Di Annalisa Camilli su Internazionale
La Commissione europea ha detto che il meccanismo di solidarietà tra i paesi europei rimarrà attivo, nonostante Parigi abbia rifiutato di ricollocare 3.500 richiedenti asilo dall’Italia, dopo che Roma a sua volta ha negato un porto di sbarco alla nave umanitaria Ocean Viking, che aveva salvato 234 persone lungo la rotta del Mediterraneo centrale. La nave umanitaria alla fine ha attraccato a Tolone, in Francia, dopo tre settimane di stand-off in mare.
La Francia ha contemporaneamente annunciato che non parteciperà più al meccanismo di ricollocamento, approvato nel giugno 2022 per emendare il regolamento di Dublino, ovvero le norme comuni europee secondo cui a prendere in carico le domande di asilo devono essere i primi paesi di ingresso in Europa. Il piano prevedeva inizialmente il ricollocamento di diecimila persone, poi diventate ottomila, che avrebbero dovuto essere trasferite dai paesi di approdo, come Italia e Grecia, in altri tredici paesi europei che avevano volontariamente aderito al progetto.
Da giugno tuttavia solo 117 persone sono state trasferite: di queste 38 sono andate in Francia dall’Italia alla fine di agosto. Altre 74 hanno lasciato l’Italia l’11 ottobre dirette verso le città tedesche di Hannover e Berlino. La Francia ha detto che ne avrebbe accolte altre cinquecento entro la fine del 2022. Il 13 novembre il portavoce del governo francese Olivier Véran ha chiesto all’Europa di reagire contro l’Italia. “La nostra risposta è stata umanitaria e abbiamo permesso alla nave di attraccare a Tolone”, ha detto. “Ma la seconda risposta è ricordare all’Italia i suoi obblighi, e se si rifiuta di farlo, prendere in considerazione ogni misura utile”.
L’Italia contro le ongIl 12 novembre è stata pubblicata una dichiarazione congiunta dei ministri dell’interno di Italia, Grecia, Malta e Cipro in cui si lamentano della lentezza del meccanismo di ricollocamento europeo e chiedono che non siano solo i paesi del sud dell’Europa ad accogliere gli sbarchi. “Non possiamo sottoscrivere l’idea che i paesi di primo ingresso siano gli unici punti di approdo europei per i migranti illegali”, è scritto nella comunicazione.
Nella lettera ci sono anche considerazioni poco fondate sulla condotta delle organizzazioni non governative che operano soccorsi, e che sono accusate di agire in maniera illegale e senza coordinarsi con le navi umanitarie. “Ribadiamo la nostra posizione sul fatto che il modus operandi di queste navi private non è in linea con lo spirito della cornice giuridica internazionale sulle operazioni di search and rescue, che dovrebbe essere rispettata”.
Questo è stato anche il punto su cui ha insistito il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani, durante il Consiglio europeo dei ministri degli esteri il 14 novembre. Tajani ha chiesto “un codice di condotta” europeo che regoli l’operato delle navi umanitarie. Inoltre ha accusato le ong di agire in collusione con i trafficanti di esseri umani. “Un conto è il soccorso in mare, altra cosa è avere un appuntamento in mezzo al mare, una cosa completamente diversa”, ha detto Tajani, che ha incontrato a Bruxelles gli altri ministri degli esteri e la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola.
“La verità vera è che dovrebbero essere le navi mercantili a fare il soccorso in mare; evidentemente ci sono delle ong che fanno un lavoro diverso per lasciare libere le navi mercantili dall’obbligo di soccorrere le persone in mare”, ha proseguito Tajani. Le accuse del ministro degli esteri ripetono quelle già mosse dai governi italiani alle ong tra il 2017 e il 2018. Nessuna accusa di collusione tra ong e trafficanti si è rivelata fondata fino a questo momento e l’Italia ha già approvato un codice di condotta per le ong (nel 2017) che tuttavia non può scavalcare il soccorso in mare prescritto dalle convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria.
La risposta europea è stata molto ferma e non ha lasciato spazio alle richieste italiane: la Commissione europea ha dichiarato che il primo obbligo dei paesi è salvare vite in mare senza fare differenze tra navi delle ong e altri navi.
Tra l’altro l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ha dichiarato che solo il 15 per cento dei migranti arrivati via mare in Italia è stato salvato dalle navi umanitarie. Tutti gli altri sono stati soccorsi dalla guardia costiera italiana e da altre navi di soccorso o sono arrivati autonomamente. Il 14 novembre, mentre non erano presenti navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, sono arrivate in Italia mille persone. Uno studio sistematico di Matteo Villa dell’Ispi e di Eugenio Cusumano condotto sui dati del periodo 2014-2019 smentisce la teoria che lega la presenza delle navi delle ong in mare a un numero maggiore di partenze di migranti. E Villa puntualizza che anche “nei primi quattro mesi e mezzo del 2021 la media di migranti partiti ogni giorno dalle coste libiche è di 125 con le ong presenti nell’area Sar del paese nordafricano e 135 senza”. Questo dimostra che le navi umanitarie non rappresentano un fattore di attrazione per i migranti che sono determinati a partire.
La Commissione europea ha anche convocato un incontro di emergenza tra i ministri dell’interno europei per risolvere le controversie sull’immigrazione. Margaritis Schinas, vicepresidente della commissione, ha affermato che si sta pensando a un piano di emergenza per allentare le tensioni. “Non possiamo permettere che due stati membri si combattano in pubblico e creino un’altra crisi politica sulla migrazione”, ha detto in un’’intervista a Politico. Nel frattempo l’Italia pensa a una nuova stretta sulle ong che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni con l’approvazione di nuovi decreti.
Immagine in evidenza di Vincenzo Circosta/Afp
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire.it
Italia e Francia si rinfacciano, dunque, accuse di disumanità e di irresponsabilità sul dossier sbarchi e rifugiati, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita.Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.
Secondo Eurostat, nel 2021, sono arrivate ai governi della Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.Ci sono poi i cosiddetti “movimenti secondari” dei rifugiati che, arrivati sul territorio di uno Stato, si spostano in un altro e ripresentano una domanda di asilo: la Francia nel 2021 ne ha ricevuti 30.000, molti dei quali passati attraverso l’Italia. Il punto è che i profughi non arrivano solo dal mare, ma anche via terra, a piedi, in auto, con trasporti pubblici, oppure in aereo, come i venezuelani che sbarcano in Spagna. Gli sbarchi sono più drammatici e visibili, ma non prevalenti. È uno sguardo ristretto, disinformato o volutamente distorto, quello che vede soltanto i profughi che approdano sotto casa sua.
Parigi ha poi accettato volontariamente la ricollocazione di 3.500 persone sbarcate in Italia: impegno appunto volontario, attuato con lentezza e presumibile riluttanza, ma pur sempre gesto di buona volontà. La provocazione italiana, che ha rivendicato come una vittoria l’accoglienza della Ocean Viking in un porto francese («L’aria è cambiata»: il ministro Salvini su facebook), ha scatenato la contro-provocazione francese: niente più accoglienza volontaria. Chiedere solidarietà ai vicini per storia e geografia e poi bastonarli o irriderli non è mai una buona mossa, così come far finta di non vedere le frontiere ermeticamente chiuse e la solidarietà sistematicamente negata dai vicini ideologici (i Paesi con governi nazional-sovranisti).
Dove la Francia si muove su un terreno discusso e discutibile è il controllo dei confini terrestri: qui la libera circolazione attraverso le frontiere interne della Ue è stata di fatto ristretta, sono state introdotte forme di profilazione razziale, sono stati perseguitati gli attivisti, è stata messa a repentaglio la vita dei profughi in transito per un principio di difesa dei confini non meno assolutizzato, e disumano, di quello che l’Italia si è tornati a inalberare. Nessuno in Europa d’altronde ha la coscienza pulita, se si pensa alle discusse imprese di Frontex ai confini esterni, o agli accordi con Paesi di transito come Libia, Turchia, Marocco.Viviamo un tempo fosco in cui le persone in fuga diventano «armi di una guerra ibrida», ai confini della Polonia, «carico residuale» sulle coste italiane, «animali» nel linguaggio di Donald Trump. Si cercano e ottengono voti respingendo le persone, oppure deportandole da un’altra parte. Basti pensare al tentativo di Danimarca e Regno Unito di trasferire i richiedenti asilo in altri continenti.
Ma anche Ron DeSantis è diventato una celebrità trasportando sull’isola di Martha’s Vineyard 50 migranti senza documenti validi, perlopiù venezuelani, convinti di andare a Boston. Gli esseri umani bisognosi di protezione diventano strumento cinico e crudele di cattura del consenso politico. Vogliamo tenacemente sperare in un Occidente e in un’Europa migliori, di cui l’accoglienza ai profughi ucraini ha dato un esempio: non sia un’eccezione, ma un’anticipazione profetica di un mondo migliore e più umano.
di Oiza Q. Obasuyi su Valigia Blu
La narrazione adottata dalle principali fonti di informazione italiane quando si parla di immigrazione, persone di origine straniera e razzismo tende spesso a dividersi in due tipologie: la banalizzazione del razzismo sistemico da una parte, e dall’altra la criminalizzazione delle persone. Quest’ultima avviene attraverso parole d’ordine come “emergenza” e “sicurezza”, che spesso emergono nelle testate giornalistiche mainstream, in particolare quando si parla di sbarchi o di aree urbane con maggior presenza di persone straniere. Tale modo di raccontare i fatti non solo ha un impatto reale sul pubblico, che a sua volta può adottare comportamenti ostili e discriminatori nei confronti di chiunque abbia un retroterra migratorio, ma è sintomo anche della mancanza di una pluralità di voci di varie origini all’interno sia dei media che delle redazioni italiane.
Avere cura di come vengono inserite nazionalità o origine di una persona nel testo non significa inquinare la veridicità di un fatto di cronaca realmente accaduto e che ha visto coinvolte persone di origine straniera. Piuttosto, significa evitare che tratti come nazionalità, origine o colore della pelle di una persona diventino parte integrante di una colpevolizzazione, in particolare quando si parla di un reato commesso. L’Associazione Carta di Roma nelle sue Linee guida ha già sottolineato questo enorme problema nell’analizzare la copertura della cronaca nei giornali italiani. Per esempio, scrive l’Associazione:
Mentre sarebbe utile alla comprensione della vicenda scrivere “cittadino albanese arrestato alla stazione: era ricercato dalla polizia di Tirana”, la designazione attraverso la nazionalità sarebbe superflua in un generico caso di cronaca nera come “Albanese arrestato: non si era fermato a un posto di blocco”. Questo modo di riportare una notizia infatti, suggerirebbe che la nazionalità di una persona è rilevante per spiegare le azioni del soggetto e si favorirebbe l’associazione automatica nel lettore tra nazionalità e fatto criminoso […].
Questi accorgimenti sono tutt’altro che banali, poiché impattano sulla percezione, nella vita quotidiana, che le persone hanno delle minoranze, e quindi incidono anche nel contrasto alle discriminazioni e alle generalizzazioni. Tuttavia non sono tenuti in considerazione, andando quindi anche ad alimentare una propaganda allarmistica e razzista. Questo tipo di narrazione generalizzante emerge soprattutto quando si parla di violenze sessuali, stupri e molestie ai danni di donne italiane da parte di cittadini stranieri. L’essere cittadino straniero diventa il vero problema, e l’argomento principale si sposta sugli sbarchi dal Mediterraneo più che sull’ennesima prova che esiste un problema sistemico – e globale – di machismo e violenza di genere e che soprattutto non esiste alcuna differenza tra un violentatore italiano o straniero. Nell’agosto del 2018, per esempio, a Jesolo riportando un caso di stupro ai danni di una 15enne, i titoli di giornale erano questi: ”Stuprò minorenne sulla spiaggia di Jesolo. Senegalese condannato a 3 anni e 4 mesi” (Il Messaggero, 28 agosto 2019); ”Jesolo, fermato senegalese per lo stupro di una ragazza di 15 anni” (La Repubblica, 25 agosto 2018). Più recentemente, l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato il video dello stupro di una donna ucraina avvenuto a Piacenza, in piena campagna elettorale, poiché il fatto che lo stupratore fosse un richiedente asilo sarebbe stato ancor più funzionale alle sue modalità di propaganda.
Oltre a diventare un assist alle discussioni e alla propaganda politica razziste che poi finiscono nella generalizzazione di tutte le persone di origine straniera, specialmente se provenienti da un Paese del Sud globale, questo modo di fare informazione non aggiunge nulla di realmente rilevante alla questione sistemica che riguarda la violenza di genere. Al contrario, dà modo di pensare che quest’ultima riguardi solo quella parte della società facilmente più condannabile e quindi criminalizzabile – questo reso possibile anche dal frame di “emergenza stranieri” permanente che non pochi media mainstream adottano. In questo caso, ad esempio, il quotidiano La Verità, nel mese di agosto, aveva pubblicato in prima pagina un articolo dal titolo “Porte aperte al prossimo stupratore”, e nel sottotitolo veniva riportato che il 40% degli stupri in Italia è commesso da stranieri. Sviscerando questa affermazione, la redazione di Pagella Politica (progetto editoriale che si occupa di fact-checking e analisi dell’attualità politica) ha spiegato come questa affermazione sia falsa:
In Italia gli stupri sono commessi in oltre tre quarti dei casi da persone con cui la vittima ha una relazione affettiva o amicale: per la precisione, nel 62,7% dei casi da partner (attuali o precedenti), nel 3,6% per cento da parenti e nel 9,4% da amici. Quelli subiti dalle donne italiane sono stati commessi da italiani in oltre l’80% dei casi.
Andando oltre ai numeri, è necessario poi ricordare che il discorso non può concludersi qui e che il coinvolgimento delle persone razzializzate, a maggior ragione le donne di origine straniera, è necessario. Come ha affermato l’Assemblea Donne Migranti (del Coordinamento Migranti di Bologna) in relazione alla violenza sessuale avvenuta a Piacenza:
Lo stupro di una donna a Piacenza è stato trasformato in un’occasione per raccattare voti. Salvini e Meloni, come da tradizione, ne hanno approfittato per rilanciare la propria politica razzista. Entrambi hanno sottolineato che lui era un richiedente asilo, entrambi hanno promesso di garantire alle città maggiore sicurezza quando saranno al governo, lasciando intendere che la loro sicurezza colpirà tutti i migranti.
E ancora:
Siccome noi sputiamo ugualmente sul razzismo e sul sessismo, siccome a noi interessa la politica femminista e non la cronaca nera elettorale, a Piacenza vediamo un uomo che ha stuprato una donna, come fanno quotidianamente, in pubblico oppure nel privato familiare protetto dallo sguardo e dalle fotocamere degli smartphone, moltissimi uomini di ogni colore, religione e cultura, con in tasca documenti di tutti i paesi. […] Diciamo che il razzismo alimenta la violenza maschile distinguendo tra donne che possono essere violate per il colore della loro pelle e donne che per il colore della loro pelle ‘meritano’ protezione, magari attraverso altra violenza. Diciamo che uno stupro è uno stupro, chiunque lo commetta.
Questo tipo di narrazione su un’emergenza permanente si trova anche nelle notizie relative ai flussi migratori, nonostante, anche in questo caso, i dati smascherino un certo tipo di propaganda che continua a descrivere i fenomeni migratori in termini di “invasione”.. Come spiegano i professori Pierluigi Musarò e Paola Parmiggiani del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia (Università di Bologna) nel libro Ospitalità mediatica. Le migrazioni nel discorso pubblico, le straniere regolarmente residenti in Italia si sono assestate ormai da 6 anni a poco più di 5 milioni, pari a circa l’8,5% della popolazione residente, sono in lieve prevalenza donne (52%), provengono in maggioranza da paesi Europei (51%, di cui quasi i 2/3 da paesi UE) e confessano in prevalenza una religione cristiana (54%).
A questi si aggiungono i rifugiati che sono poco più di 200mila e le persone immigrate prive di documenti, poco superiori alle 500mila unità, rispettivamente pari al 5,7% e all’8,7% della popolazione straniera complessiva presente in Italia. Inoltre, la retorica emergenziale e il dibattito che si crea intorno all’ennesimo sbarco o blocco in mare di navi ONG con a bordo persone che necessitano un porto sicuro, così stabilito dalle leggi internazionali vigenti, non aiutano ad affrontare la questione delle disuguaglianze nella mobilità internazionale. Sono problemi che vanno dalla questione del continuo rifiuto per l’ottenimento dei visti, alle discriminazioni dei passaporti (costantemente rese evidenti dal Global Passport Index) fino al contrasto delle violenti politiche repressive delle frontiere in cui, giornalmente, i diritti vengono schiacciati a causa dei respingimenti sistematici.
La grande assente nel discorso pubblico è la diretta interessata, ossia la persona di origine straniera – o con retroterra migratorio – che per propria esperienza o per i propri studi dovrebbe rappresentare un contributo prezioso per trattare queste tematiche. Eppure, come viene sottolineato nel rapporto Notizie ai margini (Associazione Carta di Roma, 2021), nonostante nel 2021 sia stato rilevato un calo delle notizie sull’immigrazione, “l’accesso diretto di migranti e rifugiati ai telegiornali, ossia la loro presenza in voce nei servizi, rimane limitato […]. Selezionando infatti tutti i servizi relativi all’immigrazione che contengono interviste, la presenza di migranti e rifugiati in voce è rilevabile nel 6% dei casi”.
Chi parla di immigrazione (ma più in generale anche di razzismo, cultura, attualità o religioni) è prevalentemente bianco. Le trasmissioni che ospitano discussioni sul tema sono in prevalenza occupate da politici o giornalisti, perlopiù uomini, che trattano di questioni che non li riguardano in prima persona. Infatti, riguardo al coinvolgimento di professionisti/e stranieri/e o di origine straniera nel settore dell’informazione, nell’articolo “Media e diversità, in Italia redazioni prive di giornalisti stranieri” della testata Voci Globali, è stato sottolineato che, in molti casi, non solo i giornalisti e le giornaliste di origine straniera non vengono interpellate nella costruzione della notizia sull’immigrazione, ma sono chiamati in causa “per suffragare uno stereotipo” e “non si sentono quindi presi sul serio come professionisti”.
Come ha affermato la giornalista Sabika Shah Povia, che per via delle sue origini pakistane e la sua religione è stata più volte chiamata in causa per il caso di Saman Abbas, giovane uccisa dai propri familiari:
Spesso viene invitato un politico che ha un’agenda da inseguire e fa propaganda, viene chiamata una ragazza con il velo o un imam per difendere la religione, e qualcuno della comunità pakistana che possa fungere da capro espiatorio. Non si chiamano invece persone esperte di determinati temi. Sarebbe importante dare spazio ad altre figure professionali, come ad esempio psicologi di seconda generazione, operatrici dei centri antiviolenza, sociologi, persone impegnate nel terzo settore che cercano di portare un cambiamento concreto con il loro lavoro ogni giorno.
Parlando proprio del rapporto tra religione musulmana e donne, da come si evince da un’intervista di Radio Black Out a Leila Belhadj Mohamed, esperta di geopolitica, ci arriva una narrazione superficiale su “velo sì” o “velo no”, improntato sul paternalismo e senza una reale attenzione posta alle donne che lottano, con e senza il velo. Un simile argomento è infatti sostenuto dalle donne iraniane stesse che, manifestando anche in Italia a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini, hanno dimostrato che la resistenza delle donne musulmane a qualsiasi imposizione patriarcale è sempre esistita, aggiungendo anche che più che per il velo in sé, la protesta nasce – oltre alla profonda crisi economico-sociale in cui riversa l’Iran e la repressione della dittatura di Khamenei – per rivendicare il diritto di poter scegliere cosa indossare. Il protagonismo delle donne (giornaliste, esperte, attiviste) di origine straniera, di religione musulmana e femministe quindi, che per esperienza o studi conoscono a fondo questi temi, in questo tipo di dibattiti, è cruciale nei media mainstream italiani – ma puntualmente la loro presenza non viene considerata.
Questa assenza vale anche per le persone nere che vengono tirate fuori – sempre come oggetti del dibattito e mai come soggetti attivi che prendono parola. L’ultimo caso riguarda quello della pallavolista Paola Egonu, in particolare del suo sfogo, ripreso da uno spettatore, alla fine di una partita persa contro la nazionale statunitense in cui parla non solo del peso di essere quella che porta in casa le vittorie e di quanto gravi su di lei anche la perdita, ma anche della frustrazione di ricevere commenti discriminatori, riguardanti perfino la sua cittadinanza italiana. La reazione del giornalismo mainstream è stata quella di banalizzare e sminuire una delle tante esperienze che le persone razzializzate comuni vivono quotidianamente, ossia il non essere riconosciute come italiane. Anziché spostare il dibattito su una discriminazione sistemica e istituzionale, soprattutto se si pensa alla questione della riforma di cittadinanza e al non riconoscimento di oltre un milione di persone nate o cresciute in questo paese, sul Repubblica, ad esempio, si è parlato di “stress” da gestire e di come i campioni debbano “resistere anche agli insulti”.
Inoltre, considerando che perfino Palazzo Chigi è intervenuto in difesa di Egonu parlando di “orgoglio nazionale”, sembra che in Italia una persona abbia il diritto di essere riconosciuta come parte integrante della società solo quando diventa “prestigio per la patria” – soprattutto nello sport, salvo poi non segnare un gol decisivo o perdere una gara di atletica, allora, in quel caso, ripartono gli insulti razzisti dagli spalti. E nonostante questo argomento vada oltre gli stadi e le arene, il dibattito è nato e morto lì, senza, di nuovo, alcun coinvolgimento delle persone direttamente coinvolte che non saranno delle campionesse di Serie A o vincitrici di ori olimpici, ma che vivono e affrontano una società che continua a ignorarle e discriminarle.
Risulta quindi evidente che i media mainstream italiani non solo non riflettono la diversità che caratterizza la società di questo paese, ma continuano a ignorare le tante soggettività con diverse origini che hanno un pensiero, delle opinioni, e soprattutto rappresentano l’anello mancante per decostruire le tematiche finora trattate. Nonostante quest’assenza nelle trasmissioni televisive in cui si parla di attualità o nelle redazioni giornalistiche più in vista, i social media sono diventati però il portale per eccellenza per far sì che le persone razzializzate siano protagoniste, appropriandosi della narrazione che viene costantemente fatta su di loro. Per citare alcuni progetti: Colory*, nato per “vedere una maggiore e migliore rappresentazione della cultura Italiana a ColorY* ed essere parte di una società sempre più inclusiva e consapevole”; la campagna CambieRAI, nata da giovani italiani e italiane di varie origini per denunciare il razzismo nella televisione italiana – dall’utilizzo della blackface fino all’utilizzo della N-word – come l’attrice Valeria Fabrizi che parlando di sé da giovane nel programma A Ruota libera di Rai 1, in riferimento alla sua carnagione ha affermato “Bellissima no… sembro una neg*a, una ragazza di colore”; la neonata Dotz, piattaforma che tratta di attualità, politica, cultura, economia nata dalla necessità di creare, si legge nella descrizione, un’alternativa che combatta gli stereotipi etnico-culturali che possiamo trovare nel giornalismo mainstream; Africans United piattaforma nata per decostruire stereotipi e pregiudizi sul continente africano e per parlare di cultura e diaspora africana in Europa e nel mondo.
A queste piattaforme si aggiungono altri contesti artistico culturali realizzati da persone (scrittrici, attiviste e attivisti, giornalisti, artisti) di varie origini come il Festival Divercity di Milano o il Black History Month Festival di Torino. Quindi non è che non ci siano persone da contattare per parlare di determinate tematiche in maniera seria e informata, il punto è l’esclusione sistematica di queste realtà dalla narrazione generale. Ci troviamo davanti a un giornalismo conservatore – quello che poi, di fronte a quest’innovazione, di linguaggio e persone, tratta a sproposito di cancel culture o di “dittatura del politicamente corretto” – aggrappato a un modo di fare informazione che non risponde più alle esigenze attuali. Per cambiarlo è necessario non solo prendere atto del fatto che un certo giornalismo non cambierà mai se non iniziano a cambiare anche le redazioni, ma che persone di varie origini che si stanno riappropriando della propria narrazione esistono già, basta solo ascoltare, chiedere e coinvolgere.
Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto INGRiD – Intersecting Grounds of discrimination in Italy, finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma REC (Rights, Equality, Citizenship)
Di Nello Scavo su Avvenire.it
Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani «carico residuale»? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un «carico residuale» fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano. «Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico.
Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura».
È «il carico residuale», in fondo non è che un altro nome dato agli «scartati». La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà da chissà quale abisso vengono a galla editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.
Intervistato da Rtl 102.5 , ieri Matteo Salvini ha detto: «Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga». Esattamente ciò che “Avvenire” denuncia da anni, con nomi, cognomi, rivelando connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel “Libyagate” che continua ad essere alimentato dalla “trattativa” tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per due volte dai nostri governi.
Anche quello attuale, che appena cinque giorni fa ha lasciato che “il patto della vergogna” si rinnovasse d’inerzia. Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di «carico residuale», che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?
Il Garante nazionale, nell’urgenza di salvaguardare l’incolumità fisica e psichica delle persone soccorse in mare da alcune navi battenti bandiera norvegese e tedesca, ribadisce fermamente la necessità che i diritti fondamentali delle persone prevalgano sulle controversie tra Stati.
Come già in passato e quale proprio dovere in quanto Meccanismo nazionale di prevenzione di trattamenti inumani o degradanti in virtù di un trattato ONU ratificato dall’Italia, ricorda a tutte le parti coinvolte i rischi che un mancato celere sbarco in un porto sicuro comporta, non solo per la salute delle persone ma anche sul piano della responsabilità in sede internazionale. A bordo delle navi in attesa si trovano centinaia di minori non accompagnati e persone vulnerabili provate da una lunga e travagliata permanenza in mare. Una situazione che deve terminare.
Se, in base ai trattati internazionali, gli Stati di bandiera delle navi in attesa di sbarco non hanno un obbligo di coordinamento delle operazioni di soccorso, è però vero che lascia stupiti la generale indisponibilità degli Stati membri a partecipare alla redistribuzione delle persone soccorse, una volta terminata la fase di salvataggio. Ancora una volta viene a mancare lo spirito che è alla base dei valori fondanti dell’Unione Europea.
Il Garante nazionale riafferma la propria censura di ogni tentativo di leggere primariamente con le lenti della contrapposizione politica il tema della salvaguardia dei diritti umani, trasformando le persone, comprese quelle più vulnerabili, in strumenti per affermare una propria visione della realtà, anche se astrattamente legittima.
Foto in evidenza di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Di Alessandro Cinciripini su Voci Globali
Lo scorso 3 ottobre a Lampedusa si è svolta la celebrazione in memoria dei 368 morti e 20 dispersi del naufragio avvenuto nove anni fa al largo dell’isola. Dal 2013 più di 24.000 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo. Di fronte alle morti in mare e al caos politico che interessa la Libia, l’Italia, appoggiata dall’UE, ha perseguito una cinica politica di esternalizzazione delle frontiere.
Nel 2017 venne siglato il cosiddetto Memorandum d’intesa con la Libia, il cui rinnovo automatico per altri tre anni avverrà il prossimo 3 novembre 2022. Così facendo il Governo italiano ha nei fatti derogato i propri valori costituzionali anteponendo i propri interessi politici ai diritti umani.
L’indomani del naufragio di Lampedusa fu varata la missione militare di soccorso “Mare Nostrum”, ma ben presto il Governo italiano si mosse verso l’instaurazione di rapporti bilaterali con il Governo di Tripoli. Il documento, siglato il 2 febbraio 2017 dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dall’allora primo ministro libico Fayez al-Sarraj, prevede il sostegno diretto dell’Italia al fianco di Tripoli nel contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani. L’iniziativa seguì uno schema già consolidato dal Governo Berlusconi nel 2008 con il Trattato di Amicizia Cooperazione e Partenariato.
Con la stipula dell’accordo si è assistito a una completa cessione del controllo dei flussi migratori provenienti dal Sahel e dall’Asia alle milizie libiche. Negli ultimi 5 anni l’Italia ha sostenuto capi militari che hanno aggravato e perpetuato la spirale di violenza che oggi coinvolge il Paese africano. Grazie ai fondi ricevuti, i gruppi armati hanno fatto della schiavitù dei migranti la loro principale fonte di reddito. Nei centri di detenzione trattamenti disumani, violenze e abusi sono una tremenda normalità.
In aggiunta, la Guardia Costiera Libica, formata e addestrata dall’Italia, si è dimostrata null’altro che una delle tante bande al potere in Libia. Dal 2017 al 2020 sono stati emessi finanziamenti diretti alla GCL per un valore di 22 milioni. Nel 2021 le cifre sono aumentate a 10,5 milioni, mentre per il 2022 si arriverà a 11,8 milioni. Nella sua leadership spiccano nomi di trafficanti come Abd al-Rahman Milad noto come Bija, ricercato per traffico di esseri umani. Attraverso il Memorandum, la Libia ha visto riconosciuta dall’Europa la propria zona SAR (Search and Rescue) nella quale oggi si consumano naufragi, respingimenti e plateali omissioni di soccorso.
Per questo motivo, dal 2017 nel Mediterraneo opera un servizio civile europeo di soccorso marittimo. Organizzazioni non governative da tutt’Europa hanno riempito il vuoto lasciato dagli Stati, cercando di garantire una possibilità di soccorso a chi sfida le acque del Mediterraneo. Tra queste, l’italiana Mediterranea Saving Humans. Voci Globali ha raccolto la testimonianza di uno dei fondatori nonché capomissione sulla Mare Jonio, Luca Casarini:
“Mediterranea nasce nel 2018 durante la cosiddetta “politica dei porti chiusi” dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Di fronte al diniego dell’Italia di ottemperare agli obblighi della Convenzione di Amburgo e della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, abbiamo dato vita a Mediterranea. La nostra è una ANG, “azione non governativa”, siamo una piattaforma che accoglie sigle come Banca Etica, la Chiesa Cattolica, l’ARCI e molte altre. Ciò che ci unisce è la volontà di salvare vite umane, il resto è venuto da sé.”
In merito alla decisione dell’Italia di siglare l’accordo con Tripoli, Casarini prosegue:
“L’esternalizzazione delle frontiere in Europa non è un fenomeno nuovo. In Italia si è costruita una narrazione emergenziale completamente distorta sul fenomeno migratorio. Attraverso la retorica “dell’invasione” abbiamo normalizzato questa situazione, in cui il mero tornaconto politico seppellisce i diritti umani. Questo è un fattore trasversale, che unisce tutta la politica ed è per questo che ci battiamo affinché il Memorandum venga stracciato. Dal 2018 è in atto una campagna di criminalizzazione del soccorso civile in mare, Mediterranea è nata per aggirare la politica di chiusura dell’Italia, il termine che uso è quello di “Cospirazione del Bene”. Perciò siamo stati investiti da un’inchiesta della Procura di Agrigento per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma non ci hanno fermato.”
In Libia si susseguono scontri armati tra i trafficanti, l’ultimo che risale al 7 ottobre ha lasciato sul campo i corpi carbonizzati di 15 migranti. Il monopolio delle milizie sul traffico ha causato un aumento dei rischi collegati alla traversata in mare e maggiori difficoltà per le attività di soccorso:
“Le operazioni di contrasto dei libici si strutturano su tre livelli. Il primo consiste nell’anticipare il nostro intervento e riportare in Libia i migranti. Il secondo è invece la minaccia diretta ai nostri equipaggi di essere deportati per cercare di farci desistere e allontanare. Questo tipo di intimidazioni sono all’ordine del giorno. Infine, le motovedette libiche con la complicità di La Valletta hanno iniziato a eseguire i push-back anche nella SAR maltese. Tutto questo accade con il supporto diretto della flotta aerea e dei droni di FRONTEX . Abbiamo prodotto delle prove che implicano il coinvolgimento in questo tipo di operazioni anche del moto-trasporto italiano “Caprera” adesso in rada a Tripoli.”
Per ciò che riguarda le testimonianze raccolte in questi anni, il quadro che emerge è estremamente drammatico:
“Le persone che soccorriamo a bordo portano i segni delle violenze subite nei lager libici. In quei campi gli stupri sono sistematici, così come gli omicidi, i pestaggi e le torture. Tutto questo viene reso possibile dai finanziamenti italiani ed europei. Oggi tutti gli undici centri di detenzione presenti nel Paese sono gestiti da bande armate, eppure ciò non ostacolerà minimamente il rinnovo dell’accordo. Paradossalmente, l’unica possibilità di cambiamento consiste proprio l’imminente implosione della Libia. In questi anni il tessuto sociale si è completamente disgregato e la violenza endemica rischia di raggiungere livelli ancor più disperati.”
Sui futuri sviluppi del soccorso in mare e del fenomeno migratorio la posizione di Luca Casarini è netta:
“Oggi la flotta del salvataggio civile europeo sta facendo ciò che gli Stati rifiutano. Grazie all’impegno di Sea Watch abbiamo oggi una flotta aerea che è in grado di individuare le imbarcazioni in difficoltà. Alarm Phone ha allestito un MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) indipendente, che segnala i vascelli in avaria e inoltra le chiamate di aiuto. Non possiamo aspettare che siano gli Stati a cambiare idea. Siamo testimoni della progressiva involuzione delle istituzioni pubbliche europee in materia di diritti. Questa, invece, è la risposta delle società civili del Mediterraneo che stanno elaborando una nuova idea di cittadinanza attiva. Nella stessa Libia ci sono organizzazioni come Refugees in Libya, che lotta in maniera pacifica contro le armi dei trafficanti. Il futuro in cui credo è quello delle istituzioni dal basso, che legano le culture e i popoli del Mediterraneo attraverso l’agire insieme per il bene.”
Il rinnovo automatico del Memorandum, previsto per il 3 novembre, non incontrerà nessun tipo di opposizione. Tuttavia, è cruciale riflettere sul peso storico e umano che tale accordo ha riversato non soltanto sulla società italiana ma sull’idea stessa di Europa. C’è da chiedersi quale sarà il giudizio storico sulle scelte dell’attuale leadership e quali prospettive politiche potrà offrire la democrazia europea di fronte alla tragedia in corso nel Mediterraneo.
Foto in evidenza di Mediterranea Saving Humans
Su Centro Studi e Ricerche IDOS
In Italia gli stranieri incidono più tra i lavoratori (10,0%: 2.257.000 occupati su un totale nazionale di oltre 22,5 milioni nel 2021) che tra la popolazione nel suo complesso (8,8%: 5.194.000 residenti su una popolazione totale di 59 milioni) e, rispetto al 2020, tra gli occupati sono cresciuti del 2,4%.
Inoltre, sebbene siano impiegati per un numero di ore più basso rispetto a quelle che sarebbero disponibili a lavorare (il 19,6% degli occupati stranieri lavora in part time involontario – il 30,6% tra le sole donne – contro 10,4% degli italiani) e in lavori demansionati rispetto al livello di formazione acquisito (ben il 63,8% svolge professioni non qualificate o operaie e la quota di sovraistruiti è del 32,8% – 42,5% tra le sole donne – contro il 25,0% degli italiani), continuano a sostenere in misura rilevante l’economia nazionale.
Da una parte, infatti, vivendo e lavorando in Italia, gli immigrati pagano le tasse, consumano e versano contributi: nel 2020 hanno pagato 5,3 miliardi di euro di Irpef, 4,3 miliardi di Iva, 1,4 miliardi di Tasi e Tari, 2,2 miliardi di accise su benzina e tabacchi, 145 milioni di euro per le pratiche di acquisizione di cittadinanza e di rilascio/rinnovo dei permessi di soggiorno. Inoltre, tra comunitari e non comunitari, hanno versato 15,6 miliardi di euro di contributi previdenziali, contribuendo al sistema pensionistico italiano. Ne deriva che il saldo netto tra uscite economiche (28,9 miliardi) ed entrate (30,2 miliardi) legate all’immigrazione è stato ancora una volta positivo di circa 1,3 miliardi di euro a vantaggio delle casse dello Stato.
Dall’altra parte, gli stranieri in Italia continuano sempre più a fare impresa: le attività imprenditoriali a conduzione immigrata (642.638) costituiscono un decimo del totale (10,6%) e sono cresciute dell’1,8% (+11.481) rispetto al 2020, continuando un trend di ininterrotta espansione pure negli anni di crisi e di pandemia.
A ciò bisogna aggiungere che gli immigrati sono svolgono un’ampia gamma di lavori imprescindibili: sono il 15,3% degli occupati nel settore degli alberghi/ristoranti, il 15,5% nelle costruzioni, il 18,0% in agricoltura e ben il 64,2% nei servizi alle famiglie, dove quasi i due terzi degli addetti sono stranieri. Tutti settori che, in assenza di manodopera straniera, entrerebbero in profonda crisi. Nel caso dell’assistenza alle persone, la gran parte delle famiglie italiane con anziani, minori o disabili sarebbero più sole e prive di aiuto.
Eppure, sebbene contribuiscano in maniera irrinunciabile al benessere collettivo, ne restano sempre più esclusi. Nel 2021 gli stranieri in condizione di povertà assoluta sono saliti, in Italia, a oltre 1 milione e 600mila (+100.000 rispetto al 2020), il 32,4% di tutti quelli residenti in Italia, una quota oltre 4 volte superiore a quella degli italiani (7,2%). E la percentuale di famiglie che non riescono a soddisfare i bisogni essenziali è del 26,3% tra i nuclei misti (con almeno uno straniero) e sale al 30,6% tra quelle di soli stranieri: 5 volte in più che tra le famiglie di soli italiani (5,7%).
Anche la povertà relativa, legata alla capacità di spesa e perciò alla disuguaglianza sociale, colpisce molto più gli stranieri che gli italiani: nel 2021 ha riguardato in tutto 2,9 milioni di famiglie (l’11,1% del totale) ma, rispetto al 2020, l’incidenza di quelle che si trovano in tale stato è passata, tra i nuclei di soli italiani, dall’8,6% al 9,2%; tra quelli misti, dal 26,5% al 30,5%; e, tra quelli di soli stranieri, dal 25,7% a 32,2%, una quota oltre 3 volte superiore a quella delle famiglie di italiani.
Ma, pur in queste maggiori condizioni di indigenza, accedono molto meno degli italiani alle prestazioni di assistenza sociale (mense, trasporti, case popolari, misure di sostegno al reddito ecc.), da cui vengono esclusi attraverso l’introduzione di requisiti illegittimi e arbitrari, da parte di Comuni e istituzioni, come il possesso di un permesso di lungo-soggiorno e una residenza anagrafica almeno decennale. Sono questi i vincoli che hanno limitato ad appena il 12% la quota di stranieri tra i beneficiari del Reddito di cittadinanza, la principale misura nazionale di contrasto alla povertà economica, sebbene gli immigrati siano 3 ogni 10 poveri assoluti in Italia e questa indigenza sia, tra le loro famiglie, 5 volte superiore rispetto ai nuclei italiani.
Ancora oggi, da decenni, vigono per gli stranieri un modello di segregazione occupazionale (per cui lavorano sempre negli stessi pochi comparti, secondo una rigida ripartizione non solo di nazionalità ma anche di genere: le donne per lo più nei servizi domestici e di cura, il 38,2%, e gli uomini nell’industria e nell’edilizia, il 42,4%), una mobilità occupazionale bloccata (anche per chi ha una formazione elevata e tanti anni di attività) e una condizione di estrema precarietà (tra lavoratori a termine, contratti di apprendistato intermittenti e part-time involontari, la quota di lavoratori “non standard” tra gli stranieri è del 34,3% – il 41,8% tra le donne – contro il 20,3% degli italiani).
“Eppure – sostiene Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – se si consentisse loro non solo di lavorare più ore regolarmente, visto che la sottoccupazione cela spesso un contestuale impiego in nero, ma anche di accedere a professioni di più alta qualifica, con contratti più stabili e tutele effettive, sarebbe valorizzato un potenziale ancora oggi mortificato, sebbene quanto mai prezioso in questa fase di crisi globale. Un potenziale che gioverebbe, oltre che agli immigrati, all’intero sistema Paese, dal momento che diminuirebbe l’economia sommersa e l’evasione, aumenterebbe ancor più il gettito in tasse e contributi, renderebbe più transnazionale e competitiva l’economia italiana”.
Il Dossier Statistico Immigrazione 2022, a cura di IDOS, in collaborazione con Centro Studi Confronti e Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, sarà presentato il 27 ottobre, alle 10.30, a Roma presso il Nuovo Teatro Orione (via Tortona 7) e in contemporanea in tutte le Regioni.
Maggiori informazioni sul sito www.dossierimmigrazione.it
Foto in evidenza di Centro Studi e Ricerche IDOS
Di Luca Rondi su Altreconomia
“Le violenze al confine sono nuovamente tornate a crescere. L’utilizzo di spray urticante, pallini di gomma sparati su persone inermi, giovani obbligati a mangiare le sigarette che avevano nello zaino, bambini divisi dai loro genitori. È il solito copione”. Giulia Moretto, attivista di No Name Kitchen (Nnk), descrive così quanto accade sul confine serbo-ungherese: da quella piccola porzione di confine, in cui un’alta rete metallica e un filo spinato separa i due Paesi, migliaia di persone, uomini, donne e bambini, ancora oggi tentano di entrare nell’Unione europea. La “rotta balcanica” -tante vie che collegano la Turchia al sogno europeo- vede il consueto cambiamento nelle traiettorie percorse dalle persone che tentano il game, come viene chiamato il tentativo di attraversamento della frontiera, in base a dove il confine sembra più permeabile. Quello che non cambia, però, sono la violenza e le chiusure realizzate dalle politiche di governi locali ed europei. Sabato 24 settembre la rete RiVolti ai Balcani ha fatto il “punto” su quanto accade nella regione dei Balcani. E non solo.
La “strategia” europea che vuole trasformare il diritto di asilo in un privilegio per chi è abbastanza forte da resistere ai soprusi non è attuata solamente dai Paesi autocratici dell’Est Europa. Così, quanto succede in Turchia, Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Ungheria è collegato alle politiche di esclusione che troviamo anche nel nostro Paese. La “democratica” Italia oggi ostacola infatti sistematicamente l’accesso all’asilo su tutto il territorio. Come ricostruito anche su Altreconomia, chiedere oggi asilo per chi arriva in Italia via terra è un miraggio. “È come se ci fosse una sorta di colpa nel fatto di non essere stati soccorsi in mare o rintracciati nei pressi della frontiera – ha spiegato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics)-. Per chi incontra le forze dell’ordine al suo arrivo l’amministrazione provvede a collocarlo in un centro e permettergli di chiedere asilo, tutti gli altri, invece, si scontrano contro un muro di gomma che è difficile da bucare”.
Da Trieste a Torino, passando per Milano, Piacenza, Roma: il copione si ripete. “È una strategia di deterrenza evidente, non possiamo parlare di inefficienza. Non si fa presentare la richiesta d’asilo alla persona di modo che questa non abbia diritto all’accoglienza nonostante questo sia un diritto previsto dal nostro ordinamento. Tanto che i tribunali amministrativi stanno condannando per inadempienza le questure e le prefetture. In certi casi si va anche oltre: si chiede ai richiedenti asilo di presentare il proprio domicilio. In un paradosso per cui chi dovrebbe darti un tetto su cui stare, te lo chiede”. È la frontiera burocratica, che oggi lascia all’addiaccio migliaia di persone. “Attualmente abbiamo 275 persone in strada che sono richiedenti asilo ma non vengono accolti – racconta Maddalena Avòn, operatrice legale di Ics-. Dov’è lo stato di diritto? Che tutela stiamo offrendo a queste persone? Vivo in prima persona la sensazione di frustrazione per chi, dopo anni di cammino, pensa di aver concluso il viaggio e si ritrova senza nulla”.
Quel che è certo è che non sono i “numeri” a giustificare la difficoltà delle amministrazioni nel disbrigo delle procedure burocratiche. Sono stati circa duemila gli arrivi a Trieste in agosto. Un numero più elevato rispetto ai mesi precedenti che diventa problematico per chi lavora nell’emergenza ma che in termini assoluti resta una briciola per un Paese, l’Italia, che ha tra le percentuali più basse di richiedenti asilo per abitante. Che l’Italia non sia Paese di arrivo ma di transito lo sa bene anche Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese che opera nell’alta Val Susa, a Oulx. Qui, a meno di venti chilometri dal confine, il rifugio Massi fornisce sostegno e un pasto caldo a circa 70 persone a notte. Ad agosto sono transitate circa 800 persone, in prevalenza provenienti da Afghanistan, Iran e Marocco e con un’elevata percentuale di minori stranieri non accompagnati. La polizia francese presidia i confini e respinge chi tenta di attraversare.
“Privazione della libertà personale, mancanza di assistenza legale, impossibilità di mediazione, nessun esame individuale della domanda d’asilo: queste sono le principali violazioni dei diritti di chi vuole raggiungere parenti, amici in un altro Paese dell’Ue -racconta Cociglio-. Chi arriva qui è convinto che non esistano più i confini militarizzati e le barriere che ha incontrato fino al giorno prima di quando non era nel nostro Paese. E invece non è così”. I controlli sono stati ripristinati nel 2015 con la giustificazione delle minacce legate al terrorismo: oggi vengono rinnovati ogni sei mesi da parte del Consiglio di Stato francese, senza motivazioni attuali e in contrasto con quanto previsto dal Codice frontiere Schengen. “Il paradosso è che ha più tutele chi arriva in Francia da un Paese terzo, via aereo, rispetto a chi arriva da un altro Paese dell’Ue. In aeroporto vengono riconosciuti molti più diritti che in frontiera. Il tutto con una base pretestuosa: l’Austria nell’aprile 2022 è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per aver ripristinato per un periodo di tempo troppo lungo i controlli ai confini interni”.
Anche chi si vuole fermare e sceglie di tornare a Torino da Oulx, si scontra contro il “muro di gomma” dell’impossibilità di presentare richiesta d’asilo. Un’impossibilità che si riscontra anche nei porti italiani di Ancona, Venezia e Brindisi. Un altro “tassello” di una strategia di negazione del diritto d’asilo messa in atto dal nostro Paese. “Vengono respinti senza neanche aver messo i piedi sul territorio italiano -dice Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica-. Una volta intercettati sono riconsegnati al comandante della nave che li riporta al punto di partenza. Senza alcuna garanzia”.
Ed ecco il collegamento con quanto succede nei Balcani. Il punto di partenza è a Patrasso, in Grecia, dove le persone vivono la violenza della polizia sistematica verso chi vuole imbarcarsi tentando la traversata in container caricati su navi merci. “Vengono spessi chiusi in celle, a volte anche all’aperto, sotto il sole, e lasciati per ore senza un documento che giustifichi il loro trattenimento. Un ‘segnale’ che la polizia vuole mandare a tutti coloro che sono pronti a imbarcarsi”. Più in generale la Grecia continua a essere un “laboratorio per le politiche securitarie messe in atto dall’Ue”, spiega Andrea Contenta, ricercatore indipendente attivo nel Paese. “Il governo porta avanti una politica di apartheid nei confronti dei migranti. C’è una forte criminalizzazione della solidarietà e il tentativo di cambiare l’ordinamento giuridico per poter utilizzare i fondi dell’Ue per realizzare politiche illegali”.
Risalendo dalla Grecia verso i Balcani occidentali, le rotte percorse da chi è in transito sono cambiate. In Bosnia ed Erzegovina la situazione sembra più “tranquilla” rispetto al passato. Meno respingimenti al confine anche connessi a un cambio di approccio della polizia croata che permetterebbe alle persone di presentarsi nelle stazioni di polizia e ricevere un “foglio di via” con cui poter viaggiare e lasciare il Paese entro sette giorni. “È difficile capire il perché di questo repentino cambio di atteggiamento dal marzo 2022. Sicuramente la vicinanza delle elezioni nel Paese ha un’influenza su tutto questo”, racconta Tamara Cetkovic di Iscos Emilia-Romagna. In Bosnia ed Erzegovina le associazioni incontrano soprattutto famiglie provenienti dal Burundi, che scappano da una situazione molto violenta nel loro Paese, come ricostruito anche da Human rights watch, e che raggiungono in aereo la Serbia e poi tentano di entrare in Ue da diversi confini, oltre che minorenni provenienti da Afghanistan e Pakistan.
Lipa, il campo di confinamento “all’avanguardia” costruito anche dall’Ue, a cui RiVolti ai Balcani ha dedicato uno specifico dossier di approfondimento, oggi conta poche centinaia di presenze e probabilmente verrà sempre più utilizzato come hub per poter aumentare i rimpatri dei migranti verso i Paesi d’origine. Nonostante questo la criminalizzazione della solidarietà continua a colpire. “Il 22 settembre il Service for foreigners affairs del ministro degli Esteri bosniaco ha notificato alla nostra organizzazione uno sfratto per sgomberare una casa entro 48 ore che usiamo come appoggio per immagazzinare il materiale che arriva dalle donazioni -racconta Matilda Zacco di Nnk-. Un atto di intimidazione accompagnato da convocazioni presso le stazioni di polizia per essere interrogati. Sono venuti per trovare un motivo ‘illecito’ per giustificare lo sgombero: non hanno trovato nulla, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto”.
No Name Kitchen è attiva anche in Serbia dove nelle ultime settimane, come detto, si registra un aumento delle violenze. Al confine con l’Ungheria, da un lato, e con la Romania, dall’altro, le persone vengono brutalmente respinte dalla polizia. “È una violenza sistematica -racconta ancora Zacco-. Oltre alla polizia ungherese è presente anche quella austriaca, registriamo infatti moltissimi respingimenti a catena con le persone ‘riportate’ indietro dall’Austria. Abbiamo testimonianze di persone che hanno ricevuto la ‘benedizione’ cristiana e a cui sono state disegnate le croci sulla testa. È una situazione tremenda”. No Name Kitchen stima la presenza di circa 3mila persone nel Nord della Serbia: la difficoltà dell’attraversamento di quel confine, militarizzato e con la presenza di un’alta rete metallica, aumenta anche i profitti per chi contrabbanda i migranti. Il prezzo del confine sale, soprattutto per le famiglie.
Dalla Serbia o dalla Croazia, per chi arriva a Trieste dopo aver attraversato la Slovenia, comincia l’incubo italiano. Le riammissioni, la pagina buia del nostro Paese che ha visto nel 2020 oltre 1.200 persone respinte dal confine orientale verso le violenze della rotta balcanica, sembrano essere interrotte ma permangono gravi violazioni dei diritti. “Sì, è una frontiera in cui l’esercizio dei diritti fondamentali non è garantito -riprende Avòn di Ics- Si verificano situazioni gravi: minorenni registrati come maggiorenni nonostante la presenza di Ong al confine. E poi anche chi viene identificato come minorenne viene lasciato in strada”. Proprio in strada, in piazza della Libertà, continua il lavoro di Linea d’Ombra. “L’aumento degli arrivi e delle richieste degli ultimi mesi ci mette in difficoltà -spiegano Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir-. Questa piazza, la piazza del mondo, resta però il simbolo della resistenza. Di chi vuole cambiare le cose. È un patrimonio che resta di tutti e tutte”.
Di Luigi Ciotti su Lavialibera
La speranza non è reato. Non può essere reato sperare di migliorare le proprie condizioni di vita. Senza speranza non c’è vita ma soltanto sopravvivenza. E a volte neppure quella, quando la situazione intorno è fatta di guerra, carestia, persecuzioni e violenze. Eppure noi pretendiamo di decidere chi ha diritto di sperare, e chi no. Chi ha diritto di vivere, e chi no.La guerra in Ucraina, una sciagurata aggressione militare che in poche settimane ha costretto milioni di persone a lasciare le proprie case per cercare salvezza oltre i confini del Paese, ha smascherato anni di propaganda sul tema dell’immigrazione. La risposta coesa dell’Europa nell’accogliere i profughi e la generosità delle popolazioni, a partire da quelle più prossime al conflitto, ha dimostrato ciò che alcuni sostenevano, inascoltati, da sempre: quando c’è la volontà politica di salvare vite, e mettere la vita umana al primo posto, tutto diventa possibile.
In un tempo veramente breve, la solidarietà nei confronti delle persone in fuga ha consentito di dare efficacia a norme rimaste a lungo sulla carta, di superare vincoli sanitari e burocratici che sembravano insormontabili, di trovare accordi economici e far dialogare pubblico e privati in vista di un migliore coordinamento. Soprattutto, ha messo a tacere chi era abituato a definire “emergenza” l’arrivo, ogni anno, di poche migliaia di disperati attraverso le rotte pericolose del Mediterraneo o dei Balcani. Poiché si è visto che, anche di fronte a numeri ben maggiori, è possibile trovare spazi e costruire condizioni di accoglienza dignitose.
È partita allora la gara dei distinguo, delle classifiche di cosa è più guerra, di chi è più profugo, di quali situazioni sono disperate davvero e meritano la nostra mobilitazione. E poi, magia, si è smesso semplicemente di parlarne, come del resto è molto calata l’attenzione sul conflitto ucraino, non diversamente da quanto accaduto a tutti gli altri conflitti che pure continuano a provocare morte e devastazione nel mondo.
Intanto, i disperati cui si nega il diritto di sperare non hanno smesso di affrontare le rotte di morte del mare e dei monti, trovando sempre le stesse porte chiuse, le stesse leggi selettive, la stessa disumanità. Di fronte a famiglie che con dedizione hanno accolto donne e bambini, investendo spazi privati, soldi e cuore. Di fronte ad associazioni che hanno messo in gioco le loro risorse sempre scarse, pur di rispondere al bisogno di protezione dei più fragili. Di fronte a un sistema scolastico che immediatamente si è attivato per far sentire a casa i piccoli arrivati col trauma della guerra, non è mancato chi ha speculato e ha visto nell’accoglienza un’occasione di tornaconto personale, a livello economico e di immagine. Così, se prima si monetizzava consenso sulla paura dei profughi, subito dopo lo stesso consenso si è monetizzato su una frettolosa pietà nei loro confronti. Quanta ipocrisia e quanto cinismo, mascherati da solidarietà.
Sperare non è reato, ma c’è chi auspica che lo diventi. Mentre scrivo questo articolo, tornano alla ribalta proposte già rivelatesi fallimentari in passato: blocchi navali, decreti sicurezza, respingimenti. E intanto governi illiberali – come Turchia, Egitto, Libia – riescono a condizionare gli equilibri internazionali, mercificando la speranza dei diseredati e la paura di chi vede a rischio i propri privilegi. Tengono in ostaggio migliaia di esseri umani che l’Europa non vuole e in cambio di questo “favore” pretendono soldi e la libertà di reprimere qualsiasi opposizione interna.
Sperare non è reato, ma su quella speranza quanti reati si compiono! Dai trafficanti di esseri umani ai caporali, dai gestori corrotti dei meccanismi di accoglienza ai politici che usano il tema come un’arma elettorale. Il tutto a scapito di chi si muove onestamente per salvare vite e costruire opportunità durevoli, rispettose dei bisogni, dei legami e delle aspirazioni della gente.Sperare non è reato, e noi continuiamo a sperare che questo concetto sacrosanto venga tradotto in politiche lungimiranti e leggi che guardano altrettanto lontano. Non è solo un problema di immigrazione, del resto.
Pensiamo alle norme sullo ius soli – delle quali lavialibera si è occupata qualche numero fa – che non riguardano persone migranti ma giovani nati qui, italiani di fatto. Pensiamo alle sacche di povertà e illegalità in cui vengono lasciate campare comunità di diversa origine: dagli insediamenti informali di famiglie rom alle baraccopoli dei lavoratori stagionali, come se fossero realtà extraterritoriali, fuori dalla nostra giurisdizione, e dove si interviene, se si interviene, perlopiù in maniera repressiva.Pensiamo anche solo al diverso taglio che viene dato alle notizie, specie quelle tragiche: quando a morire in un incidente è un agiato turista straniero oppure uno straniero immigrato, quando a compiere un delitto è un italiano contro uno straniero o viceversa. Il razzismo strisciante che detta i titoli dei giornali in molti casi è lo stesso razzismo applicato ai flussi migratori o alle politiche di integrazione: tu sì e tu no, tu mi somigli mentre a te non voglio correre il rischio di somigliare mai.La speranza non è reato, mentre sarebbe da introdurre il reato di “selezione delle speranze”. La presunzione che abbiamo di definire il grado di felicità e pienezza a cui può aspirare ciascuna vita, in base al luogo di nascita e alla cultura di appartenenza. Non lasciamo che su questo come su altri temi a fare la differenza sia l’indifferenza.
Di Stefano Vecchia su Avvenire
Crescono gli schiavi moderni. Un nuovo rapporto dovuto alla collaborazione tra l’Organizzazione internazionale del Lavoro (Oil), quella per le Migrazioni (Oim) e Walk Free, organizzazione australiana impegnata nel contrasto all’asservimento di esseri umani, traccia in modo aggiornato le coordinate della serie di fenomeni di abuso e sfruttamento che definiscono il fenomeno. Il contenuto del Global estimates of modern slavery report, presentato ieri a Ginevra, è allarmante: dal 2016, ci sono dieci milioni di “nuovi schiavi” in più, per un totale di 49,6 milioni di «nuovi schiavi», il 54 per cento sono donne. Una umanità disperata che si suddivide in due grandi gruppi: quello costretto ai lavori forzati in un gran numero di attività disagiate, pericolose, degradanti, inclusa la prostituzione – 27,6 milioni –; e quello dei 22 milioni di donne costrette a matrimoni forzati.
Una moltitudine che non ha un orizzonte sicuro a cui guardare, perché la nuova schiavitù è diffusa in quasi ogni Paese e colpisce e assoggetta soprattutto i soggetti più deboli e indifesi: gruppi minoritari o emarginati, donne, bambini. I minori sono almeno il 3,3 per cento dei lavoratori forzati, costretti per oltre la metà a sottostare allo sfruttamento sessuale. In un mondo in cui le diseguaglianze si acuiscono, a farne le spese sono spesso ancora oggi gli “ultimi” di ogni realtà. Il paradigma, però, va cambiando.
Il rapporto evidenzia come il 52 per cento del lavoro forzato e un quarto di tutti i matrimoni forzati si ritrovino oggi in Paesi a reddito-medio alto e non a caso – precisa il documento –, i lavoratori migranti hanno una probabilità più che tripla di essere schiavizzati rispetto ai colleghi di cittadinanza locale. La ragione è evidente: privi di documenti, sono facilmente ricattabili, data la condizione di estrema necessità. Gli “schiavi moderni” sono, dunque, invisibili. E il fenomeno si fa sempre più trasnazionale.
Anche per questo il direttore generale dell’Ilo, Guy Ryder, nel presentare il rapporto ha parlato della schiavitù moderna come di «una realtà sconvolgente» la cui persistenza non si può giustificare. Il suo omologo dell’Iom, António Vitorino ha confermato che «sappiamo cosa bisogna fare e sappiamo che si può fare. Politiche e normative nazionali efficaci sono fondamentali, ma i governi non possono farlo da soli.
Le norme internazionali forniscono una base solida ed è necessario un approccio che coinvolga tutti». Una realtà globale va affrontata con strumenti globali e senza indugio perché «l’urgenza è di garantire che tutte le migrazioni siano sicure, ordinate e regolari». Per Grace Forrest, fondatrice e direttrice di Walk Free, occorre che i governi si impegnino però maggiormente e in modo coerente perché «in un periodo di crisi interconnesse, una vera volontà politica è la chiave per porre fine a queste violazioni dei diritti umani».
Nelle raccomandazioni finali il rapporto insiste sull’applicazione delle norme per la sicurezza e la garanzia del lavoro e sull’impegno a mettere fine al lavoro forzato promosso dallo Stato dove questo persiste. Il documento, infine, chiede di estendere la protezione sociale e rafforzare le tutele legali, in particolare delle donne, per cui è labile il confine tra lavoro forzato e matrimonio forzato. In questo senso, l’innalzamento universale dell’età legale per il matrimonio a 18 anni resta un impegno da perseguire con ferma determinazione.
Immagine di Agenzia Ansa
Ricevi aggiornamenti iscrivendoti qui:
Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.
Controlla la tua casella di posta o la cartella spam per confermare la tua iscrizione
Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
Le migrazioni nel 2021, il nuovo fact-checking di Ispi
© 2014 Carta di Roma developed by Orange Pixel srlAutorizzazione del Tribunale di Roma n° 148/2015 del 24 luglio 2015. - Sede legale: Corso Vittorio Emanuele II 349, 00186, Roma. - Direttore responsabile: Domenica Canchano.