Di Alessandro Puglia su Vita
La criminalizzazione del soccorso in mare torna prepotentemente sulla scena dei salvataggi nel Mediterraneo centrale nel 2022. In Italia al 23 dicembre secondo i dati del Ministero dell’Interno sono stati 101.127 i migranti sbarcati, numeri superiori rispetto al 2021 quando gli arrivi in Italia erano stati 64.612, soltanto 33.863 nel 2020. Dati che vanno contestualizzati davanti al costante evolversi dello scenario migratorio e alla pandemia Covid-19 che negli anni scorsi ha rallentato il numero delle partenze.
Sono invece 1.998 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale secondo i dati del progetto Missing Migrants dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, non considerando i naufragi che non è stato possibile documentare. Ai quasi 2mila morti tra cui almeno 88 minori si aggiunge il numero delle persone che vengono intercettate dalla guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione: oltre 23 mila nel 2022.
Al numero dei morti, vicino a quello del 2021 quando erano 2.062, al numero sempre crescente delle intercettazioni da parte delle autorità libiche, bisogna affiancare la percentuale dei soccorsi da parte delle Ong: soltanto il 14% secondo l’Ispi sul totale dei migranti arrivati in Italia (pari a più di 14mila persone tratte in salvo).
Ma in Italia c’è ancora chi parla di “pull-factor” e la criminalizzazione del soccorso in mare si ripresenta. Il nuovo governo Meloni dopo aver esordito con il criterio dello “sbarco selettivo” e l’espressione infelice di “carico residuale” dirotta ora le navi della società civile nei porti del Nord Italia, come accaduto negli ultimi sbarchi di Livorno nei confronti di 108 persone soccorse dalla nave Sea-Eye4 della Ong United4Rescue e precedentemente con la nave LifeSupport di Emergency che ha portato in salvo 142 naufraghi. Nelle prossime ore poi l’Esecutivo si appresta col decreto Sicurezza ha varare la tanto annuciata stretta sulle navi umanitarie.
«Le recenti operazioni delle navi di soccorso dimostrano che l’assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. I porti sicuri devono essere assegnati subito, ma con i porti molto a nord la volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile», scrive Sea-Watch, Ong che dal 2014 ha portato in salvo oltre 35 mila persone e che oltre alle navi possiede due arei da ricognizione (Seabird 1 & 2) che permettono di monitorare le violazioni che avvengono nel MedIterraneo al pari di Pilotes Volontaires con i velivoli Colibrì.
L’impostazione del nuovo governo è ora anche quella di vietare alle navi Ong i soccorsi multipli: «Lo scopo di questi nuovi decreti è chiaro. Queste nuove regole hanno come obiettivo quello di diminuire le capacità di soccorso, mentre le persone, fuggendo, combattono per la propria vita. L’interruzione delle nostre missioni dopo ogni soccorso, anche se numericamente piccolo, e l’immediato ritorno a terra si tradurrà inevitabilmente in un aumento dei costi del carburante e in molto tempo perso», ha spiegato Hermine Poschmann di Mission Lifeline impegnata a dicembre nel Mediterraneo con la Sea Eye 4 e la Rise Above.
La flotta della società civile resiste. Nel 2022 la Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha portato a termine 14 missioni nel 2022 salvando 3.742 persone, tra cui 1071 minori, 927 non accompagnati. Ad agosto è salpata per la sua prima missione la Sos Humanity che ha portato in salvo 855 persone e ancora altre navi come l’Astral e la Open Arms della omonima Ong spagnola che nel 2022 ha concluso 97 operazioni di soccorso o la Louise Michel che ha portato a termine quattro difficili operazioni di salvataggio e tornerà insieme alle altre sulla scena dei salvataggi nel 2023.
Marittimi, medici, soccorritori, psicologi, ostetriche, mediatori culturali: equipaggi di professionisti che ogni giorno in mare cercano di salvare vite umane.
Immagine in evidenza su Vita
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Si scorgono spiragli di novità nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi della Ue. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni 70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nella Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – cittadini ammessi nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento – per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia Ue bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est europeo, a quanto pare, non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.
La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, varata nel 2022, punta ad attrarre lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco.
Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche. D’altronde la previsione governativa di ammettere 25mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania, peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese. Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione.
A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri dell’Interno e del Lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nel 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.
La Spagna conferma a sua volta una maggiore apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie. Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone inoltre di procedure piuttosto generose per regolarizzare chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati che perdono il lavoro cadano nell’irregolarità. I maggiori paesi della Ue si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro.
Il governo italiano ha annunciato di voler alzare le quote d’ingresso previste con il decreto flussi in gestazione, portandole sopra le 80mila unità. Dopo alcuni tentennamenti, sta per confermare però i vincoli che voleva introdurre: verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, e scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che non rispondono alle crescenti esigenze delle imprese, dei servizi pubblici e delle famiglie e tendono a mantenere una sorta di riserva dal sapore xenofobo. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. Una necessità destinata a farsi sempre più urgente.
Di Francesca Spinelli su Internazionale
La morte di una persona è più grave se avviene in Spagna invece che in Marocco? E se invece avviene mezzo metro prima di varcare quel confine? Sono alcune delle domande sollevate dall’inchiesta Reconstructing the Melilla massacre, coordinata dalla redazione di giornalismo investigativo Lighthouse Reports e uscita lo scorso 29 novembre.
In collaborazione con alcune testate europee e con il sito d’informazione marocchino Enass, Lighthouse Reports ha ricostruito meticolosamente i fatti accaduti il 24 giugno 2022 nell’enclave spagnola in territorio marocchino.
Quel giorno di giugno, nel tentativo di entrare a Melilla per chiedere la protezione internazionale, centinaia di persone sono rimaste intrappolate tra uno spiegamento di agenti marocchini e le recinzioni oltre le quali erano schierati gli agenti spagnoli. Sotto una pioggia di lacrimogeni, manganellate e proiettili di gomma, sono morte nella calca almeno 37 persone. Di altre settantasette non si hanno più notizie. Chi era riuscito a superare la linea del confine è stato respinto. Nessuna assistenza medica è stata fornita ai feriti, nonostante la presenza di ambulanze da entrambi i lati della frontiera.
Nella regione non era la prima volta che si verificava una simile strage (non una “tragedia”, non un “incidente”, termini prediletti dalle autorità spagnole e da gran parte dei mezzi d’informazione locali). Il 6 febbraio 2014 circa duecento persone erano partite dalla costa marocchina per cercare di raggiungere a nuoto l’altra enclave spagnola nel nord del Marocco, Ceuta. La guardia civíl aveva risposto sparando lacrimogeni e proiettili di gomma e causando la morte di almeno 14 persone. Di tredici ne conosciamo il nome (Yves, Samba, Daouda, Armand, Luc, Roger Chimie, Larios, Youssouf, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blaise), una vittima è rimasta anonima. Ma i dispersi sono molti di più. È il “masacre del Tarajal”, dal nome di una spiaggia di Ceuta, commemorato ogni anno da una marcia per la dignità.
Quel giorno del 2014 gli spagnoli hanno imparato una lezione: e così nel giugno scorso a Melilla non si sono sporcati le mani, lasciando che gli agenti marocchini entrassero in territorio spagnolo per riprendere chi era riuscito a passare il confine. “Persone raccolte e gettate via come carcasse, persone con le mani legate dietro la schiena lasciate al sole a morire per le ferite riportate”, dice Daniel Howden, fondatore di Lighthouse Reports. “I vivi e i morti accatastati gli uni sugli altri”.
Dal primo giorno il ministro dell’interno spagnolo Fernando Grande-Marlaska ha dichiarato che non c’era stato “nessun morto sul suolo spagnolo”. Mentiva, come hanno sostenuto i sopravvissuti e come hanno dimostrato inchieste e rapporti, l’ultimo dei quali pubblicato da Amnesty international il 13 dicembre. Howden definisce Reconstructing the Melilla massacre un esempio di accountability journalism: per far sì che qualcuno in Spagna debba rendere conto di quello che è successo “abbiamo cercato di tracciare una linea di demarcazione netta lungo il confine per stabilire se le persone erano state schiacciate e picchiate a morte dal lato marocchino o da quello spagnolo”.
Tra le vittime c’era Anwar, 27 anni, che aveva lasciato il Sudan nella speranza di “migliorare le condizioni di vita” della sua famiglia, come ha raccontato sua nipote ad Amnesty international, e di aiutare la madre malata. Anwar è morto in territorio spagnolo.
Ma a prescindere dall’impatto politico che questa e altre inchieste avranno in Spagna, e a prescindere anche dalle gravissime responsabilità delle forze marocchine, Howden ci tiene a sottolineare una cosa: “Anwar è morto per colpa di un sistema creato a beneficio della Spagna. Il dispiegamento e le azioni delle forze marocchine di quel giorno sono il prodotto di negoziati con le autorità spagnole. I marocchini non hanno nessun interesse a impedire ai richiedenti asilo africani di entrare a Melilla. E la Spagna riceve fondi dall’Unione europea per finanziare le sue operazioni alla frontiera. Melilla è una frontiera europea, le persone cercano una protezione nell’Ue, quindi questa è una vicenda europea, indipendentemente dal fatto che le persone siano morte o meno un metro oltre quella che di fatto è una linea arbitraria” (nonché un retaggio del passato coloniale della Spagna, che rifiuta di restituire le due enclave al Marocco).
C’è un’altra bugia di Grande-Marlaska su cui occorre soffermarsi, perché riflette uno slittamento linguistico e politico preoccupante a livello europeo. Grande-Marlaska ha dichiarato a più riprese che a Melilla la guardia civíl si è dovuta difendere da un “attacco violento”, versione smentita da un rapportopubblicato già a luglio dall’Association marocaine des droits humains. Dopo la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia nel 2021, i discorsi di governi e istituzioni europee sui migranti si sono ulteriormente induriti attraverso la scelta deliberata di presentarli come “assalitori”, manipolati o meno da stati terzi. Dopo i trafficanti e le ong, ora i governi europei includono tra i nemici da combattere anche i profughi, e non lo fanno solo a parole. Nella proposta di regolamento sulla fantomatica “strumentalizzazione della migrazione”, elaborata dopo la crisi con la Bielorussia, la migrazione è stata associata – per la prima volta in un testo legislativo – al termine “attacco”.
Se approvato, il regolamento permetterebbe di derogare al diritto d’asilo in determinate circostanze e questo, per riprendere il titolo di un comunicato firmato da oltre ottanta organizzazioni, sarebbe “il colpo di grazia per il sistema europeo comune di asilo”. L’8 dicembre i ministri dell’interno europei riuniti a Bruxelles non sono riusciti a trovare un accordo sulla proposta, che la presidenza ceca sperava di far approvare entro la fine dell’anno. In un commento, l’European council on refugees and exiles (Ecre) auspica che la proposta sia ritirata, ma dipenderà dalle priorità della Svezia, prossimo stato a esercitare la presidenza del consiglio.
Mentre “attacco” si fa strada nel lessico istituzionale, c’è una parola che non si troverà mai nei discorsi e nei testi ufficiali sulle politiche migratorie e d’asilo europee. Ma è la parola che collega l’uccisione di Anwar al regolamento sulla strumentalizzazione, le bugie di Grande-Marlaska ai centri di detenzione segreti in Bulgaria, Croazia e Ungheria al centro dell’ultima inchiesta coordinata da Lighthouse Reports (in Italia è uscita su Domani). È la parola razzismo.
Come osserva la rete Picum (Platform for cooperation on undocumented people), l’impegno espresso dall’Unione europea attraverso il suo Piano di azione contro il razzismo, lanciato nel 2020, si ferma dove cominciano le sue politiche migratorie e d’asilo. I controlli esercitati sulla circolazione delle persone, spiega il ricercatore Luke de Noronha, citato nell’analisi di Picum, infatti “producono e riconfigurano distinzioni e gerarchie razziali (anche se non formulate in termini razziali)”. In un recente commento pubblicato su OpenDemocracy, la ricercatrice Iriann Freemantle parla di “terrorismo razziale contemporaneo, volto a dissuadere i migranti non solo dal muoversi fisicamente, ma anche dal desiderare una vita migliore”.
Se le sue radici affondano nel passato coloniale europeo, il razzismo che oggi si esprime nella violenza con cui l’Ue tratta persone originarie di alcuni paesi va inquadrato nel suo contesto storico. Secondo il ricercatore Fabian Georgi, “l’attuale recrudescenza del razzismo in Europa può essere interpretata come una controreazione a una serie di sconfitte politiche” subite dalla destra conservatrice. La prima è la diversificazione delle società europee “sul piano etnico e culturale” rispetto agli anni novanta, diversificazione che è andata di pari passo con l’affermarsi delle lotte antirazziste e la messa al bando quasi unanime del razzismo “vecchio stile e diretto” degli anni ottanta. La seconda sconfitta è stata la scelta – vissuta come un tradimento dalla destra – di alcuni attori neoliberali di promuovere “una retorica nuova e meritocratica sulla diversità e il multiculturalismo, sottolineando i benefici economici e altri effetti positivi legati alla migrazione”.
La “lunga estate della migrazione”, come alcuni studiosi chiamano la “crisi dei rifugiati” del 2015, ha accelerato questa controreazione e oggi, in un contesto di crisi sociale ed economica, una parte sempre più ampia della popolazione europea si riconosce nei programmi populisti della destra e dell’estrema destra, in cui s’intersecano razzismo, autoritarismo e nazionalismo ultraconservatore.
Eppure, diversamente da quanto succede negli Stati Uniti, “in Europa parlare di razza e di uguaglianza spesso è considerato inopportuno”, osserva Howden. A molti europei non piace ammetterlo, ma se a Melilla le persone sono picchiate e uccise “e le loro storie ricevono così poca attenzione è per via della loro provenienza e del colore della loro pelle”. Se il diritto d’asilo cade a pezzi e il rispetto dei diritti fondamentali è diventato facoltativo agli occhi di gran parte dei governi europei, è perché molti di quei leader si considerano superiori ad Anwar. E ora che i profughi hanno la pelle più scura considerano superato un quadro giuridico nato per proteggere dei profughi bianchi nel secondo dopoguerra.
Il 14 dicembre, in un’intervista al settimanale belga Knack, la ministra dell’ambiente delle Fiandre, Zuhal Demir, ha messo sullo stesso piano richiedenti asilo e suini, dichiarando che nelle Fiandre non c’è posto né per i primi né per i secondi. Da mesi il suo partito, la formazione nazionalista N-Va, si contende il primo posto nei sondaggi con il partito di estrema Vlaams Belang. Insieme raccolgono quasi il 48 per cento delle preferenze nelle Fiandre.
È un esempio tra tanti dello sdoganamento di discorsi, pratiche e politiche razziste in tutta l’Unione europea. Ma i movimenti di denuncia si moltiplicano e sempre più spesso si alleano su scala transnazionale, come dimostra la campagna “Unfair. The Un refusal agency”, che il 9 e il 10 dicembre ha portato fino a Ginevra le rivendicazioni di chi è intrappolato in Libia e negli altri paesi ai quali l’Ue appalta le sue politiche di respingimento. Alle persone presenti alla conferenza stampa, David Yambio, portavoce di Refugees in Libya, si è rivolto con queste parole: “Siamo pieni di storie da raccontare, pieni di incubi da scrollare via dai nostri corpi. Ma voi, siete pronti ad accoglierli? Siete pronti a lottare per un mondo migliore?”.
Foto in evidenza Javier Bernardo, Ap/LaPresse (su Internazionale)
Di Ilvo Diamanti su la Repubblica
Per molti anni e da molti anni gli immigrati hanno costituito un riferimento del dibattito politico e mediatico. Due piani che si incrociano, inevitabilmente, perché il dibattito politico ha bisogno dei media, per orientare il “pubblico”. Cioè, gli “elettori”, che, ormai da tempo, coincidono. Largamente. Perché gli “elettori” sono il “pubblico” a cui rivolgersi per costruire il consenso. Per ottenere e aumentare l’audience. E i voti. Gli immigrati, infatti, hanno dato un volto alla nostra insicurezza e alle nostre paure. Protagonisti di uno “spettacolo permanente” che, per molto tempo, ha garantito ascolti. E consensi. Fino a ieri. Perché oggi il clima d’opinione sta cambiando, come mostrano le ricerche condotte dall’Associazione Carta di Roma, che presenterà un nuovo rapporto nei prossimi giorni.
La relazione fra insicurezza, migrazione e comunicazione ha, infatti, funzionato fino alla fine dello scorso decennio. Quando migranti e migrazioni hanno influenzato il clima politico e d’opinione. Infatti, il picco più elevato di presenza sui media e di coinvolgimento emotivo intorno all’arrivo degli immigrati, negli ultimi recenti, si osserva negli fra il 2017 e il 2018. Nella precedente stagione elettorale. Una tendenza che riemerge negli ultimi mesi. Segnati, non a caso, dal voto dello scorso 25 settembre. Ma con misure ed effetti diversi. La media giornaliera dei titoli dedicati ai migranti e alle migrazioni, infatti, si è ridotta a meno di un terzo, rispetto al 2018. E il grado di insicurezza generato da questo tema è, sua volta, sceso sensibilmente, per quanto in ripresa, rispetto agli ultimi mesi.
I temi della campagna elettorale e le ragioni del voto, in questa occasione, sono stati altri. L’affermazione di Giorgia Meloni, infatti, riflette soprattutto una domanda di cambiamento. Per “andare oltre” la stagione della responsabilità segnata dal governo guidato da Draghi. Accompagnato da un sostegno troppo ampio per riprodurre le in-soddisfazioni diffuse nella società, di fronte ai sacrifici “promessi”. Così, davanti agli altri, si è imposto l’unico partito rimasto “fuori” dalla coalizione di governo. I Fratelli d’Italia guidati da Giorgia Meloni. Sospinta non tanto da messaggi di paura, ma da immagini rassicuranti. Giorgia. “Madre, donna, cristiana”. Ha richiamato le tradizioni e le radici sociali. Mentre gli immigrati sono rimasti ai margini della “sua” e di “questa” campagna elettorale.
D’altronde, dopo molti anni di evidenza ed emergenza, sul piano mediatico e politico, ormai, gli immigrati non suscitano emozione. E neppure paura. Prevale, piuttosto, un diffuso senso di abitudine. Anche per chi li vede come “un Male”. È la “crisi dei dogmi”, come l’ha definita Luigi Manconi. Degli argomenti utilizzati per “far fronte” a un fenomeno che va “affrontato” senza ideologie. Tanto più in un Paese dove l’economia ha bisogno di manodopera, fornita, in misura crescente, dai migranti, come ha chiarito esplicitamente la Coldiretti.
In secondo luogo, gli immigrati non evocano più “l’altro che viene da lontano”. Perché i flussi più rilevanti di immigrati, nell’ultimo anno, provengono dall’Europa. Da Est. Dai Paesi coinvolti nel conflitto fra Russia e Ucraina. E, quindi, anzitutto dall’Ucraina. Verso la quale il senso di solidarietà, fra i cittadini, è molto ampio. L’immigrato, dunque, non è più “l’altro”. Con un “altro colore”. Ma (quasi) uno di noi. Costretto a emigrare per fuggire da una minaccia che anche noi sentiamo vicina. Per le conseguenze largamente evocate sul piano delle risorse “energetiche” ed “economiche”. Che condizioneranno – con effetti già evidenti – la nostra vita nei prossimi mesi.
Si intuisce, così, la ragione forse più importante della minore inquietudine provocata dagli immigrati. “L’emergere di nuove emergenze”. Di nuove paure. Anzitutto, il Covid, che dal 2020 si è insinuato e diffuso fra noi. E siamo noi stessi a diffonderlo. Il Covid è uno straniero “invisibile”, che attraversa le frontiere. Perché non ha frontiere. Inoltre, come conferma il Report curato da “Carta di Roma”, assistiamo, sui media, a una “guerra in diretta”. Che si combatte non lontano da noi e avrà conseguenze anche per noi.
Per questo, nel XIV Rapporto sulla Sicurezza (in realtà, sull’In-sicurezza), realizzato, alcuni mesi fa, in base a una ricerca condotta da Demos – Fondazione Unipolis in 5 Paesi Europei, “l’immigrazione” è indicata solo dal 7 per cento degli italiani fra le (due) emergenze prioritarie. Superata, di gran lunga, dai problemi economici, dall’inefficienza e dalla corruzione politica. Oltre che dalla pandemia.
Gli immigrati, dunque, non fanno più notizia, come un tempo. Perché giungono da Paesi relativamente vicini. In fuga da guerre che inquietano anche noi. Perché ci siamo abituati a loro. Perché siamo stati “costretti” a considerarne l’utilità. Così, chi in passato ne ha fatto una bandiera per attrarre consensi oggi deve cercare altri argomenti, se non altri nemici. Per questo, conviene considerare gli immigrati non come “altri da noi”, ma “altri fra noi”. Che dobbiamo “integrare”. Per guardare avanti. Insieme.
Di Fulvio Fulvi su Avvenire.it
«Non voglio farmi visitare da un medico negro…». Di solito, gli insulti razzisti cominciano così. E spesso degenerano in pesanti aggressioni verbali se non peggio. Come nel caso capitato il 14 novembre scorso a Enock Rodrigue Emvolo, originario del Camerun, appena nominato titolare di un ambulatorio a Fagnano Olona, nel Varesotto. Le offese dai suoi nuovi “pazienti”, il dottor Emvolo, 48 anni, laureato alla Sapienza di Roma, le ha ricevute per iscritto, e a raffica, sui social: «Torna a pascolare le pecore», è una delle più leggere. «Sono venuto qui per curare – è stata la sua risposta – ma se la situazione è così grave andrò altrove». Poi, però, a seguito dell’ondata di solidarietà che ne è seguita, ha deciso di rimanere al suo posto di medico di base. Non tutti però reagiscono alla stesso modo. E cresce il numero dei sanitari che, mortificati dalle offese subite, se ne vanno dall’Italia.
«Negli ultimi cinque anni, più di 300 professionisti della salute stranieri hanno lasciato l’Italia per colpa dei pregiudizi sul colore della pelle, l’abito e l’origine – denuncia Foad Aodi, presidente dell’Amsi (Associazione medici stranieri in Italia) – e nonostante la grave mancanza di personale sanitario esistente nel Paese». In effetti, in questo campo, le discriminazioni razziali negli ultimi tempi sembrano molto più frequenti. Ne sa qualcosa anche il dottor Andi ‘Nganso, 30 anni, originario del Camerun, due lauree, tra cui quella in medicina conseguita all’università dell’Insubria, che è stato bersaglio di improperi razzisti per due volte: nel gennaio del 2018 quando era in servizio alla Guardia medica di Cantù (Como) e una donna appena l’ha visto in camice bianco è uscita sbattendo la porta e dicendo: «Io da lei non mi faccio toccare»; e tre mesi fa nel pronto soccorso di Lignano (Udine), dove un 60enne lo ha minacciato: «Fermo, mi attacchi le malattie, preferisco due costole rotte anziché essere curato da un negro come te».E non finisce qui. Aodi riferisce di dottoresse dello Yemen e di otto ginecologhe somale che se ne sono andate a lavorare in Francia, Olanda e Belgio perché discriminate in Italia a causa del velo o della pelle scura. «Ma episodi hanno riguardato anche medici e infermieri africani, musulmani, ucraini, russi, albanesi e rumeni – aggiunge il presidente Amsi – per la lingua o la religione e ci sono state persino molestie sessuali».
«Il razzismo contro i neri in camici bianchi sta diventando preoccupante, non riguarda solo i medici e, purtroppo, è strutturale» commenta Kossi Komla-Ebri, medico e scrittore originario del Togo, esponente della letteratura migrante in lingua italiana. «Non siamo di fronte a “casi isolati di qualche stupido” – spiega – ma di fronte a un persistente problema culturale del rifiuto del diverso, che non possiamo più liquidare con semplici frasi di circostanza». Gli atti di razzismo, piccoli o eclatanti fanno parte della vita dei cittadini neri in Italia. «Noi medici neri e gli afrodiscendenti – prosegue Komla-Ebri – viviamo l’afrofobia nel quotidiano, perché il “nero” in questo nostro Paese è la personificazione del diverso, dello straniero che l’immaginario collettivo relega nel soliti ruoli di “vu cumprà”, spacciatori e criminali o poveracci alle cui cure nessuno si affiderebbe per una diffidenza sistematica che parte dallo sguardo arrivando talvolta alla sfiducia e al rifiuto». Cosa fare, allora? «Se un paziente mi rifiuta solo perché sono nero, io lo denuncio e dovremmo farlo tutti». «Ma l’Italia non è un Paese razzista – sostiene il presidente Amsi –, il razzismo semmai è figlio dell’ignoranza e delle strumentalizzazioni politiche». Aodi, che è anche membro della Commissione Salute Globale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, ha chiesto un incontro urgente con il ministro della Salute, Orazio Schillaci per valutare iniziative concrete «per garantire tutti i professionisti della sanità di origine straniera e combattere le discriminazioni». Ma anche per sollecitare provvedimenti che consentano ai medici non italiani di partecipare a concorsi pubblici.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Una lunga distesa di tetti in lamiera, casette di terra, tende sorrette da pezzi di legno, impilati uno sull’altro. Per 13 anni il campo profughi Zam Zam è stato la casa di Said*. Nato in Darfur, una delle regioni più povere del Sudan, dove gli sfollati interni sono migliaia, il ragazzo ha passato l’infanzia in questo luogo sospeso, tra precarietà e insicurezza. Gli unici momenti felici erano i giochi con gli altri bambini e i giorni in cui il vicino di tenda, un medico, lo portava con sé mostrandogli il suo lavoro. “Un giorno anch’io diventerò un dottore” pensava, ma la sua istruzione è sempre stata irregolare. Ma a cambiargli la vita da un giorno all’altro è stata la violenza: poco più che bambino ha dovuto assistere alla ferocia brutale delle milizie janjaweed, che una volta entrate nel campo hanno ucciso e torturato alcuni membri della sua famiglia. Said è riuscito a nascondersi e, messosi miracolosamente in salvo, ha capito che l’unica speranza erala fuga: a fatica è riuscito ad arrivare in Libia dove è stato portato subito in un centro di detenzione per migranti. Qui è stato trattenuto per 5 mesi, tra gli abusi e le vessazioni degli aguzzini che volevano far pagare un riscatto ai suoi familiari. Così, per la seconda volta, Said si è dato alla fuga: nel 2020, è fuggito in Niger e lì ha chiesto asilo. Per due anni la sua casa è stata di nuovo un campo per rifugiati, stavolta ad Agadez. Qui ha incontrato Abdoul* anche lui diciassettenne, nato in Darfur e scappato dai janjaweed. Insieme hanno iniziato a immaginare una nuova vita lontano, dove poter ricominciare a vivere come gli altri ragazzi della loro età.
Nel 2021 sono arrivati in Italia con il programma “Pagella in tasca”, realizzato da Intersos insieme a Unhcr. Il nome è un omaggio alla storia di un bambino maliano di soli 14 anni, morto nel Mediterraneo centrale, che viaggiava con un unico documento addosso: una pagella scolastica, arrotolata nella tasca del giubbotto, con voti altissimi. Nella pratica, si tratta di uno speciale corridoio umanitario riservato ai minori non accompagnati. Un progetto unico a livello mondiale che l’Italia per prima sta sperimentando proprio a partire dal campo di Agadez.
Il Niger è uno snodo cruciale dei flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo Centrale soprattutto a partire dal 2015, quando le politiche di esternalizzazione dell’Unione europea finalizzate a bloccare i flussi migratori hanno determinato la sostanziale chiusura delle frontiere verso Nord. Questo ha aumentato fortemente i rischi per chi tenta di attraversare il deserto e raggiungere la Libia. Contestualmente negli ultimi anni proprio dal Niger sono stati attivati programmi di resettlement e complementary pathways per realizzare l’arrivo sicuro di un piccolo numero di rifugiati dai campi di Agadez verso l’Europa, gli Stati Uniti e il Canada.
Paradossalmente, tuttavia, i minori non accompagnati (cioè che viaggiano da soli) sono esclusi dalla maggior parte di questi programmi. Non possono, infatti, essere inseriti nei corridoi umanitari verso l’Italia. E non si tratta di una specificità italiana: a livello internazionale, non risulta che minori non accompagnati siano mai stati inseriti nell’ambito di complementary pathways, neanche verso Paesi con una consolidata esperienza in questo ambito come il Canada o la Gran Bretagna. Molti Stati, infine, non accettano questi minori nei propri programmi di resettlement.
I più vulnerabili tra i rifugiati sono dunque esclusi a priori dalle vie legali più sicure. “Uno dei problemi è costituito dalla complessità delle procedure per il trasferimento e l’accoglienza dei minori non accompagnati – spiega Elena Rozzi, responsabile del programma “Pagella in tasca” per Intersos -: Gli adulti possono decidere autonomamente, per i minorenni invece serve qualcuno che possa valutare se il trasferimento in un altro Paese risponda o meno al ‘superiore interesse del minore’. Può sembrare scontato che per un ragazzo non accompagnato rifugiato sia meglio andare in Italia anziché restare in un campo profughi, ma serve comunque una procedura formale per stabilirlo”.
Per trasferire un minore da un paese all’altro è necessario, poi, il consenso dei genitori che vanno rintracciati nel Paese d’origine o in un Paese terzo. “Se ciò non è possibile bisogna almeno dimostrare di avere svolto tutti gli sforzi possibili per trovare i familiari- aggiunge Rozzi -. L’altra questione riguarda poi l’accoglienza perché un minore non accompagnato può essere accolto solo in un centro autorizzato o accreditato come struttura idonea ai sensi della legge, oppure si può ricorrere all’affidamento familiare. E non è facile trovare posti disponibili nelle strutture per minori così come famiglie disponibili e valutate idonee”.
Infine ci sono gli ostacoli legati alla gestione delle procedure amministrative: ogni minore non accompagnato deve essere segnalato al Tribunale per i minorenni, che deve nominare un tutore. Ma la nomina spesso arriva dopo mesi. E fino a quel momento chi gestisce l’accoglienza del minore spesso incontra problemi per iscriverlo a scuola o al Servizio Sanitario Nazionale o ad avviare la procedura per la domanda d’asilo. “Tutti questi elementi rendono il trasferimento e l’accoglienza in Italia dei minori non accompagnati particolarmente complessi. Si spiega perché sia così difficile inserirli in programmi di resettlement e, soprattutto, nei complementary pathways – spiega ancora la responsabile di Intersos -. Questo paradosso lo vediamo bene nei due campi in Niger, ad Hamdallaye e Agadez. In questi campi, infatti, sono accolte alcune centinaia di minori non accompagnati, prevalentemente originari del Darfur, nati durante la guerra che ha insanguinato la loro terra d’origine provocando centinaia di migliaia di morti. Molti di questi ragazzi sono fuggiti da soli dal Sudan in Libia, dove hanno subito maltrattamenti, sfruttamento e torture, e spesso sono stati detenuti in centri di detenzione. Ma una volta accolti in Niger hanno poche possibilità soprattutto dal punto di vista educativo e formativo”.
Così la maggior parte degli adulti e dei nuclei familiari accolti nel centro Etm (Emergency Transit Mechanism) sono inseriti in programmi di resettlement e in complementary pathways come i corridoi umanitari verso l’Italia. I minori non accompagnati no. Alcuni in questi anni, colti dalla disperazione, sono nuovamente partiti per la Libia. Il progetto “Pagella in tasca” è nato proprio per provare a superare questo paradosso.
L’organizzazione umanitaria Intersos, che lavora dal 2018 in Niger, ha avviato nel 2020 il progetto pilota per la sperimentazione a livello internazionale di un complementary pathway per minori non accompagnati. Prevede l’ingresso in Italia di 35 minori rifugiati in Niger, con un visto per studio e la loro accoglienza in affidamento familiare. Il progetto è innovativo anche perché finalizzato alla promozione del diritto allo studio ed è fondato sul rilascio di un visto d’ingresso per studio non universitario, previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione per minorenni tra i 15 e i 17 anni, ma ad oggi mai utilizzato per promuovere l’ingresso di minori rifugiati: a differenza dei corridoi umanitari, dunque, questo canale di ingresso si fonda non su una “concessione” da parte dello Stato relativa a una specifica quota di ingressi, ma su una norma ordinaria che prevede il rilascio del visto per studio a fronte di determinati requisiti oggettivi e senza quote. Inoltre “Pagella in tasca” è basato sulla community sponsorship con il supporto delle famiglie affidatarie, dei tutori volontari e delle organizzazioni del privato sociale, e sul ruolo centrale dei Comuni e delle scuole. Il progetto è realizzato in partenariato con UNHCR, il Comune di Torino, l’Ufficio Pastorale Migranti della Diocesi di Torino, la Rete CPIA Piemonte, la cooperativa Terremondo, le associazioni ASAI, Mosaico – Azioni per i rifugiati e Frantz Fanon, e con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana, della Fondazione Migrantes, di Acri e della Fondazione Compagnia di San Paolo.
Ad agosto 2021, dopo quasi un anno di negoziazione, è stato firmato un Protocollo d’intesa nazionale che vede tra i firmatari, oltre ai partner del progetto, anche il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Ministero dell’Interno, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e la Fondazione Migrantes. “Il primo gruppo di 5 minori è entrato in Italia a ottobre 2021, mentre il secondo gruppo è arrivato a ottobre 2022. Per poter far arrivare in Italia attraverso questo canale altri minori non accompagnati rifugiati, stiamo cercando nuove famiglie affidatarie disponibili ad accoglierli e altri Comuni interessati a partecipare al progetto – aggiunge Rozzi -. Naturalmente, “Pagella in tasca” è solo una goccia nel mare: si tratta di 35 minori che entreranno in Italia con un canale regolare e sicuro, a fronte di più di 10.000 persone morte o disperse nel Mediterraneo negli ultimi 5 anni e oltre 85.000 persone intercettate e riportate forzatamente in Libia mentre cercavano di fuggire dalla guerra, dalle violenze e dalle torture, con il supporto delle autorità italiane e dell’Unione Europea – conclude Rozzi -. Ma bisogna ricordare che i complementary pathways non devono essere usati mai per legittimare le politiche di esternalizzazione e di chiusura delle frontiere”.
Anche secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) il progetto “Pagella in Tasca” è innovativo sotto vari punti di vista. “In primo luogo, ha come focus specifico la tutela dei minori. In secondo luogo, si basa sull’idea di garantire l’accesso al diritto fondamentale allo studio dei minori rifugiati, un diritto negato nella stragrande maggioranza dei casi. Infatti, i minori vengono selezionati per il progetto tenendo in considerazione non solo le loro necessità ma anche la loro propensione a proseguire il percorso di studio – spiega la rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, Chiara Cardoletti -. In terzo luogo, il progetto prevede, attraverso la sinergia tra il terzo settore, enti locali e comunità di accoglienza, la possibilità che i ragazzi inclusi nel progetto, una volta giunti in Italia, vengano accolti presso famiglie affidatarie e non in centri per minori”.
* I cognomi dei soggetti coinvolti, minori non accompagnati, non vengono indicati per tutelarne l’identità. UNA VIA SICURA è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Foto in evidenza di Redattore Sociale
Su CHAMPS. Get Under My Skin! Uniti contro l’afrofobia
Il primo incontro di WE ARE: ACT – REBUILD – EVOLVE coordinato da Amref Health Africa Onlus Italia alla Fabbrica del Vapore Milano si è articolato sul tema dell’Afrofobia e del ruolo dei giovani e delle donne quali protagonisti del cambiamento verso una società più equa, inclusiva e non razzista.
GET UNDER MY SKIN! – Storie di attivismo e alleanze contro l’afrofobia: un pomeriggio intenso di voci ed esperienze introdotte da Danielle Madam, campionessa di lancio del peso e ambassador Amref, che attraverso la sua storia ha aperto il dialogo sul tema della consapevolezza verso il razzismo, il silenzio, la discriminazione che avvolgono la nostra società.
Numeri impressionanti emergono infatti dal rapporto “Being black in the EU” (FRA/EU, 2018), secondo il quale il 39% delle persone di origine africana si è sentito discriminato e ha sperimentato tra i più alti livelli di esclusione socio-economica, stereotipi negativi e atti di violenza e incitamento all’odio (PAD Week – maggio 2018). Sempre secondo il rapporto, la discriminazione è particolarmente evidente in Italia, dove si segnalano rappresentazioni spesso negative degli afrodiscendenti nei media, nei curricula scolastici e nei materiali didattici.
Il Progetto CHAMPS, finanziato dall’Unione Europea, ha lo scopo di diffondere informazioni corrette sul razzismo in Italia al fine di emarginare le forme di afrofobia e razzismo anti nero.
Nel corso dell’incontro, moderato dalla giornalista Sabika Shah Povia e da Charaf El Bouhali, si sono alternati momenti di convisione di storie, divulgazione di dati e di approfondimento su attività attuate a livello nazionale pensando per il beneficio collettivo futuro: maggiori momenti di condivisione, normalizzazione della figura degli afrodiscendenti, un modo nuovo e positivo di raccontare l’Africa.
Tra gli strumenti chiave ideati, sono stati presentati da Giulia Frova (Razzismo Brutta Storia) e da Ronke Oluwadare i Toolkit, strumenti online pensati per condividere spunti teorici e proposte pratiche per arginare il fenomeno del razzismo negli ambiti della scuola, della sanità, dei media, negli ambiti legali e artistici.
Valeria Bochi (CSVNet) ha raccontato come il volontariato possa essere un fattore di supporto per l’informazione, presentado un percorso di formazione a distanza per gli adulti, grazie ad una piattaforma formativa articolata in moduli teorici che affrontano diversi ambiti settoriali. Oggigiorno il 9% della popolazione italiana adulta sceglie di impiegare il tempo libero a favore di opere di volontariato all’interno della propria comunità.
Attualmente il progetto di autoformazione conta 187 iscritti volontari, aderendi a 52 associazioni italiane.
L’iniziativa ha lo scopo di giungere anche ad un’azione concreta e tangibile, tramite un modulo finale operativo con lo scopo di realizzare azioni di ricaduta immediata sui territorii.
L’afrofobia si affronta unendo le energie e le risorse, il tema del partenariato – raccontato da Mehret Tewolde Weldemicael (Le Réseau) – mette in risalto come le alleanze siano importanti e strategiche per amplificare la risonanza, introducendo così il gruppo degli AFAR (Afrodescendants Fighting Against Racism), che tramite video, podcast e blog raccontano in chiave digitale una visione complessa perché composta da un coro di voci polifoniche che descrivono un unico concetto, la lotta contro il razzismo, come hanno raccontato con straordinaria energia anche Murphy Tomadin e Denise Kongo (AFAR) .
Il progetto si fa portavoce degli afrodiscendenti e chiede al ricevente la “dote dell’ascolto attivo” superando gli stereotipi e riconoscendo il gruppo degli AFAR come professionisti.
Per analizzare nel suo complesso la piaga del razzismo in Italia, Paola Barretta (Osservatorio di Pavia) ha presentato il dossier “Lo sguardo tagliente” nel quale attravereso lo studio di sei focus group si è potuto analizzare il fenomeno del razzismo sistemico. IL DOSSIER • Stop afrofobia! (stop-afrofobia.org)
Ha concluso la prima parte Renata Torrente (Amref Health Africa Onlus) ricordando che Amref è un’organizzazione impegnata nel costruire una comunità dove le persone sono al centro e dove è fondamentale fare “rete” per cambiare ed essere più coscienti.
Cortometraggio “Il Moro” di Daphne Di Cinto e con Alberto Boubakar Malanchino
Il cortometraggio è una lettera d’amore della regista verso la comunità nera italiana e quella afro europea e racconta la storia Alessandro de’ Medici, figlio illegittimo di Lorenzo de’ Medici e nome poco noto nella cultura storica e artistica italiana.
Nella seconda parte del pomeriggio, l’attenzione si è spostata sulle persone, dedicando monologhi liberi che avevano come un unico comune denominatore quello di scegliere una parola che rappresenti il tema di “ripartenza” del linguaggio attorno ai fenomeni dell’afrofobia e del razzismo.
A turno si sono alternate sul palco diverse voci femminili che si sono aperte al pubblico raccontando esperienze e ideali partendo da concetti chiave come: privilegio, decolonnizzazione, attivismo giovanile, autodeterminazione femminile e fra-intendimento.
L’incontro si è concluso con lo spettacolo teatrale “Ho sognato il mare”, prodotto da Festival DiverCity / Emmanuel Edson. La rappresentazione artistica, introdotta da Andi Nganso, parla tramite la musica e le voci di fragilizzazione dei corpi neri.
Coltivare alleanze consapevoli per contrastare il razzismo anti-nero e contribuire a decostruire gli atteggiamenti e i linguaggi discriminatori nei confronti delle persone di provenienza africana grazie al ruolo attivo delle associazioni di afrodiscendenti. È stato questo l’obiettivo dell’evento pubblico “Get Under My Skin! Per un’alleanza contro l’afrofobia”, organizzato da CHAMPS, dal partenariato che vede capofila Amref Health Africa Onlus Italia con CSVnet, Divercity APS, Le Réseau, Osservatorio di Pavia, Razzismo brutta Storia in collaborazione con Arising Africans, CSV Marche e Carta di Roma.
L’incontro si è aperto con i saluti istituzionali di Michaela Moua, Coordinatrice della Commissione Europea per la lotta al razzismo: “Nel 2020, dopo l’episodio dell’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti, abbiamo capito che la legislazione europea doveva necessariamente essere rivista. Nel nostro Piano d’azione contro il razzismo è contenuto il termine afrofobia; un termine che non ha un consenso generale circa la sua esatta definizione, ma che può essere definito come qualsiasi atto di violenza, odio e abuso storico che porta alla de-umanizzazione delle persone afrodiscendenti. Il razzismo strutturale può essere visibile e riconoscibile condividendo e diffondendo i pattern discriminatori nei vari Paesi, ma questo non basta. è necessaria l’applicazione di sanzioni che puniscano questi atti discriminatori per proteggere i gruppi vulnerabili, ma ancor prima è importante che vengano capiti quali diritti vengono violati e perché”. – afferma Michaela Moua.
Il primo panel della mattinata si è aperto con le parole di Mehret Tewolde Weldemicael, dell’Associazione Le Réseau, che ha introdotto il primo dibattito “Narrazioni su Africa e afrofobia: quali interconnessioni” chiedendo di avere “consapevolezza delle proprie azioni e di quelle degli altri, intervenendo senza compassione o pietismo, ma agendo con consapevolezza e presa di coscienza davanti a episodi di odio razziale”. “Il razzismo c’è, esiste” – continua Mehret Tewolde Weldemicael “ma non ammettendolo, come possiamo andare oltre?”
La prima voce del dibattito è stata quella di Ada Ugo Abara, Presidente Arising Africans e Founder&CEO D-Tech 4 Good, che ha posto il focus sull’importanza di conoscere la propria storia e le proprie radici per difendere i propri diritti: “Quando parliamo di alleanze, non basta essere neri per poter parlare dell’Africa, come non basta essere di sinistra per essere definiti anti-razzisti. Come noi che viviamo il fenomeno sulla nostra pelle, allo stesso modo una persona che vuole definirsi nostra alleata in questa battaglia deve impegnarsi nello stesso percorso di studio e lottare contro narrazioni marginalizzanti. Questo percorso ha tre pilastri: lo studio, l’intenzionalità e la capacità di mettersi in dubbio”.
E di narrazioni marginalizzati ne ha parlato anche Elizabeth Ntonjira, Direttrice della Comunicazione di Amref, con una riflessione sul ruolo imprescindibile della comunicazione per la rappresentanza di storie di innovazione e di empowerment di cui l’Africa è ricca, ma che purtroppo non vengono mai raccontate.
Una narrazione errata che prosegue da centinaia di anni, come spiega il giornalista e scrittore Filomeno Lopes: “Il continente africano è entrato nei libri di storia con il colonialismo. Ciò che non è diventato storia, invece, è il popolo africano. Per arrivare alla vera indipendenza e dare voce al popolo, è necessario che l’Unione Africana arrivi a difendere la sua gente fuori dai confini, altrimenti nessun nero sarà protetto”.
“La narrazione che viene proposta mostra l’Africa come un continente senza storia” – conclude Sara Kamsu, giornalista e ideatrice di @weafricansunited “Nella nostra piattaforma raccontiamo la parte di storia in cui gli africani sono stati attivi, nonostante schiavitù e colonizzazione. Il nostro motto è “Scriviamo la storia, facciamo la storia” perché è importante conoscere il proprio passato ma non significa rimanervi ancorati, anzi, vuol dire ritrovare e riconoscere la grandezza dei nostri antenati per costruire un mondo migliore per noi”.
A seguire, lo speech di Marie Paule Essonmala N’Guessan, Project Manager nel Terzo Settore e Coordinatrice ECCAR, AFAR, ha sottolineato l’importanza della rappresentanza delle persone nere nei vari contesti di vita, come in quello lavorativo, proprio per dare – specialmente ai più piccoli – un chiaro segnale della possibilità di qualsiasi comunità di poter ricoprire qualsiasi ruolo nella società.
In occasione dell’evento, sono stati presentati i risultati della prima indagine in Italia dedicata alla percezione dell’afrofobia dal titolo “Sguardo Tagliente – Conoscenza, consapevolezza e percezione dell’afrofobia e del razzismo sistemico nei settori di sanità, istruzione e comunicazione“ e curata da Paola Barretta e Giuseppe Milazzo, ricercatori dell’Osservatorio di Pavia.
L’indagine – condotta attraverso 6 distinti focus group formati da 60 persone tra soggetti bianchi, africani e afrodiscendenti appartenenti ai settori della sanità, dell’istruzione e della comunicazione – ha messo in luce come le persone Nere siano più inclini a percepire il razzismo come sistemico rispetto a una dimensione individuale. “Accettare che il razzismo è un sistema di potere, significa riconoscere innanzitutto che esso esiste non come fantasia nella mente deviata del razzista, ma come elemento che struttura la nostra società” – si legge nella ricerca. In altre parole, il razzismo si configura come una norma silenziosa, e naturalizzata all’interno delle relazioni sociali.
Attraverso l’indagine è stato possibile analizzare le caratteristiche del linguaggio adoperato dai partecipanti ai focus group. Per l’80% degli intervistati il termine afrofobia sia fuorviante e limitante. Dal punto di vista terminologico il termine più adoperato da africani e afrodiscendenti per riferirsi all’afrofobia è razzismo, termine che ricorre con una frequenza doppia rispetto ai focus con i bianchi che preferiscono usare termini meno stigmatizzanti e forse autoassolventi come stereotipo, pregiudizio, diffidenza. Considerando invece il colore della pelle, i bianchi hanno nominato 88 volte in meno dei neri lemmi come colore, pelle, bianco e nero.
Per cercare di sradicare i fenomeni afrofobici tutti i partecipanti al focus pensano sia necessario rafforzare la conoscenza su questi temi e proporre percorsi di formazione interculturale e sul razzismo all’interno dei diversi settori lavorativi ed educativi.
I dati del dossier sono stati il punto di partenza della riflessione degli ospiti dell’evento e del gruppo AFAR – Afro descendant Fighting Against Racism che hanno proposto con uno sguardo intergenerazionale e intercontinentale il loro punto di vista alternativo per contrastare il razzismo.
“È ora di cacciare il razzismo dalla nostra società denunciare le aggressioni sia fisiche che verbali e, nello stesso tempo, attivarsi per ricucire gli strappi che genera l’odio.” afferma Paola Crestani, Presidente di Amref Health Africa– Italia. “Abbiamo bisogno di piazze – grandi e piccole – che si uniscano e si riempiano di sentinelle e non solo di sentinelle afrodiscenti, ma di tutti coloro che reclamano quella normalità, contro il razzismo. Abbiamo di organi d’informazione che non rafforzino stereotipi, forieri solo di paure. Abbiamo bisogno di tutti, per portare la nostra società fuori dalla barbarie dell’odio anti-nero di ogni forma d’odio inoltre è fondamentale ribadire ai decisori politici l’urgenza di una legge sul diritto di cittadinanza”
Durante il panel, è intervenuta anche Cinzia Adanna Ebonine, educatrice, formatrice, psicologa in formazione e parte del gruppo AFAR, parlando del razzismo insito nelle scuole italiane e del ruolo fondamentale del docente quale change maker. È proprio la scuola, infatti, il primo luogo sociale in cui si deve fare il possibile affinché il cambiamento avvenga. “Non ricordo mai di aver studiato la storia del mio continente in un contesto di non subalternità. Solo quando laureata mi sono chiesta se questa fosse la mia vera identità- afferma Cinzia Adanna Ebonine. “Mi piacerebbe che gli insegnanti un giorno possano insegnare la storia delle origini di tutti gli studenti”.
“Dal rapporto emerge la necessità delle persone nere di dover raccontare la loro storia, non accettare di buon grado la narrazione dei bianchi” afferma Triantafillos Loukarelis, Presidente Comitato Direttivo dell’Antidiscriminazione, la Diversità e l’Inclusione (CDADI), già Direttore Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR). “Il dossier ci dà un quadro di quello che è la prima discriminazione, lo sguardo, il modo per eccellenza per mantenere la distanza. Ma ci mostra ancora tanti stereotipi ancora in vita, come l’iper-sessualizzazione del corpo femminile, o sentimenti di pietismo e paura. Risulta necessario istituire in Italia un’autorità indipendente per i diritti umani, ma ancor prima dobbiamo riconoscere gli errori commessi nel nostro passato colonialista”
È intervenuto nel dibattito anche Roberto Natale, Direttore Rai per la Sostenibilità – ESG, ricordando due date cardine per far comprendere con quanta fatica avvengono certi passi in avanti, ricordando l’apertura della prima sede di corrispondenza in Africa nel 2006 – ne esisteva solo una a Il Cairo – e la nascita della Carta di Roma nel 2008. “Vogliamo impegnarci nel parlare di questioni sociali e continueremo a farlo. Per noi il servizio pubblico significa diritti, inclusione, interazione. Specialmente dopo il grave errore commesso per l’imitazione irrispettosa del cantante Ghali, siamo convinti che serva una figura all’interno del sistema Rai che possa assicurare spazio, diritti e rappresentanza delle persone nere all’interno del servizio pubblico” – afferma Roberto Natale.
Sul tema della comunicazione si è espressa anche l’attrice Tezeta Abraham, “Per quanto le cose stiano cambiando, bisogna impegnarsi molto di più. Dobbiamo riconoscere gli errori del passato colonialista dell’Italia e capire l’opportunità e la ricchezza che rappresentano le comunità africane nel nostro Paese.
Noi neri dobbiamo collaborare con i professionisti di questo Paese, ma abbiamo bisogno anche di un nostro spazio, non solo di essere raccontati”.
La mattinata prosegue con lo speech di Benedicta Djumpah, attivista antirazzista e Student Life Coordinator (Temple Rome University), AFAR: “Il razzismo non è un singolo episodio di una persona ignorante, ma è inglobato nella nostra cultura. La scuola è la prima istituzione che si deve fare carico della responsabilizzazione circa il linguaggio e l’informazione sulla cultura africana”. Aggiunge inoltre: “Non siamo persone da salvare, siamo persona da ascoltare. La responsabilità all’accesso e all’ascolto delle nostre storie sta alla collettività”
A conclusione dell’evento è stato presentato Verso un Manifesto, una carta di posizionamento sull’afrofobia e il razzismo antinero che vuole rimanere aperta in termini di adesione e di evoluzione dei contenuti, a tutte le persone impegnate o che intendono impegnarsi in un percorso comune di contrasto al razzismo. Per farlo CHAMPS si impegna a favorire la raccolta ed elaborazione di dati quantitativi, sviluppare e promuovere luoghi di apprendimento, di formazione e di costruzione di comunità, porre al centro della narrazione e la voce delle persone razzializzate e diffondere un’informazione corretta e accurata attraverso il coinvolgimento delle voci dirette. Si cercherà anche di moltiplicare gli spazi pubblici di confronto, di scambio e di visibilità a livello nazionale e internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni e aumentare la consapevolezza rispetto all’afrofobia e al razzismo antinero attraverso anche forme di affirmative actions e azioni positive.
Di Fabrizio Gatti su Today
Gli italiani neri – cioè i cittadini che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia, ma hanno un colore della pelle diverso da quello della maggioranza della popolazione – incontrano molte più difficoltà nella vita di tutti i giorni, rispetto ai connazionali bianchi. Nemmeno il possesso del passaporto tricolore li protegge da pregiudizi e discriminazioni: soprattutto se hanno studiato e oggi sono, uomini e donne, medici, infermieri, maestri, educatori, smentendo così il luogo comune che li vorrebbe soltanto braccianti sfruttati, irregolari o addirittura criminali. In un Paese come l’Italia che considera il razzismo un fatto isolato, la pelle non dovrebbe avere alcuna influenza. Nessuno infatti giudicherebbe o rifiuterebbe una persona in base al colore degli occhi o dei capelli. Invece è esattamente quello che accade.
La questione riguarda oltre un milione di residenti, con cittadinanza italiana o permesso di soggiorno. Un’indagine, coordinata dall’organizzazione internazionale Amref Health Africa e curata dai ricercatori Paola Barretta e Giuseppe Milazzo dell’Osservatorio di Pavia, ha analizzato il fenomeno, raccogliendo interviste nel mondo della sanità, della scuola e della comunicazione. I risultati descrivono una nazione che, come altri Stati europei, deve ancora crescere nel suo rapporto con la realtà e con il suo passato coloniale.
“Il razzismo – osservano i ricercatori, dopo aver studiato decine di segnalazioni – è spesso associato a fatti episodici, dettati da inclinazioni politiche o difficoltà psicologiche individuali, ma è assente un’analisi rispetto alle cause strutturali”. Mentre il confronto si consuma tra sedute parlamentari e dibattiti televisivi, secondo lo studio, la frattura nella società si allarga: da una parte il mito degli italiani brava gente, dall’altro i connazionali con un diverso colore della pelle – magari italiani da più generazioni – costretti a sopportare e a testimoniare quello che i ricercatori chiamano “razzismo all’italiana”: “Un quadro incompleto e distorto, che non permette di comprendere le ragioni sottostanti i fenomeni che osserviamo nella realtà e che porta, inevitabilmente, dolore e lacerazione”.
I casi di questa discriminazione silenziosa abbondano. È di pochi giorni fa la notizia degli insulti sui social, a Fagnano Olona in provincia di Varese, che hanno costretto un medico del paese, Enock Rodrigue Emvolo, 48 anni, a chiedere il trasferimento. Motivo degli attacchi la circostanza che il dottor Emvolo, arrivato da poco a Fagnano, è nero e originario del Camerun, anche se si è laureato in Medicina in Italia e si sta specializzando in chirurgia di emergenza all’ospedale di Varese.
Mettere un medico nelle condizioni di cambiare sede, con la grande insufficienza di personale sanitario, è tra l’altro un incredibile autogol. Ma la maggior parte dei casi rimane sconosciuta. A volta è una questione di occhiate: “Si nota un po’ lo sguardo – racconta un’infermiera – , o la diffidenza che le persone hanno inizialmente al primo impatto, o magari quando si ritrovano in un letto di ospedale, in rianimazione e si trovano davanti una infermiera nera: un po’ si vede lo shock”. Succede anche dal farmacista: “Io in farmacia mi rendo conto proprio dallo sguardo: cioè sono quasi sorpresi di vedere una persona nera con un camice bianco”.
Nemmeno la scuola viene risparmiata: “Ho questa ansia di vedermi guardata come un extraterrestre – rivela un’insegnante – come una persona che è al posto sbagliato. Non ho la paura che qualcuno mi aggredisca fisicamente, ma l’umiliazione: io ho paura di essere umiliata come nera e questa paura mi segue sempre”. I neri, secondo la ricerca, vengono considerati senza alcuna ragione anche potenziali ladri: “Varie volte le persone, quando io cammino sul marciapiede – dice un educatore – si coprono la borsa con la mano o cambiano lato della borsa o si assicurano di aver chiuso la macchina… mi capitano spesso queste cose e, secondo me, l’inasprimento del razzismo è proprio perché è andato peggiorando”.
Quando poi in classe si insegna storia, le contraddizioni vengono al pettine: “Una cosa che io vorrei tantissimo che qualcuno si preoccupasse di scardinare – auspica una mediatrice culturale – è l’insegnamento della storia. Quando si arriva a un certo punto, ovvero le campagne italiane in Africa, tutto questo viene dipinto come la conquista, la vittoria… poi però nessuno parla di quelle popolazioni che sono state colonizzate. In Italia c’è stata una battuta d’arresto pazzesca da questo punto di vista. Il colonialismo in Africa, il fascismo in Africa, non se ne parla, non vengono trasmessi film, se non alcuni tipi di film che rievocano la vittoria e le gesta brillanti degli italiani. Però non si parla dei retaggi che noi ci portiamo dietro, di cosa ne è stato appunto delle donne e degli uomini che hanno subito il colonialismo o anche per esempio di che cosa è stato il madamato, il meticciato, i figli appunto di quella componente coloniale. Questo, secondo me, è uno dei grandi elementi che sono alla base dell’estrema ignoranza italiana”.
Ricorda un medico: “Ero di guardia, sono andato in una casa e appena arrivato, ho suonato, ha aperto: ero io, di colore. Io non ho niente da comprare [dice il paziente alla porta] alle due di notte e io ho detto: guarda, non sono un vucumprà, io sono un medico”. E il paziente: “Non ti voglio, non ti voglio. Allora – continua il medico – io sono ritornato in sede, lui ha richiamato ancora in sede, ho preso la telefonata e poi sono andato lì e lui nel frattempo aveva chiamato i carabinieri dicendo: c’è uno di colore che realmente non so che cosa sta facendo in questo quartiere”.
Perfino in attesa del parto, denuncia la ricerca, capita che le mamme chiedano di essere assistite da bianchi: “Mi guarda e mi fa: adesso mi chiami l’ostetrica. Io gli ho detto: guardi signora che sono io l’ostetrica. Sorride, tra una contrazione e l’altra, e mi fa: sì, ho capito tu chi sei, ti prego adesso devo proprio spingere. Chiamami l’ostetrica”. È difficile farsi accettare per il colore della pelle anche come infermiera: “Alla fine vengo comunque considerata straniera: se sei una straniera, quindi fai l’addetta alle pulizie. Viene sempre sminuito il tuo ruolo”.
“Io credo – prosegue un’insegnante – che innanzitutto bisognerebbe formare gli insegnanti, i docenti, perché c’è proprio un vuoto formativo riguardo al razzismo, a come affrontare il razzismo, a come affrontare la diversità tra le persone”. Le conseguenze coinvolgono ovviamente gli studenti: “Questi ragazzi, pur non subendo episodi di discriminazione, è come se partissero non da zero ma da meno uno: come se dovessero dimostrare sempre qualche cosa in più degli altri”. Questa rincorsa continua è all’origine di quella che alcuni studiosi chiamano la “black fatigue”, letteralmente la fatica nera: è la stanchezza cronica che si accompagna agli sforzi quotidiani che sono richiesti a una persona nera, per mantenersi ancorata all’idea ottimista che un giorno il razzismo sarà sconfitto.
Molti intervistati evidenziano come la sottovalutazione di atti di discriminazione e di esclusione di matrice razziale sia anche frutto di un’assenza sistematica della questione dal dibattito pubblico e politico: “Tale assenza – osservano i ricercatori – unita all’inconsapevolezza della gravità delle pratiche razziste, provoca una vera e propria spirale del silenzio”. La Francia, periodicamente attraversata da forti tensioni sociali, ha affrontato le ombre culturali del suo colonialismo nel bel film di Laurent Cantet “La classe”, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2008. Quello francese è anche il modello al quale l’Italia più si avvicina. Ogni Paese deve però scegliere la sua strada, che si costruisce di giorno in giorno. Purché non si nascondano i problemi: altrimenti, come spiega un’ostetrica del Niger da tempo in Italia, “è difficile avere una terapia per una malattia non diagnosticata”.
Immagine in evidenza di Ansa
Di Anna Spena su Vita.it
Siamo a Trieste, in Piazza della Libertà, una delle più importanti della città, dove si trova la stazione ferroviaria. Ogni giorno, tra il tardo pomeriggio e la sera, qui arrivano più di 100 persone: i migranti della Rotta Balcanica, in molti partiranno subito per il Nord Europa. Il flusso aumenta o diminuisce a seconda dei mesi e a seconda di quanto la polizia croata – al confine con la Bosnia Erzegovina – li respinge indietro in modo che non possano arrivare in Europa. E in queste settimane il numero di ingressi è aumentato. L’ultimo rapporto di Frontex ha rilevato che, nei primi dieci mesi del 2022, gli arrivi ai confini esterni dell’Unione Europea sono stati circa 275mila, con un aumento del 73% rispetto ai primi dieci mesi dell’anno precedente. La rotta più attiva rimane quella dei Balcani Occidentali, dove si sono registrati 128.438 attraversamenti, un aumento del 168%. E Infatti «in Bosnia Erzegovina, in modo particolare nel Cantone di Una – Sana», dice Silvia Maraone, project Manager dell’Ipsia, ong delle Acli, «oggi ci sono poco meno di 4mila migranti. Ma il numero delle persone ancora bloccate qui, inferiore agli anni passati, non dice tutto su quello che sta accadendo. Il dato interessante è un altro: il numero delle persone che superano il “game” – espressione utilizzata dai migranti per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello croato – ad oggi è circa il 170% più alto dello scorso anno». Mentre il neo Governo si è lanciato contro una nuova crociata verso le ong che soccorrono i migranti in mare e urla ad un’emergenza che in Italia non esiste, è solo il sistema dell’accoglienza a operare in maniera emergenziale dato che 7 migranti su 10 sono accolti in centri straordinari, erroneamente si continua a non guardare alle rotte terrestri.
Non tutti i migranti che passano i confini terrestri vengono registrati. L’unico dato ufficiale che esiste in Italia, pubblicato dal Ministero dell’Interno, tiene conto solo del numero dei migranti arrivati via mare, quindi degli sbarchi. Dal primo gennaio al 16 novembre 2022 in Italia sono arrivati 93.241 migranti, tra loro 11.172 (dato aggiornato al 14 novembre ndr) sono minori stranieri non accompagnati. E allora alla domanda: “quanti sono i migranti che ogni anno passano per l’Italia?”, la risposta è “non lo sappiamo”. Quello che possiamo fare è avere delle stime e confrontare le voci delle organizzazioni umanitarie e dei volontari che presidiano i punti nevralgici delle rotte di terra per dare prima assistenza ai migranti che arrivano. Tre i luoghi principali da considerare: il Friuli Venezia Giulia, nello specifico la città di Trieste, perché il punto d’arrivo delle Rotta Balcanica, quindi l’ingresso in Italia e le due frontiere d’uscita, Oulx in Val di Susa, e i comuni di Ventimiglia e Mentone, dove i migranti provano a passare il confine con la Francia, ma più e più volte vengono respinti dalla parte Italiana del confine.
«Dallo scorso agosto», spiega Gian Andrea Franchi, vice presidente dell’associazione Linea d’Ombra odv, organizzazione di volontari che presta cure mediche, dà indumenti puliti a chi passa in transito per la città di Trieste e organizza viaggi in Bosnia per portare aiuti concreti ai migranti e agli attivisti presenti sul posto, «il flusso dei migranti che arrivano dalla Rotta Balcanica è aumentato notevolmente. Parliamo di una media di almeno 80 persone al giorno, con picchi fino a 200. Questo dipende anche dal fatto che la polizia croata – che da anni ormai effettua respingimenti illegali e usa lo strumento della violenza contro i migranti – sta facendo passare più persone, questo per loro significa anche un impiego minore di forze di polizia ai confini». A Trieste stanno arrivando anche molte famiglie con minori. «Diverse famiglie curde», continua Franchi. «Stanno arrivando persone anche dall’Africa subsahariana, che prima non vedevamo, e poi sempre pakistani, afghani, nepalesi».
Per avere un’idea, o almeno per provare a ricostruire, quante persone passano per il territorio italiano dobbiamo guardare oltre agli sbarchi via mare, alle stime di Frontex, alle domande d’asilo che ci dicono chi si ferma qui, anche ad un altro dato: quello dei respingimenti. Un flusso di persone maggiori in ingressi significa che ad Oulx, in Val di Susa, ma ancora di più a Ventimiglia e Mentone, le persone si bloccano perché vengono rispedite indietro dalla polizia francese. Guardando i dati del Prefetto del Dipartimento PACA (Provence-Alpes Maritimes-Cote d’Azur) e del Ministero dell’Interno Italiano nel 2016 ce ne sono stati 31mila, nel 2017 è stato registrato un picco di 50mila, per poi tornare a 29.600 nel 2018. Nel 2019 il numero è calato ancora, con poco più di 18mila respingimenti. E il 2020 non è stato da meno: nonostante la pandemia abbia bloccato quasi totalmente i flussi durante la primavera, il numero delle persone respinte è pari a 22.616. «Nel 2021», spiega Jacopo Colomba, project Manager di WeWorld a Ventimiglia, «al confine con la Francia sono state respinte 22mila persone. Quest’anno i respingimenti saranno superiori ai 30mila».
Per la stragrande maggioranza delle persone che arrivano dalla Rotta Balcanica, l’Italia non è il Paese di destinazione. Ma anche se lo fosse, non è così scontato risalire al numero di migranti che decide di fare domanda d’asilo nel Paese: «Il ministero dell’Interno», spiega Gianfranco Schiavone dell’Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, «non pubblica mai i dati complessivi sulle domande d’asilo presentate dalla persone che non arrivano via mare. È una volontaria omissione, come se queste persone non esistessero anche quando poi di fatto fanno domanda d’asilo in Italia e rientrano nel nostro sistema di accoglienza. Solo in Friuli Venezia Giulia, lo scorso anno, sono state presentate circa 10mila domande».
WeWorld ha aperto 2 anni fa a Ventimiglia una struttura di accoglienza insieme a Caritas Intemelia e Diaconia Valdese, pensata per famiglie e donne che cercano di attraversare il confine con la Francia e che hanno bisogno di un riparo per la notte. Dal novembre 2020 ha ospitato 787 nuclei familiari per un totale di 2.278 persone in fuga da 37 paesi diversi. La struttura è stata aperta per sopperire alla chiusura del Campo Roja, il presidio della Croce Rossa italiana dove venivano accolti i migranti di passaggio. «Le stime sono sempre imprecise», continua Jacopo Colomba, «ma tra agosto e fine ottobre ci sono stati circa 150 respingenti al giorno. Dall’inizio di novembre i respingimenti si sono attestati sui cento. Il 10% delle persone che intercettiamo sono minori stranieri non accompagnati, in prevalenza afghani, anche molto piccoli. La maggior parte delle persone sono originarie dell’Africa sub-sahariana, soprattutto da Eritrea, Costa d’Avorio, Nigeria, Guinea ed Etiopia, sono arrivate dalla rotta mediterranea, o già nel nostro paese ma uscite dal sistema di accoglienza italiano. Poi c’è un’altra parte proveniente dai Paesi del Nord Africa – Tunisia e Libia- dal Medio Oriente, principalmente da Afghanistan, Siria, Iran e Iraq/Kurdistan. Loro arrivano principalmente seguendo la rotta balcanica o quella del Mediterraneo orientale. Ventimiglia è diventata la “Lampedusa del nord” dal 2015. Quando la Francia ha letteralmente chiuso ogni punto di passaggio abbiamo visto la militarizzazione dei valichi per fermare e scoraggiare i flussi migratori».
Prima la maggior parte dei migranti provava ad attraversare la frontiera in treno: di solito alla prima stazione francese, quella di Menton Garavan, li aspettava la polizia francese, che perquisiva tutte le carrozze. Alcuni provavano a nascondersi nei bagni, altri nei vani elettrici. Lo scenario è cambiato a partire da marzo 2021, ovvero da quando sono stati introdotti i controlli sui documenti da parte di pattuglie miste italo-francesi direttamente sul binario del treno diretto in Francia alla stazione di Ventimiglia, sulla base di un nuovo accordo bilaterale fra i Ministeri dell’Interno dei due paesi. Ciò ha determinato che provare il passaggio tramite treno è diventato estremamente più difficile, di conseguenza vengono attualmente preferiti altri metodi. «Molti provano ad attraversare rivolgendosi a un passeur, pagando per nascondersi in una macchina o nel retro di un camion. Altrimenti c’è chi tenta camminando sulla ferrovia, o in autostrada, o ancora per i sentieri del crinale: il più famoso è il cosiddetto “passo della morte”, alla fine del quale la polizia francese ha installato telecamere e droni per controllare la montagna dall’alto».
Foto in evidenza di Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra
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