalis, CoatNet, il Movimento dei Focolari, il Jesuit Refugee Service, l’Unione Internazionale delle Associazioni Femminili Cattoliche (WUCWO), JPIC- Anti-Trafficking Working Group (UISG/UISG), The Clever Initiative, l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, la Federazione Internazionale Azione Cattolica, l’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (Agesci), il Santa Marta Group e molte altre organizzazioni in tutto il mondo.
La Giornata è realizzata grazie al supporto del GSF – Global Solidarity Fund.
LA GIORNATA SU X (ex Twitter)
Gli organizzatori invitano a dedicare un tweet l’8 febbraio usando l’hashtag ufficiale #PrayAgainstTrafficking
Il suicidio di un ragazzo della Guinea di 22 anni, Ousmane Sylla, avvenuto oggi nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria a Roma, è l’ennesima morte causata da un sistema di detenzione illegittimo ed inumano. Un sistema che non solo priva le persone della propria libertà personale senza aver commesso alcun reato ma che consente, anche, di fare profitto sulla loro pelle”. Questo il commento della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD), che prosegue:
“I CPR sono dei buchi neri dove i diritti, anche quelli più elementari – alla salute, alla difesa legale, alla comunicazione – sono negati. Dove le persone sono detenute, per mesi, in condizioni indegne, invisibili alla società civile che per entrare in questi Centri ha bisogno di autorizzazioni specifiche di Prefetture sempre più restie a concederle. Rendendo quindi questi luoghi completamente opachi.
Di più, questi Centri sono anche affidati alla gestione di privati, che fanno profitti sulla privazione della libertà di esseri umani: a Ponte Galeria l’ente gestore è la multinazionale elvetica Ors, l’unica ad avere anche – almeno fino al giugno scorso – una società di lobbying che ne tuteli gli interessi in Parlamento.
Nonostante le denunce della società civile, le indagini della Procura che stanno riguardando il CPR di Milano, il Governo ha aumentato i tempi di permanenza fino a 18 mesi, affidato la gestione di nuovi Centri al genio militare e stretto un accordo con l’Albania per la costruzione di un CPR nel paese balcanico, ancor più lontano dagli occhi.Riteniamo, invece, che questi luoghi vadano immediatamente chiusi e pretendiamo che si faccia chiarezza sul suicidio di Ousmane Sylla. Dopo questa ennesima morte, si stanno verificando delle proteste da parte dei detenuti nel CPR di Ponte Galeria che si sommano a quelle già verificatesi in altri Centri per le condizioni di detenzione: da Trapani a Gradisca d’Isonzo. Sappiamo bene che vi è il rischio di violente repressioni di queste proteste e di repentini rimpatri dei detenuti che hanno assistito alla morte di Sylla e che ora stanno denunciando l’accaduto. Continueremo a vigilare su quanto sta accadendo nel CPR di Roma e a batterci per porre definitivamente fine a questa ignobile forma di detenzione.
Invitiamo anche il Comune di Roma a farsi carico di quanto sta accadendo nel CPR presente sul proprio territorio, richiedendone la immediata chiusura e avviando una “Commissione di indagine conoscitiva”, sul modello di quanto fatto a Bologna nel 2006. Una Commissione permanente che veda la partecipazione dei Garanti locali e delle associazioni attive sul territorio, per verificare le condizioni di detenzione nel Centro di Ponte Galeria”.
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