Su Voci Globali
Con l’avvicinarsi dell’autunno, l’Europa è in fermento su come affrontare la probabile interruzione delle forniture di gas dalla Russia. La tragedia umanitaria che da un anno continua a consumarsi lungo le frontiere orientali dell’Unione, invece, sembra essere già stata dimenticata. Il protrarsi del conflitto ucraino ha spostato l’attenzione dei media occidentali dalle foreste polacche al confine con la Bielorussia. Dove tuttora, persone provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente tentano di raggiungere l’UE affrontando violenze e abusi.
Il perdurare delle tensioni tra l’Unione Europea da una parte e Mosca e i suoi alleati dall’altra, rischia di causare un nuovo picco di tensione lungo il confine polacco. Dopo dieci mesi di stato di emergenza sulla frontiera nord-orientale, quest’estate il Governo polacco ha annunciato il completamento di un muro di recinzione altamente militarizzato, al fine di scoraggiare nuovi tentativi di ingresso. Con l’inverno alle porte, il rischio di rivedere scene strazianti come quelle dello scorso anno è assai reale. La costruzione del muro segue la decisione della Polonia di impedire qualsiasi ingresso dalla Bielorussia, violando apertamente il diritto al non respingimento e all’asilo.
I fatti relativi alla crisi umanitaria nelle foreste tra Polonia e Bielorussia affonda le proprie radici nei fatti dell’agosto 2021. Un gruppo di 32 richiedenti asilo, composto in maggioranza da afghani, rimasero intrappolati nelle foreste della Polonia orientale. Le autorità locali si opposero al loro ingresso, negando loro la possibilità di presentare una richiesta di protezione. Ogni tentativo di soccorso da parte di volontari e associazioni umanitarie venne ostacolato da Varsavia. La situazione precipitò quando il presidente Andrzej Duda dichiarò lo stato di emergenza. Oltre ai maltrattamenti e alle violenze subite dalle guardie di frontiera bielorusse, le temperature rigide e la mancanza di aiuti causarono sofferenze incalcolabili.
La rotta orientale si è consolidata grazie alla connivenza tra le agenzie, gli intermediari e le autorità di Minsk. Difatti, il regime di Lukashenko, lucrando sulla pelle dei migranti, ha deciso di strumentalizzare il fenomeno migratorio come mezzo di pressione contro l’Unione Europea. L’UE ha pertanto accusato la Bielorussia di utilizzare i migranti come potenziale arma ibrida e ha assicurato il proprio sostegno alla Polonia e ai Paesi Baltici. Ne è conseguito un tacito accordo sulla costruzione di recinzioni militarizzate ai confini e sulle restrizioni al diritto d’asilo e di circolazione. In questo modo, le denunce e gli inviti a intervenire da parte di associazioni come Medici Senza Frontiere e Human Rights Watch sono rimasti pressoché inascoltati.
Dal 2021 a oggi, la Polonia ha portato avanti una politica di respingimenti indiscriminati. Oltre a ciò, lo Stato polacco ha criminalizzato qualsiasi tipo di attivismo e supporto diretto ai migranti come quello dell’associazione locale Grupa Granica. In aggiunta alle truppe dispiegate lungo il confine, Varsavia ha richiesto l’intervento della controversa Agenzia Europea della Guardia Costiera e di Frontiera (FRONTEX), criticata per il suo ruolo nei respingimenti nel Mediterraneo centrale. Per tutto il 2022 sono emerse prove e testimonianze che accusano le autorità di frontiera polacche, assieme a quelle bielorusse, di brutalità e soprusi.
Già l’11 novembre 2021 era stata documentata l’apertura del fuoco da parte dei polacchi nel tentativo di disperdere i migranti. Al contempo, violenze, furti e crudeltà ingiustificate come la separazione di interi nuclei familiari sono proseguite nel silenzio complice di Bruxelles. Soltanto nel mese di novembre 2021 si contavano 13 persone decedute. Oggi, i decessi confermati si sono fermati a 21, ma la possibilità di ottenere dati certi e imparziali è alquanto remota. Difatti, Varsavia non ha mai fornito cifre esatte sul numero di migranti che hanno tentato di attraversare il confine. Se da una parte Minsk ha dichiarato la presenza di 7000 migranti nel Paese, dall’altra parte, le autorità polacche hanno documentato 30.000 tentativi di ingressi irregolari.
Ma veniamo ai nostri giorni. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha fatto passare in secondo piano l’emergenza lungo la frontiera bielorussa. A partire dal 24 febbraio scorso i rifugiati provenienti dalle zone sotto attacco hanno potuto contare sugli aiuti da parte dei Paesi europei limitrofi. Tuttavia, la disponibilità e rapidità con cui ha reagito il Governo polacco si è dimostrata diametralmente opposta rispetto a quanto fatto sulla frontiera bielorussa. Ciò non ha fatto altro che palesare il carattere razzista della gestione polacca ed europea delle migrazioni nella regione.
Riguardo a tale aspetto, Voci Globali ha raccolto la testimonianza diretta sul campo di Benedetta Pisani, social worker e reporter freelance, creatrice del progetto Gr8humans. Benedetta, nel marzo 2022 ha partecipato a una spedizione umanitaria organizzata da Il Pulmino Verde lungo la frontiera Ucraina:
“Il nostro è stato un viaggio di soccorso. Ci siamo concentrati sulla consegna di materiale sanitario e sull’acquisto in loco di ciò che era necessario per l’attività di accoglienza e soccorso per chi fuggiva dall’Ucraina. L’impressione che ho avuto fin dal primo momento è stata quella di un caos organizzato.”
“In poco tempo sono sorte strutture di accoglienza nei piccoli villaggi e nelle città di frontiera, capaci di accogliere numeri consistenti di rifugiati. Nella nostra seconda tappa a Jarlsaw abbiamo consegnato gli aiuti a Unitatem, un’organizzazione locale. Ad oggi hanno completato quattro strutture, di cui l’ultima può ospitare 700 persone.”
I casi di persone razzializzate e discriminate al confine con l’Ucraina sono ben noti dall’inizio della guerra. Anche il Pulmino Verde ne ha potuto constatare gli effetti:
“L’ultima tappa è stata Korczowa, situata a 70 km da Leopoli. Abbiamo visitato una struttura di accoglienza situata in un vecchio centro commerciale. I centri che avevamo visto in precedenza erano gremiti di volontari e troupe televisive. Qui, al contrario, c’era la sensazione di essere di fronte a rifugiati di serie B.“
“La struttura era a dir poco fatiscente e di scarsa qualità. La maggior parte delle persone presenti nel campo facevano parte della comunità rom e vi erano gruppi consistenti di persone provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente. Erano tutti accomunati dal fatto di non avere documenti riconosciuti dallo Stato polacco. Non potevano tornare indietro e allo stesso tempo non vi era alcuna possibilità di essere ammessi in Polonia. Il centro era più simile ad una struttura destinata ai rimpatri. Il personale dell’ambasciata uzbeka presente nel campo si occupava proprio di questo.“
Riguardo alla differenza di percezione tra la situazione sul confine bielorusso e quella sulla frontiera ucraina, la presenza di un doppio standard è lampante:
“A Przemyśl, la prima città che si incontra venendo dall’Ucraina, abbiamo visto stazioni colme di volontari che si occupavano di dare informazioni, soccorrere e rifocillare i rifugiati. Vi erano anche associazioni che si occupavano di accudire gli animali domestici che viaggiavano con le famiglie. Purtroppo, la straordinaria rete di solidarietà e accoglienza che abbiamo osservato non c’è stata per chi tentava di arrivare dalla Bielorussia.“
“Nel Sud della Polonia, l’Europa si è dimostrata accogliente e ha aperto le proprie porte a chi ne aveva bisogno senza alcun timore. A Nord invece, è stato costruito un muro di sorveglianza per respingere uomini donne e bambini in fuga da instabilità, povertà e violenza. Mi sono chiesta il perché di questa differenza di trattamento e per quale motivo il razzismo continui a essere sistemico nelle politiche comunitarie europee. Non sono riuscita a dare una risposta.“
Le notizie strazianti relative alla frontiera bielorussa, come altre in passato, sembrano aver destato l’interesse dell’opinione pubblica soltanto per un breve periodo. Come per la rotta balcanica, l’interesse si è rivolto verso questioni più vicine alla sensibilità attuale della popolazione europea. La risposta positiva e solidale nei confronti dei rifugiati ucraini pare aver seppellito quanto accaduto pochi mesi prima a nord del confine. Per contro, le foreste della Polonia orientale continueranno ad essere teatro di soprusi e violenze, che andranno ad aggiungersi silenziosamente alla devastazione e al dolore che affligge la regione.
Su Redattore Sociale
“Uomini, donne e bambini in fuga dall’Afghanistan sono stati ripetutamente respinti dalle forze di sicurezza dell’Iran e della Turchia, che hanno anche aperto il fuoco contro di loro”. È la denuncia contenuta in un rapporto di Amnesty International che riferisce di numerose occasioni in cui, soprattutto al confine con l’Iran, le forze di sicurezza locali hanno sparato alle persone che cercavano di scavalcare muri o di strisciare sotto le trincee. Coloro che riescono a entrare in Iran e in Turchia vengono regolarmente arrestati e sottoposti a maltrattamenti e torture prima di essere rimpatriati illegalmente e con la forza.
Una missione di ricerca di Amnesty International ha visitato l’Afghanistan nel marzo 2022 intervistando, nelle città di Herat e Islam Qala, 74 afgani respinti dall’Iran e della Turchia, 48 dei quali raggiunti da colpi di arma da fuoco. Nessuna di queste persone è riuscita a chiedere asilo nei due stati e la maggior parte di esse è stata rimandata in Afghanistan in violazione del diritto internazionale.
“Un anno dopo la fine delle evacuazioni attraverso il ponte aereo, molte delle persone rimaste in Afghanistan rischiano la loro vita nel tentativo di lasciare il paese. Coloro che hanno raggiunto la frontiera iraniana e turca sono stati respinti con la forza, anche con armi da fuoco. Dall’agosto 2021 le forze di sicurezza iraniane hanno ucciso e ferito decine di afgani, persino sparando ripetutamente contro automobili stracariche di persone. Le guardie di frontiera turche, a loro volta, hanno usato proiettili veri, non solo sparando in aria ma a volte anche colpendo le persone – ha dichiarato Marie Forestier, ricercatrice di Amnesty International sui diritti delle persone migranti e rifugiate -. Ma i pericoli non finiscono alla frontiera. Molti afgani con cui abbiamo parlato sono stati arrestati, sia in Turchia che in Iran, e sottoposti a maltrattamenti e torture prima di essere illegalmente rimpatriati. Chiediamo alle autorità turche e iraniane di porre immediatamente fine ai respingimenti e ai rimpatri degli afgani, di cessare di sottoporli a maltrattamenti e torture e di garantire ingressi sicuri e accesso alle procedure d’asilo a tutti gli afgani che chiedono protezione. Chiediamo inoltre che sia posta fine all’uso illegale delle armi da fuoco contro gli afgani alla frontiera e che i responsabili delle violazioni dei diritti umani nei loro confronti, comprese uccisioni e torture, siano chiamati a rispondere delle loro azioni”.
Oltre alle richieste a Iran e Turchia, Amnesty International ha sollecitato la comunità internazionale a fornire sostegno finanziario e materiale agli stati che ospitano un gran numero di afgani, inclusi Iran e Turchia. Nel farlo, la comunità internazionale dovrà però evitare di contribuire a violazioni dei diritti umani: l’Unione europea ha già erogato fondi alla Turchia per costruire un nuovo muro alla frontiera con l’Iran nonché svariati centri di espulsione nei quali si trovano molti afgani. Altri stati dovrebbero aumentare le opportunità di reinsediamento per gli afgani che necessitano di protezione internazionale.
Amnesty ricorda che dal ritorno dei talebani al potere, nell’agosto 2021, centinaia di migliaia di afgani hanno lasciato il paese. “Gli stati confinanti hanno chiuso le frontiere alle persone prive di documenti di viaggio, non lasciando loro altra scelta se non cercare di entrare irregolarmente: ad esempio, strisciando sotto le trincee nei pressi di un posto di frontiera ufficiale nella provincia di Herat o scavalcando un muro alto due metri in quella di Nimroz”.
“Coloro che non vengono immediatamente arrestati dalle guardie di frontiera iraniane si dirigono verso altre città dell’Iran o al confine con la Turchia, situato a circa 2000 chilometri di distanza. Sia al confine tra Afghanistan e Iran che a quello tra Iran e Turchia, queste persone vengono sottoposte a respingimenti violenti e illegali: dalla Turchia verso l’Iran, dall’Iran, verso l’Afghanistan”.
I ricercatori di Amnesty International si sono recati in Afghanistan e in Turchia nel marzo e nel maggio 2022. Hanno intervistato personale medico, operatori delle Ong, funzionari afgani e 74 persone che dall’Afghanistan avevano cercato di entrare in Iran o in Turchia, a volte sole e a volte in gruppo, in alcuni casi attraverso più tentativi. In tutto, Amnesty International ha documentato 255 casi di rimpatrio illegale tra marzo 2021 e il maggio 2022, solo due dei quali avvenuti prima del ritorno al potere dei talebani.
Amnesty International ha intervistato i parenti di sei adulti e di un ragazzo di 16 anni uccisi, tra l’aprile 2021 e il gennaio 2022, dalle forze di sicurezza iraniane mentre cercavano di varcare il confine. In tutto, l’organizzazione ha documentato 11 uccisioni del genere ma ritiene che il totale possa essere assai più alto. “La mancanza di procedure attendibili di segnalazione rende difficile affidarsi alle poche statistiche pubbliche – afferma l’organizzazione -. Operatori umanitari e medici afgani hanno registrato almeno 59 uccisioni e 31 ferimenti solo tra agosto e dicembre 2021”.
Ghulam ha raccontato in che modo suo nipote, di 19 anni, è stato ucciso nell’agosto 2021: “È arrivato al muro della frontiera, si è arrampicato e appena ha alzato la testa sopra la cima, gli hanno sparato alla tempia sinistra. È caduto a terra sul lato afgano del confine”.
Alcune delle uccisioni sono avvenute all’interno del territorio iraniano. Sakeena, 35 anni, ha raccontato com’è stato ucciso suo figlio, di 16 anni, mentre si stavano allontanando dalla frontiera: “Ho sentito le sue grida. Due proiettili lo avevano colpito alle costole. Non so cos’è accaduto subito dopo, perché sono svenuta. Quando ho ripreso conoscenza ero in Afghanistan. Mio figlio era morto: il suo corpo era accanto a me su un taxi”.
Amnesty International ha intervistato 35 afgani che avevano cercato di entrare in Turchia: di questi, 23 hanno denunciato di essere stati oggetto di colpi d’arma da fuoco. Un afgano ha riferito di aver visto tre ragazzi uccisi dalle forze di sicurezza turche, un altro del ferimento di sei adulti e tre ragazzi. Altre due delle persone intervistate hanno riportato ferite.
Aref, un ex funzionario dell’intelligence afgana fuggito dopo aver ricevuto minacce di morte dai talebani, ha raccontato: “Sparavano contro di noi, non in aria. Hanno ferito una donna e due bambini: uno di due anni a un rene, uno di sei anni a una mano. Ero terrorizzato”.
Secondo Amnesty, “nessuna delle persone uccise o ferite costituiva un’immediata minaccia nei confronti delle forze di sicurezza o di altre persone, tantomeno stava ponendo in essere una minaccia di morte o di ferimento grave: ciò significa che l’uso delle armi da fuoco è stato illegale e arbitrario. In alcuni casi, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco con l’intenzione di uccidere, ad esempio sparando da distanza ravvicinata ad altezza d’uomo”.
“Ogni uccisione causata dall’uso deliberato e illegale delle armi da fuoco da parte di agenti dello stato dev’essere indagata come possibile esecuzione extragiudiziale”, ha commentato Forestier. In Iran un clima di sistematica impunità circonda torture, esecuzioni extragiudiziali e uccisioni illegali di massa. Amnesty International continua a chiedere al Consiglio Onu dei diritti umani di istituire un meccanismo indipendente d’indagine e di accertamento delle responsabilità che raccolga e analizzi prove dei più gravi crimini di diritto internazionale commessi in Iran, anche nei confronti degli afgani sottoposti a respingimento, per consentire futuri procedimenti giudiziari.
Quasi tutte le persone intervistate da Amnesty International e che erano state intercettate una volta entrate in Iran o in Turchia sono state fermate arbitrariamente. Gli arresti sono durati da uno o due giorni a due mesi e mezzo. Ventitré persone arrestate in Iran hanno denunciato maltrattamenti e torture, lo stesso hanno fatto 21 persone arrestate in Turchia.
Questo è il racconto di Hamid, picchiato insieme a un suo amico in Turchia: “Uno dei poliziotti ha picchiato il mio amico col calcio della pistola, poi gli si è seduto sopra come se fosse una sedia. Poi ha picchiato me, sulle gambe, sempre col calcio della pistola”. Molte delle persone intervistate da Amnesty International sono state arrestate in Iran dopo essere state ferite a colpi d’arma da fuoco. Amir è stato ferito alla testa dalle forze di sicurezza turche; una volta rimandato in Iran, è stato arrestato da quelle iraniane che lo hanno picchiato, sempre sulla testa: “Mi hanno picchiato dove ero stato già ferito e la ferita ha ripreso a sanguinare. Chiedevo che non mi picchiassero sulla testa. La guardia mi ha chiesto di indicargli il punto esatto in cui ero stato già ferito e quella mi ha picchiato proprio lì”.
Undici afgani rimandati illegalmente in Iran dalla Turchia erano stati trattenuti in uno dei sei “centri per l’allontanamento” parzialmente finanziati dall’Unione europea. “La Commissione europea deve assicurare che i finanziamenti dati alla Turchia in tema di asilo e immigrazione non contribuiscano a violazioni dei diritti umani. Se l’Unione europea continuerà a finanziare i centri di espulsione dove gli afgani vengono trattenuti prima di essere illegalmente rimandati indietro, rischierà di essere complice di queste gravi violazioni”, ha sottolineato Forestier.
Nessuna delle persone intervistate da Amnesty International ha potuto registrare la richiesta di protezione internazionale in Iran o in Turchia. Tutte hanno cercato di dire alle autorità che in caso di ritorno in Afghanistan avrebbero rischiato di subire violazioni dei diritti umani, ma le loro paure sono state ignorate.
“Dopo aver negato la protezione internazionale, le forze di sicurezza iraniane hanno trasferito in autobus i detenuti verso il confine afgano – racconta Amnesty International -. Quelle turche li hanno riportati ai punti d’ingresso irregolari lungo il confine con l’Iran. Dieci persone sono state riportate dalla Turchia in Afghanistan in aereo. Nel gennaio 2022 le autorità turche hanno ripristinato i voli charter verso l’Afghanistan. Alla fine di maggio hanno annunciato che in questo modo erano stati rimpatriati 6805 cittadini afgani”.
Tutte le persone intervistate hanno dichiarato di aver lasciato la Turchia e l’Iran sotto coercizione. Molte, dopo aver appreso il loro destino, piangevano e svenivano. Una ha tentato il suicidio gettandosi da una finestra. Otto persone rimandate in Afghanistan con un volo charter hanno raccontato ad Amnesty International di essere state costrette a firmare un documento in cui dichiaravano che stavano lasciando la Turchia volontariamente. Uno di loro ha raccontato: “Ho detto loro che in Afghanistan rischiavo la vita. Non gli è interessato. Mi hanno picchiato, spinto contro una parete e fatto cadere a terra. Due agenti mi hanno bloccato le gambe, un altro mi si è seduto sul petto. Altri due hanno messo i miei pollici sul foglio di carta”.Queste testimonianze confermano le conclusioni di precedenti ricerche di Amnesty International sui ritorni “volontari” dalla Turchia. “Il principio internazionale del non respingimento vieta agli stati di rimandare una persona in un territorio nel quale sia a rischio di persecuzione o di altre gravi violazioni dei diritti umani. Sollecitiamo le autorità turche e iraniane a rispettare i loro obblighi e a porre fine ai rinvii in Afghanistan di persone in pericolo. Chiediamo alla comunità internazionale di organizzare percorsi sicuri ed evacuazioni per gli afgani che sono a rischio e di avviare una risposta coordinata per condividere le responsabilità dell’accoglienza dei rifugiati afgani”, ha concluso Forestier.
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Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
Sono 41.506 i migranti sbarcati in Italia nei primi otto mesi dell’anno. Undicimila in più rispetto al 1 agosto dello scorso anno, quando erano 29.350. Al primo posto nelle nazionalità di provenienza c’è la Tunisia (7.513), seguono Egitto (6.663), Bangladesh (6.151), Afghanistan (3.308) e Siria (2.370). I minori non accompagnati sono 4.345, in calo rispetto ai 10.053 dello stesso periodo del 2021. Eppure l’aumento generale degli sbarchi è già al centro della campagna elettorale in vista del voto del prossimo 25 settembre. Non a caso, il leader della Lega Matteo Salvini ha scelto Lampedusa tra le prime tappe del suo tour. Ma l’Italia è davvero di fronte a un’emergenza immigrazione?
Stando ai numeri, “l’aumento c’è ma è un aumento relativo, cioè su numeri bassi: parliamo di 40mila persone rispetto ai 29mila dello scorso anno. Basti pensare che tra il 2014 e il 2017 a fine luglio gli arrivi erano intorno ai 90-95mla- spiega Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) -. La ripresa degli sbarchi dipende dal periodo estivo, dal mare particolarmente calmo. Inoltre, la situazione in Libia è peggiorata, i migranti sono sempre di più vittime di violenze, abuse e violazioni dei diritti umani. E c’è un sistema di controllo del territorio meno efficace rispetto al passato, chi può fuggire dalla Libia cerca di farlo e può farlo”. Non solo, ma sul totale degli arrivi incide anche la rotta turco-calabra, attraverso la quale arrivano anche molti afgani in fuga dal regime dei talebani. “Il problema non è nei numeri, le persone fuggono per le condizioni in cui si trovano a stare, anche chi parte come migrante economico arrivato in Libia diventa un soggetto vulnerabile perché nel paese di transito subisce violazioni dei diritti umani ed è spesso vittima di tortura e tratta – aggiunge Di Giacomo -. C’è poi una situazione difficile in Tunisia e in Egitto”.
E poi c’è la questione dell’isola di Lampedusa, ormai da anni in perenne “emergenza” durante la stagione estiva. Qui arrivano per la maggior parte persone con sbarchi autonomi, cioè non intercettati in mare dalle navi della marina militare italiana o delle ong. Secondo i dati dell’Osservatorio Lampedusa di Mediterranean Hope, il progetto della Federazione delle Chiese evangeliche, sul totale di 41mila arrivi circa la metà (ventimila) è stato registrato a Lampedusa. Di questi novemila sono avvenuti nel solo mese di luglio anche per le condizioni meteomarine particolarmente favorevoli.
“Il mare è buono e le persone si mettono in mare. E continueranno a farlo: è una situazione che vediamo ripetersi ogni anno. Ma parliamo di numeri piccoli anche se comparati agli arrivi di questi mesi dei profughi dall’Ucraina – spiega Giovanni D’Ambrosio, operatore di Mediterranean Hope che lavora sull’isola siciliana -. In queste settimane abbiamo visto arrivare anche molte famiglie con minori o minori non accompagnati. In particolare dalla Tunisia arrivano persone stremate dalla crisi in corso del paese, non vedono più alcuna prospettiva di futuro e lì. Dall’Egitto invece vediamo arrivare persone che fuggono da un governo autoritario. Molti ci hanno detto di aver provato a ottenere un visto, non ci sono riusciti e l’unica alternativa è stata quella di prendere il mare e mettersi in pericolo”.
Per Mediterranean Hope, Lampedusa non può diventare il punto in cui vengono fatti convergere i flussi migratori del Mediterraneo centrale, “non ha i servizi idonei per far fronte alle vulnerabilità e alle esigenze dei migranti che arrivano” spiega ancora D’Ambrosio. L’hotspot, infatti, reso inagibile da un incendio negli anni scorsi, ha una capienza massima che si aggira intorno ai 300 posti, ma nelle scorse settimane le presenze hanno sfiorato anche le mille unità. Con il sovraffollamento le condizioni di accoglienza erano al limite: con famiglie e bambini costretti a dormire fuori, carenza di servizi igienici e scarsità di cibo. Per questo le organizzazioni chiedono che venga organizzato un sistema di trasferimenti rapidi dall’isola alla terraferma. “L’emergenza è in Libia, in Tunisia, nel Mediterraneo centrale. Noi operiamo qui dal 2014 e continuiamo a ribadire che le soluzioni si possono trovare: corridoi umanitari, accesso a vie sicure e legali e sostegno a chi salva la vita in mare. A Lampedusa bisogna attivare trasferimenti veloci, con le navi o attraverso ponti aerei”.
L’altra emergenza invisibile è quella delle morti in mare. Circa 700 i dispersi nei primi mesi dell’anno. Per questo le ong che operano per il salvataggio in mare (Sos Mediterranèe, Medici Senza Frontiere e Sea-Watch) hanno lanciato un appello per chiedere con urgenza l’avvio di un’attività di ricerca e soccorso (SAR) gestita a livello europeo nel Mediterraneo centrale.
Da una settimana la Geo Barents, nave umanitaria, attende l’indicazione di un porto sicuro con 659 persone a bordo. “Il mancato impegno a livello europeo di un’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, oltre ai ritardi nell’assegnazione di un luogo sicuro di sbarco, hanno minato l’integrità e la capacità del sistema di ricerca e soccorso e quindi la possibilità di salvare vite umane – spiegano le ong -. Sebbene abbiamo sempre cercato di coordinare le nostre operazioni, come previsto dal diritto marittimo, le autorità navali libiche non hanno quasi mai risposto, trascurando il loro obbligo legale di coordinare l’assistenza. Inoltre, quando intervengono e intercettano le imbarcazioni in difficoltà, le autorità libiche rimpatriano sistematicamente e forzatamente i sopravvissuti in Libia, un paese che secondo le Nazioni Unite non può essere considerato un luogo sicuro.
Nonostante la grave mancanza di adeguate risorse per la ricerca e il soccorso in questo tratto di mare, le persone continuano a fuggire dalla Libia via mare, rischiando la vita per cercare salvezza. Nella stagione estiva, quando le condizioni meteorologiche sono più favorevoli per tentare un viaggio così pericoloso, le partenze dalla Libia sono più frequenti ed è quindi necessaria una flotta di ricerca e soccorso adeguata”.
La richiesta è di mettere a disposizione una flotta adeguata di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale gestita a livello istituzionale, e che fornisca una risposta tempestiva e adeguata a tutte le richieste di sos, unitamente a una pianificazione degli sbarchi dei sopravvissuti.
Foto in evidenza di Francesco Malavolta su Redattore Sociale
Di Alessandro Luparello su Voci Globali
La sera del 30 giugno, tra i tanti viaggiatori in movimento per lavoro o per vacanza, sono sbarcati a Fiumicino anche 95 rifugiati in arrivo grazie a un (raro) corridoio umanitario dalla Libia. Si tratta di 95 persone provenienti dall’Africa sub-sahariana e dal Medio Oriente, prevalentemente da Eritrea, Etiopia, Somalia, Sud Sudan e Siria, persone che in Libia hanno subito “orrori inimmaginabili”: torture, violenze, sfruttamento, stupri e trattamenti inumani e degradanti all’interno e all’esterno dei campi di detenzione co-finanziati da Italia e Unione Europea.
Il “corridoio umanitario” è uno strumento che gli Stati hanno a disposizione come alternativa sicura e legale per garantire il diritto di protezione e di asilo alle persone più vulnerabili, profughi e migranti. Dato che la richiesta di asilo può essere presentata solo all’interno del territorio dello Stato e i canali legali di accesso sono pressochè sigillati per (quasi) tutti, i corridoi umanitari rappresentano una delle pochissime alternative (accanto ai – difficili – ricongiungimenti familiari e ai reinsediamenti volontari) ai viaggi della disperazione (e, spesso, della morte) nelle mani di trafficanti e criminali senza scrupoli.
Quello del 30 giugno è stato il terzo volo all’interno di un protocollo sottoscritto il 23 aprile 2021, presso il Viminale, da UNHCR, ministero dell’Interno, ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e Tavola Valdese, protocollo che prevede l’arrivo e l’accoglienza in Italia di 500 profughi dalla Libia.
“Le persone hanno viaggiato con un volo charter dell’UNHCR e successivamente all’arrivo a Fiumicino sono state accolte da Comunità di Sant’Egidio, FCEI e Tavola Valdese per l’inserimento in un percorso di integrazione in Italia secondo il modello dei corridoi umanitari” (ONU Italia).
“Secondo il modello dei corridoi umanitari” significa che la gestione (anche economica) dell’accoglienza è totalmente a carico degli Enti e delle associazioni, senza contributi da parte dello Stato.
Proviamo a capirne di più grazie alla preziosa collaborazione di Morena La Rosa, attivista per i diritti delle persone migranti presenti in Libia, di Edmond Tarek Keirallah, coordinatore del progetto SIV di MSF per la riabilitazione di migranti e rifugiati sopravvissuti a violenza intenzionale e tortura, e di Ezio Savasta, operatore volontario della Comunità di Sant’Egidio.
Proprio Ezio Savasta inizia a contestualizzare: “Di fronte al dramma dei tentativi di migrare dal Sud del mondo e della tragedia che registriamo quotidianamente di morti nel Mediterraneo e negli altri percorsi migratori verso l’Europa, la comunità di Sant’Egidio ha voluto cercare una risposta, da qui la scelta di lavorare per realizzare dei corridoi per arrivare in sicurezza in Europa”.
“Il progetto dei corridoi umanitari che Sant’Egidio realizza con altri partner”, continua Savasta, “prevede l’arrivo in Italia o in altri Paesi europei di persone rifugiate con un volo sicuro, garantendo un alloggio e l’avvio di un percorso di integrazione per almeno un anno”.
I corridoi attualmente attivati e consolidati da Sant’Egidio provengono dal Libano, dall’Etiopia e dalla Grecia. È certamente più complessa la situazione in Libia, dove gli operatori della Comunità non sono potuti andare fisicamente per preparare le partenze e tutto si è dovuto svolgere da remoto “collaborando con il personale locale di UNHCR Libia”.
Il ministero dell’Interno nel suo comunicato riporta, per le 95 persone arrivate in Italia, che “si tratta di migranti costretti a fuggire dal proprio Paese, tra cui bambini, donne vittime di tratta, sopravvissuti alla violenza e alla tortura e persone in gravi condizioni di salute, individuati dall’agenzia Onu per i Rifugiati (UNHCR) in Libia, anche su indicazione della Comunità di Sant’Egidio e della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI).”
A fronte dell’alto numero di persone già registrate da UNHCR per le quali è valido lo status di rifugiato, su che base vengono selezionate le persone più vulnerabili che possono usufruire del corridoio umanitario?
Savasta specifica che alcune delle persone che sono arrivate con quest’ultimo corridoio “sono state individuate a partire da segnalazioni che Sant’Egidio ha raccolto da singoli e da associazioni”.
Giriamo la domanda anche a Tarek Keirallah, che conferma: “MSF non seleziona direttamente le persone per essere incluse nel corridoio umanitario ma identifica i casi vulnerabili e li segnala a Sant’Egidio, Fcei e UNHCR”. Essendo MSF un’organizzazione medica e umanitaria, “quelle che portano all’identificazione dei casi vulnerabili sono ragioni mediche che non possono essere prese in carico in Libia”.
“Ci arrivano molte segnalazioni, sono numerose quelle che giungono da familiari che hanno parte della famiglia ancora in pericolo o in condizione di estrema precarietà nei campi profughi”, aggiunge Savasta. “Riuscire con i corridoi a riunire delle famiglie che sono separate da anni dalle guerre in corso è uno dei risultati importanti di questo progetto”.
Tarek Keirallah specifica in particolare che, tra le 95 persone presenti nell’ultimo corridoio dalla Libia, sono presenti “circa 30 pazienti identificati dalla missione di Medici Senza Frontiere in Libia e riferiti all’UNHCR”. Di questi, “14 sono stati presi in carico direttamente dal Progetto SIV di Palermo, con la predisposizione di un sistema di accoglienza gestito da MSF”. Le persone riferite e prese in carico dal Progetto SIV “sono tutte sopravvissute a violenza intenzionale”.
Quali sono le emozioni all’arrivo delle persone?
“L’arrivo dei corridoi, che spesso accolgo a Fiumicino, è sempre una grande emozione. Guardare i volti delle persone salvate è una gioia grande”, ci risponde Savasta.
“È una gioia che non tranquillizza, perché la tragedia dei migranti è enorme, ma per loro l’arrivo è un approdo che mette al sicuro la propria vita e in molti casi mette fine ad un incubo. Questo è particolarmente vero per chi arriva dalla Libia, dove i campi di detenzione, come è noto, sono dei veri lager e molti di loro hanno subito tremende torture. Alcuni di loro all’arrivo ci hanno confessato: ‘Ci avete salvati dall’Inferno!’”.
“È bello essere parte in questa battaglia, continuare a dare risposte che salvano chi è in pericolo ed è scampato alla guerra, aiutando anche chi cerca di portare in Europa familiari e conoscenti. Questa è una battaglia appena iniziata, ma per chi è già arrivato ha fatto la differenza: la salvezza e la possibilità di una vita dignitosa e in pace”, conclude il volontario di Sant’Egidio.
Cosa accade “dopo” l’arrivo delle persone in Italia?
Tarek Keirallah ci risponde nel merito delle persone accolte dal Progetto di Palermo: “Come fase iniziale, verranno prese in carico dal progetto SIV, poi ogni persona avrà un suo percorso legato alle esigenze e obiettivi personali”.
“Il progetto SIV”, ci spiega, “è un progetto in partenariato fra ASP – Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, Medici Senza Frontiere, CLEDU – Clinica Legale per i Diritti Umani, Policlinico di Palermo e Centro Astalli per la presa in carico di sopravvissuti a violenza intenzionale. Partendo, come base di riferimento, dalle linee guida ministeriali, realizza una presa in carico che unisce tutti gli aspetti di cui le persone accolte hanno bisogno per ritrovare stabilità nella loro quotidianità”.
Savasta ci spiega, più in generale, che quel che Sant’Egidio realizza è un lavoro corale “dall’individuazione delle situazioni di fragilità nei Paesi dove i corridoi sono attivati, all’accoglienza in Italia e a tutto quello che comporta quotidianamente sostenere nella cura dei malati, l’indirizzamento verso percorsi formativi e di studio della lingua italiana, la ricerca di un lavoro per ottenere in Italia la piena autonomia, mettendo a frutto le grandi potenzialità che i rifugiati hanno e che possono mettere al servizio della nostra società”.
Delle 95 persone salvate, 16 sono arrivate a Palermo: chi sono e come stanno?
Ci risponde Keirallah: “Le persone arrivate a Palermo sono originarie di diversi Paesi ma principalmente del Corno d’Africa (Somalia, Sudan, Sud Sudan, Eritrea) e tutte hanno effettuato un lungo viaggio che le ha portate in Libia. Le sofferenze che hanno subito iniziano dal Paese di origine e molte hanno sofferto traumi pesantissimi in Libia”.
“Al momento stanno bene (rispetto a quando sono arrivate), hanno sogni e speranze che finalmente riescono a focalizzare. Nelle prossime settimane potremo dire di più sulla loro situazione, al momento è troppo presto”.
Delle sedici persone arrivate a Palermo, quattordici sono state prese in carico dal progetto SIV di MSF. Le altre due? Le altre due sono Hasan e Irene, persone salve grazie alla granitica volontà e testardaggine di Morena La Rosa, attivista che si occupa – insieme ad altre persone – di seguire e supportare rifugiati e migranti bloccati in Libia, e all’aiuto ricevuto da Sant’Egidio. Eccone la storia.
Storia di un salvataggio atipico
Morena La Rosa, per il suo impegno di attivista, è in contatto con diverse persone in Libia, soprattutto con Hasan e Irene. Prova ad aiutarle come può, dando suggerimenti e indirizzandole verso le associazioni presenti sul territorio, ma “in Libia la situazione è terribile e i rifugiati non hanno possibilità di riparo e protezione”, ci dice, e l’unica vera soluzione sarebbe portarle via da quella situazione disumana. Legge dei Corridoi umanitari che la Comunità di Sant’Egidio organizza dalla Siria e si mette in contatto, via social network, con Ezio Savasta per verificare la presenza/possibilità di corridoi dalla Libia.
Morena ci racconta dell’iniziale incredulità e di come si è gradualmente passati, nei rapporti con Sant’Egidio, dal suo testardo rimarcare “sì, sono sola e col reddito di cittadinanza e sì, voglio salvare due persone dalla Libia” ad un clima di fiducia e rassicurazione, fino al fatidico annuncio entusiasta di Ezio: “Morena, il 30 partiranno!”.
Ezio Savasta conferma: “Morena mi seguiva sul mio profilo twitter, dove pubblico soprattutto notizie sui diritti umani, e mi ha comunicato del contatto che aveva con Hasan. Abbiamo raccolto la sua segnalazione e per fortuna è andata a buon fine: siamo riusciti a rintracciarlo, a trovare un posto nel corridoio e a realizzare tutta la documentazione necessaria per la partenza”.
“Aver contribuito a ottenere la salvezza di Hasan in Italia è una gioia che si aggiunge a molte altre vissute dal febbraio 2016 con l’arrivo di tanti rifugiati. Negli anni molti di loro hanno realizzato con successo un percorso di integrazione. Alcuni di loro, insieme a noi, come volontari, ci aiutano nell’accoglienza”, aggiunge Ezio Savasta.
Il contributo di Sant’Egidio è stato fondamentale e Morena La Rosa durante la nostra chiacchierata ha più volte ringraziato Ezio, Andrea e tutta la Comunità di Sant’Egidio per il preziosissimo supporto, “senza di loro Hasan e Irene sarebbero ancora in Libia”.
Il racconto di Morena è intervallato da commozione e gioia. Ci parla senza pause dell’arrivo di Hasan e Irene a Roma, del loro imbarco per Palermo con le 14 persone che verranno poi accolte da MSF, dell’ansia con la quale seguiva tutto il viaggio “perché non si sa mai”, dell’atterraggio a Palermo, dei ragazzi con i cartelli, della spasmodica ricerca di Hasan e Irene all’interno dell’aeroporto, dello “sballottolamento su e giù, finchè qualcuno mi ha chiesto ‘Lei è la signora di Ragusa?’”.
E così Morena incontra Hasan e Irene, urla di gioia, piange e immediatamente si stringono in un lunghissimo abbraccio, “un unico abbraccio per tutti e tre, era come abbracciare il mondo” ci dice commossa.
Ricorda vagamente l’entusiasmo e gli applausi intorno, ma ricorda che quello è stato “il momento più intenso di tutta la mia vita, li guardavo e dicevo ‘sono liberi!’”. “Ho pensato a Gino Strada”, ci confida, “diceva che ognuno deve ‘fare un pezzettino’, e io ero felicissima perché avevo realizzato il mio: avevo contribuito a salvare la vita di due persone”.
Dall’aeroporto parte il pullman MSF per Palermo, dove Morena, Hasan e Irene passano la notte per ripartire l’indomani per Ragusa. Arrivano alle 16:30, sono distrutti ma ballano tutti e tre insieme prima di crollare dalla stanchezza.
Ora stanno meglio. Vanno in giro, imparano a costruire una nuova vita. “Hasan mangia tantissimo” ci dice Morena, mentre “Irene pulisce tutto in continuazione, è sempre allegra e canta, diventa triste e piange solo quando parla dei figli”. Spesso cucinano loro e impazziscono per la pizza.
Hasan e Irene vivono da Morena, a Ragusa. Sono a carico di Morena e di amiche e amici che la aiutano.
Adesso? Adesso si avvierà il percorso che parte dalla richiesta d’asilo in Questura; a questa dovrebbe seguire l’emissione di un permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi, col quale Hasan e Irene potranno accedere ai vari servizi, incluso l’assegnazione del medico curante da parte del SSN. A seguire ci sarà la formalizzazione e la motivazione della richiesta d’asilo davanti alla Commissione territoriale istituita allo scopo.
E dopo? Morena ci racconta che Hasan vorrebbe andare a Roma e, con l’aiuto dell’associazione Baobab, vorrebbe restare lì, studiare e laurearsi. Irene ancora non sa, spera di restare in Sicilia.
Hasan e Irene
Ma chi sono Hasan e Irene? Vi parliamo brevemente di loro, riferendo quello che La Rosa ci ha raccontato affinchè la loro storia, come la storia (molto atipica) del loro salvataggio, sia conosciuta e possa rappresentare un esempio.
Hasan ha 16 anni, è originario del Sudan. È in contatto con Morena La Rosa da circa due anni. È il più grande di tre figli, i genitori (come a volte avviene) gli pagano il viaggio per studiare in Europa, trovare un lavoro dignitoso e raccogliere soldi per aiutare la famiglia.
Arriva in Libia neanche quindicenne, vive per strada. È stato picchiato (“ma non torturato, per fortuna”, aggiunge La Rosa) ed era terrorizzato da quel che accadeva attorno a lui. “È capitato un periodo, due settimane, in cui ci sentivamo tutte le sere, e stavamo al telefono a parlare finchè non si rasserenava e pian piano si addormentava. Quando non lo sentivo più parlare capivo che si era finalmente addormentato e chiudevo la chiamata”.
A volte Hasan non si fa sentire per giorni, perché prova a cercare cibo “anche rovistando tra i rifiuti” e deve fare molta attenzione a non farsi vedere e catturare; in Libia l’immigrazione (tutta) è considerata illegale e si può essere arrestati senza aver commesso alcun reato.
Morena ci racconta anche di una promessa, la promessa di non togliersi un braccialetto, “uno di quei braccialetti ‘della fortuna’ che spesso vendono le persone per strada” finchè Hasan non fosse stato in salvo. Braccialetto che, qualche giorno fa, ha potuto finalmente sciogliere dal proprio polso e legare, con le lacrime agli occhi, a quello di Hasan.
Irene ha 41 anni, è originaria della Costa d’Avorio. La sua è una storia molto travagliata. Sebbene la situazione odierna in Costa d’Avorio non sia drammatica, qualche anno fa il Paese è stato sconvolto da una sanguinosa guerra civile. Non una sola, in realtà. Nel 2002, nel clima di violenze e crudeltà di quella guerra, Irene, allora incinta del secondo figlio, viene bloccata e violentata da alcuni soldati, che poi la feriscono sparandole alcuni colpi di pistola. Fugge con la famiglia verso la Liberia, dove vive per 14 anni. Il marito intanto l’abbandona, con quattro figli, costringendola di fatto a vivere per strada, ai margini, fino alla decisione di fuggire via.
Irene narra di sè a Morena. Ma non è la prima volta che ne parla. A metà 2021, Irene è tra i rifugiati che tentano di sopravvivere nell’inferno libico; viene intercettata dal giornalista Valerio Nicolosi che la intervista per MicroMega (riferendosi a lei, per la sua incolumità, col nome fittizio di Sophia). In quell’intervista, Irene/Sophia racconta la sua storia e lancia un grido di dolore che scuote (o dovrebbe scuotere) le coscienze di tutti.
In Liberia, Irene si fida di chi poi la tradisce e deruba, abbandonandola in Libia con l’enorme prezzo del viaggio da pagare ai trafficanti. E in Libia la vita di Irene precipita: diventa una sorta di schiava, lavora per ripagare il debito e “guadagnarsi” il viaggio verso l’Europa. Viene torturata e violentata più volte, passando da un “padrone” all’altro: “La mattina mi mandava a lavoro, lavoravo tutto il giorno, e la notte mi mandava in questa casa, gli uomini mi usavano sessualmente e lui prendeva i soldi”, racconta.
Tenta anche di attraversare il Mediterraneo. Qui il racconto attraverso le sue parole: “Eravamo 150 persone sul bordo di questo gommone gonfiabile, e mostrò la stella a chi ci guidava per dirgli di seguirla. Abbiamo navigato tutta la notte e per tutto il giorno dopo ma verso le 5-6 del pomeriggio il gommone si è sgonfiato e così sei persone si sono ritrovate in acqua. Sei persone sono morte, ma abbiamo ripescato un solo corpo. È arrivata una barca a salvarci e ci siamo ritrovati al porto di Tripoli”.
La cosiddetta Guardia Costiera libica, equipaggiata, addestrata e finanziata dall’Europa, riporta quindi le persone in Libia, porto non sicuro e che, quindi, non dovrebbe essere destinazione per un’operazione di search-and-rescue. Ma non solo. Perché i miliziani con la divisa della guardia costiera sono spesso in combutta (o in contiguità) con i miliziani che sfruttano le persone nei lager, anche questi co-finanziati dall’Europa all’interno delle sue politiche di esternalizzazione delle frontiere.
Infatti, continua a raccontare Irene: “Al porto di Tripoli c’era una macchina che era venuta a prenderci per portarci in prigione. Siamo arrivati intorno a mezzanotte. Una casa senza finestre, l’inferno totale. Quando sei in questo posto non sai se è giorno o se è notte. Abbiamo passato quattro notti in un angolo e dopo quattro notti un uomo è venuto a dire che tutte le donne potevano uscire. Tutte sono state stuprate”.
Poi l’urlo disperato che Irene lascia a Valerio Nicolosi, mentre era in Libia e senza speranze: “Preferisco morire nel mare che vivere quello che sto vivendo, preferisco morire nel mare che essere violentata, preferisco morire nel mare che essere torturata”.
Situazione attuale e richieste
Migliaia di persone si trovano bloccate in un circuito perverso di sopraffazione, di terrore e angoscia, all’interno del quale vengono pervasivamente, sistematicamente e impunemente violati i loro diritti umani più elementari e la loro dignità, un circuito che le tiene bloccate e sfruttate in Libia alla mercé dei miliziani e che, una volta fuggite (pagando), rischiano la vita in mare (il Mediterraneo centrale è la rotta migratoria più mortale del mondo) o rischiano di essere riportate ancora una volta indietro in operazioni della c.d. Guardia Costiera libica che si configurano nei fatti come respingimenti illegali effettuati per conto degli Stati dell’Unione Europea.
“La cooperazione con le autorità libiche fa sì che persone disperate siano intrappolate in condizioni di un orrore inimmaginabile. Negli ultimi cinque anni Italia, Malta e Unione Europea hanno contribuito alla cattura in mare di decine di migliaia di donne, uomini e bambini, finiti in gran parte in centri di detenzione agghiaccianti, dove la tortura è all’ordine del giorno. Innumerevoli altre persone sono state vittime di sparizione forzata,” ha dichiarato Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International su migrazione e asilo.
Per spezzare questo ciclo di orrori e responsabilità, serve cambiare radicalmente le politiche di gestione delle migrazioni ideate e implementate dall’Unione Europea (e non solo). Finchè non si interverrà a fondo ed efficacemente sulle cause (regimi dittatoriali, persecuzioni, violazione dei diritti umani, guerra e violenze, povertà, siccità e carestie, cambiamenti climatici, ecc…) che costringono migliaia di persone ad abbandonare le proprie case alla ricerca di un futuro migliore per sé e per i propri cari, ogni azione finalizzata a contrastare i flussi migratori si traduce in un’azione criminale, criminogena e inumana.
“Non solo un’emergenza ma un problema strutturale con cui fare i conti nel lungo periodo”, specifica Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, nel corso della Conferenza stampa congiunta a conclusione del corridoio umanitario del 30 giugno.
Nello specifico, le richieste della società civile e delle organizzazioni sulla collaborazione con la Libia, vertono sui punti seguenti:
Per l’Italia, nel suo comunicato emesso all’indomani del Corridoio umanitario del 30 giugno, Sant’Egidio chiede alle Istituzioni di:
Concludiamo con l’esortazione di Claudia Lodesani, Responsabile delle Operazioni di MSF in Libia: “In Libia la maggior parte dei migranti è vittima di detenzioni arbitrarie, torture e violenze, incluse quelle sessuali. Crediamo che i Paesi sicuri – specialmente nell’Unione Europea, che da anni finanzia la guardia costiera libica e sostiene i respingimenti forzati dei migranti in Libia – abbiano il dovere di facilitare l’evacuazione e la protezione, sul proprio territorio, di queste persone vittime di violenza.”
Immagine in evidenza della Comunità di Sant’Egidio
di Anna Spena, Matteo Riva e Paolo Manzo su Vita.it
I numeri non racchiudono le vite. Ma con le migrazioni forzate funziona così: ci muoviamo quasi alla cieca, non esistono dati ufficiali, dati aderenti alla realtà che possano in qualche modo circoscrivere un fenomeno. Camminiamo tra le stime, per lo più al ribasso. E le facce delle persone, con le loro vite, le perdiamo per strada. Quante sono le Lesbo, le Lampedusa, le frontiere di terra dai Balcani fino al Messico che non conosciamo? Che succede non solo in Italia, ma in Medio Oriente, Africa, in America Latina? Una risposta certa, come dicevamo, un dato certo, non esiste. Iniziamo però da una stima verosimile: alla fine del 2021, secondo il rapporto statistico annuale dell’UNHCR Global Trends, le persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni di diritti umani risultavano essere 89,3 milioni. Da allora, l’invasione russa dell’Ucraina – che ha causato uno degli esodi forzati di più ampia portata e quello in più rapida espansione dalla Seconda Guerra Mondiale – e altre emergenze, dall’Africa all’Afghanistan ad altre aree del mondo, hanno portato la cifra a superare la drammatica soglia dei 100 milioni. La Turchia ha ospitato quasi 3,8 milioni di rifugiati, la popolazione più numerosa al mondo.
Dall’inizio dell’anno sono sbarcate sulle coste italiane (dato aggiornato al 14 luglio 2022 ndr) 31.675 i migranti. Non significa che in Italia hanno provato ad arrivare poco più di 30mila persone, significa che queste sono quelle arrivate vive. Quante sono state riportate in Libia? Quante sono morte in mare? Ma non esistono solo le frontiere di mare, anche quelle di terra. E lì tenere traccia è più complesso: ci si muove in gruppi più piccoli, su viaggi della speranza che durano mesi, spesso anni, e toccano diversi Paesi. Quello che sappiamo è che delle zone specifiche sono diventate un limbo e lì i migranti si bloccano e spesso non riescono ad andare avanti, a volte, neanche a tornare indietro.
È l’isola più estesa dell’arcipelago delle Pelagie. Per la sua posizione tra le coste nordafricane e il sud d’Europa, Lampedusa negli ultimi venticinque anni è stata una delle principali mete delle rotte dei migranti nel Mediterraneo. Il primo sbarco è stato registarto a metà ottobre del 1992 e ha coinvolto 71 maghrebini. È qui che il 3 ottobre 2013 un’imbarcazione carica di persone è naufragata a poche miglia dall’imboccatura del porto causando 366 morti e oltre 20 dispersi. In seguito a questo tragico evento, su proposta di un comitato appositamente costituito, il 15 aprile 2015 la Camera dei Deputati ha approvato con 287 voti favorevoli, 72 contrari e 20 astenuti l’istituzione, per il 3 ottobre, di una “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”. Qui la macchina dell’accoglienza è fluida o si inceppa a seconda del momento politico e del numero di sbarchi. Oggi vacilla: all’interno dell’hotspot di Lampedusa non si erano mai visti numeri così alti negli ultimi anni. Nella struttura di Contrada Imbriacola ci sono al momento oltre 2000 persone davanti a una capienza limite di 450-500 persone. Si tratta di sbarchi autonomi o di barconi che vengono accompagnati in porto da motovedette della guardia costiera o della guardia di finanza. I luoghi di partenza sono sempre Libia o Tunisia. E cresce il numero di minori non accompagnati.
Dall’inizio dell’anno sono oltre 4mila, nel 2021 erano stati settemila il numero totale delle persone sbarcate, i migranti arrivati nel porto calabrese o nelle spiagge vicine. L’estate scorsa gli sbarchi sono arrivati a una media di quattro al giorno. Arrivano su barche a vela pilotate dagli scafisti. Arrivano da Siria, Afghanistan, Iran, ma anche Bangladesh e Palestina. Un numero quello degli arrivi sulla Locride che di anno in anno cresce rapidamente e che ha avuto un’impennata tra il 2020 e il 2021. Chi arriva a Roccella Jonica lo fa principalmente dalla rotta della Turchia.
La Rotta Balcanica è una rotta dimenticata. Non interessa all’Italia. Non fa il rumore mediatico dei barconi che attraversano il Mediterraneo. E quei profughi che si mettono in marcia e attraversano i confini di sei o sette Paesi prima di raggiungere l’Europa – quando e se ci riescono – sono marginali. Perché loro in Italia non vogliono restare. Convenzionalmente la rotta inizia in Grecia, fisicamente finisce in Italia, a Trieste. Ma il viaggio di chi fugge inizia molti chilometri prima per finire poi nel Nord Europa. Quanti sono quelli che ogni anno si mettono in marcia per percorrerla non lo sappiamo. Ma a Trieste, nel 2021, sono state registrate 7500 persone, poco più di seimila sono entrate nei percorsi di accoglienza. A loro va aggiunto almeno un terzo che non viene registrato, quindi, l’ipotesi più plausibile, è che ogni anno le persone che transitano per la città e che poi spesso proseguono il viaggio per l’Europa del Nord siano circa 10mila.
Ultimo comune italiano prima del confine francese, Ventimiglia è un luogo di frontiera. 25mila abitanti e 30mila migranti che ogni anno qui arrivano, si fermano, provano ad oltrepassare il confine per raggungere la Francia e vengono rispediti indietro alla frontiera. Dal 2011, dopo la primavera araba, i flussi si sono intensificati. Vivere in un luogo di confine significa avere a che fare con questi fenomeni, trovarsi il mondo a casa. Ventimiglia è diventata la “Lampedusa del nord” dal 2015. Quando la Francia ha letteralmente chiuso ogni punto di passaggio e i valichi di frontiera sono stati militarizzati per fermare e scoraggiare i flussi migratori. Nel 2020 tra Ventimiglia e Mentone sono state respinte 22mila persone. In alcuni giorni i respingimenti dalla Francia riguardano anche più di 100 persone. Da quando è stato smantellato il Campo Roja, a inizio pandemia, a Ventimiglia non c’è nulla di istituzionale per la primissima accoglienza di chi passa da qui per andare in Francia.
È stato per anni il primo punto d’approdo dei profughi del Medio Oriente. Il campo di Moria pensato per duemila persone ne ha “imprigionate” fino a 20mila insieme nel 2020. A Lesbo ci sono migliaia di rifugiati dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Congo e da decine di altri Paesi. La notte tra l’8 e il 9 settembre 2020, un incendio devastò devastò il campo di Moria. All’indomani dell’incendio di Moria, le autorità Greche ed Europee avevano promesso che le condizioni di accoglienza sarebbero migliorate, ma le condizioni non sono migliorate.
Nel nord della Francia, nella zona di Calais, dove i migranti tentano la traversata verso il Regno Unito, la strategia dello Stato rimane da anni sempre la stessa: espellere le persone dagli insediamenti informali. Nel 2021, Human Rights Observers (HRO) ha registrato 1.226 espulsioni, cioè 102 espulsioni al mese. Più di tre al giorno. Queste espulsioni si inseriscono nel contesto della strategia “Zéro point de fixation” delle autorità. Lo scopo è quello di evitare a tutti i costi che un accampamento diventi troppo grande, costringendo le persone a spostarsi.
La Rotta Balcanica in Bosnia Erzegovina si blocca: i migranti non devono arrivare in Croazia. Il Paese che, insieme alla Turchia, “difende le frontiere europee”. Ma le difende da chi? La maggior parte dei profughi in Bosnia Erzegovina sono concentrati nel cantone di Una- Sana, al confine con la Croazia. Ce ne sono circa seimila – i numeri ufficiali non esistono – e sono concentrati nelle città di Bihač e Velika Kladusa. Tra aperture e chiusure dei campi profughi ufficiali è difficile tenere traccia delle persone. La maggior parte dei profughi vive negli squat, strutture fatiscenti e abbandonate. Stanno lì in attesa di provare il “game”, l’espressione che utilizzano per indicare il passaggio tra la Bosnia e la Croazia, a volte lo provano anche 20 volta prima di riuscire. E ogni volta sono gioco nella mani della polizia: violenze, rapine, uomini mascherati e vestiti di nero che fanno inginocchiare i rifugiati con le mani legate dietro la schiena per picchiarli con lunghi bastoni. Così si fingono svenuti come unica forma di autodifesa, ma la polizia continua, gli butta l’acqua addosso per svegliarli. La Croazia è la frontiera più dura per l’ingresso in Europa assieme a quella sul fiume Evros tra Turchia da una parte, e Grecia o Bulgaria dall’altra.
Partiamo da due dati sintetici: nel Paese ci sono 621mila migranti, di oltre 43 nazionalità diverse (dati Oim aggiornati a novembre 2021). Uomini, donne e bambini andati incontro alla detenzione arbitraria, alla tortura, a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, agli stupri e alle violenze sessuali, ai lavori forzati e alle uccisioni illegali; 4300 persone si trovano nei centri di detenzione. L’unica cosa che sappiamo è che la Libia non è un Paese sicuro. Nel rapporto pubblicato da Medici Senza Frontiere “Out of Libya” vengono descritti tutti i punti deboli dei meccanismi di protezione esistenti per le persone bloccate nel Paese. I pochi canali legali verso paesi sicuri messi a punto da UNHCR e dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) sono lenti e restrittivi. Possono accedere alla registrazione solo le persone di 9 nazionalità, l’accesso alla registrazione è quasi inesistente al di fuori di Tripoli e nei centri di detenzione e i posti di ricollocamento nei paesi di destinazione sono limitati. Delle circa 40mila persone registrate con il programma di ricollocamento dell’UNHCR, solo 1.662 hanno lasciato la Libia lo scorso anno, mentre 3mila sono partite con il programma di rimpatrio volontario dell’OIM. Negli ultimi cinque anni sono state oltre 82mila le persone intercettate in mare e riportate in Libia, e allora perché continua il Memorandum tra i due Paesi, tra l’Italia e la Libia? L’assistenza dell’Unione europea ai guardacoste libici è iniziata nel 2016, così come gli intercettamenti in mare. La cooperazione è poi aumentata considerevolmente con l’adozione di un Memorandum d’intesa bilaterale, firmato da Italia e Libia il 2 febbraio 2017, e con l’adozione della Dichiarazione di Malta. Questi accordi costituiscono la base di una costante cooperazione che affida il pattugliamento del Mediterraneo centrale ai guardacoste libici, attraverso la fornitura di motovedette, di un centro di coordinamento marittimo e di attività di formazione. Gli accordi sono stati seguiti dall’istituzione della zona SAR libica, un’ampia area marittima in cui i guardacoste libici sono responsabili del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso. Queste azioni, in grandissima parte realizzate dall’Italia e finanziate dall’Unione europea, come ha denucniato più volte Amnesty International, hanno da allora consentito alle autorità libiche di riportare sulla terraferma persone intercettate in mare, nonostante sia illegale riportare persone in un luogo nel quale rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani.
Ogni mese, in media, vengono espulse dall’Algeria e dalla Libia 2000 persone, alcune con ferite gravi, sopravvissute a episodi di stupro, e con forti traumi. Al momento dell’espulsione, le persone vengono abbandonate in mezzo al deserto al confine tra Algeria e Niger, in un luogo chiamato “Punto Zero”, a 15 km dalla città di Assamaka. Secondo i dati forniti dall’Ong Alarm Phone Sahara, circa 8.207 persone sono state espulse dall’Algeria verso il Niger nel primo trimestre del 2022. Un numero simile dovrebbe riguardare quelli espulsi dalla Libia.
I rifugiati presenti in Libano sono tantissimi ma nessuno è riconosciuto dal governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi strutturati, e per questo il problema dell’accoglienza è stato – anche – un problema di parole: come li chiamiamo? Profughi? Visitatori? Vivono da diversi anni in campi profughi informali nati in tutto il Paese, nelle tende, negli edifici abbandonati, nei garage senza finestre sul ciglio della strada. Le stime parlano di un milione e mezzo di persone. Sono per lo più profughi siriani che non possono tornare a casa: una casa ormai non ce l’hanno più o chi è scappato è ricercato dal governo di Assad e quindi non può più tornare indietro.Per capire fino in fondo il peso di questo numero bisogna guardare ad un altro dato, quello dei cittadini libanesi, poco più di sei milioni di abitanti per un Paese grande quanto l’Abruzzo. La situazione è ancora più drammatica da quando – con l’aggraversi della situaizone interna nel 2019 – l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, la lira libanese si è svalutata del 90%. Il Libano è un Paese che sta collassando, sotto tutti i punti di vista e i profughi siriani insieme a lui.
Un quarto della popolazione mondiale dei rifugiati è siriana: 6,8 milioni di persone. A loro si aggiungono 7 milioni di sfollati interni, la più grande popolazione di sfollati interni del mondo. La crisi in Siria è ormai giunta al suo undicesimo anno e, in molte zone, i bisogni umanitari sono ancora elevatissimi. Nel 2020 i rapporti di forza sono cambiati ed il governo siriano che ha consolidato il controllo su vaste aree di territorio tra cui Homs, Ghouta orientale, Damasco meridionale e Daraa, mentre la situazione per i civili rimane estremamente instabile. Sono in corso conflitti e sfollamenti nei governatorati settentrionali, con il rischio di ulteriori escalation e insicurezza nel resto del Paese. La recessione dell’economia siriana, la svalutazione, l’aumento dei prezzi, il tasso di disoccupazione elevato hanno portato ad un grande aumento dell’insicurezza alimentare, che ad agosto 2021, ultimo dato disponibile, colpisce 12.8 milioni di persone.
Lo scorso 24 giugno 2000 i migranti hanno cercato di raggiungere la Spagna attraverso l’enclace di Melilla. Le vittime sarebbero almeno 37. Il canale televisivo Melilla afferma che i migranti che non sono riusciti a entrare sono tornati sulla montagna di Gurugú, dove la polizia marocchina sta smantellando diversi insediamenti. Gli immigrati sono prevalentemente di origine subsahariana e il Marocco si sta trasformando in da Paese di emigrazione a Paese di transito.
È una delle rotte di traffico di persone più pericolose al mondo. È una fitta foresta pluviale montuosa e paludosa di 25mila km quadrati, un corridoio controllato dal narcotraffico dove hanno il loro habitat naturale feroci giaguari, serpenti velenosi ed avvoltoi pronti ad attaccare chi giace a terra, morente. Il viaggio a piedi può durare dai 5 ai 15 giorni, a seconda delle condizioni atmosferiche, della resistenza fisica dei migranti e dell’abilità delle guide, i “coyote” che accompagnano dietro lauti compensi gruppi di disperati provenienti da tutto il mondo, dall’Africa, dall’Asia meridionale, dal Medio Oriente e dai Caraibi, che rischiano la vita nella speranza di raggiungere il “sogno americano” negli Stati Uniti. La maggior parte dei 140mila migranti nel 2021, 19mila dei quali bambini, proveniva da Haiti, mentre quest’anno il gruppo più numeroso è composto da venezuelani.
Quando escono dal Darien Gap, a bordo di canoe a motore, i migranti vengono portati a La Peñita, un villaggio che funge da centro di smistamento. Di fronte al centinaio di abitanti, qui si radunano ogni giorno sino a 1.200 migranti, per lo più in tende ed hangar, mentre un grande magazzino è stato riconvertito in un dormitorio. Per loro, tra cui moltissime donne e bambini, ci sono solo una dozzina di bagni chimici portatili, tutti in condizioni igieniche pessime. In una roulotte, i migranti consegnano i loro passaporti e si fanno scansionare l’iride e prendere le impronte digitali. Dopo le informazioni vengono inviate al sistema di registrazione biometrica degli Stati Uniti. La maggior parte dei migranti è controllata entro un paio di settimane e, poi, aspetta il proprio turno per salire a bordo di un autobus che li porterà in un campo profughi al confine con il Costa Rica.
I venezuelani che sono fuggiti dal loro paese dal 2013, quando l’attuale presidente Nicolás Maduro ha assunto il potere ereditato da Hugo Chávez, sono già oltre sei milioni, un quarto dell’intera popolazione, secondo le statistiche ONU. Due milioni di loro si sono rifugiati nella confinante Colombia, il secondo paese al mondo dopo la Turchia, e un milione in Perù. Il motivo per cui sono emigrati non è dovuto a una guerra, come i 7,2 milioni in fuga dall’Ucraina o i 6,8 milioni dalla Siria, ma per mancanza di cibo perché oggi il Venezuela ha gli stipendi più bassi al mondo, pari a 4 euro al mese. Eduardo Stein, il rappresentante speciale congiunto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni Nazioni Unite ha avvertito che, se le cose non miglioreranno a Caracas, entro fine 2022 saranno 8,9 milioni i rifugiati venezuelani sparsi in 17 paesi dell’America Latina.
Tapachula è forse la più importante delle tante Lampedusa latinoamericane ed è una bomba a orologeria che potrebbe esplodere in qualsiasi momento a causa dell’elevato numero di persone che arrivano in questa città del Chiapas dopo avere attraversato la frontiera dal Guatemala. Situata vicino al confine, con appena 190mila abitanti ospita ben 40mila disperati, soprattutto venezuelani na anche molti cubani e haitiani, bloccati come fossero in un carcere dove non hanno alcuna possibilità di alloggio o di lavoro. In termini di richieste di asilo, l’anno scorso il Messico è stato il terzo paese al mondo a riceverne di più, con 131.400 richieste, superato solo dagli Stati Uniti con 188.900 e dalla Germania con 148mila.
Lo stato della Roraima è la porta d’ingresso per decine di migliaia di venezuelani in fuga dalla crisi economica. Oggi circa il 25% dei bambini nelle scuole e negli asili nido della capiutale Boa Vista sono di origine venezuelana. Negli ultimi 5 anni il Brasile ha concesso lo status di rifugiato a 287.000 venezuelani. Secondo i dati dell’Operazione Accoglienza, cui partner fondamentale è AVSI, sul totale dei venezuelani riconosciuti come rifugiati, circa 64mila sono stati distribuiti in 778 comuni verde-oro. Sono 600mila i venezuelani entrati in Brasile dalla Roraima negli ultimi anni.
Tra il 1 gennaio e il 30 giugno, il Guatemala ha accolto 42.313 cittadini rimpatriati forzatamente dagli Stati Uniti e dal Messico. Di questi, quasi il 20 per cento sono del dipartimento di Huehuetenango e, una volta espulsi a forza, hanno deciso di tornare al luogo di origine ma, sicuramente, molti riproveranno a raggiungere il “sogno americano”. Negli Stati Uniti oggi vivono circa tre milioni di guatemaltechi, la maggior parte dei quali sono irregolari. Sulle montagne di Huehuetenango, le più alte del paese a 1.900 metri sul livello del mare e nel cuore dei tropici, da 200 anni cresce uno dei migliori caffè del mondo. Il 10% dei migranti che parte da questo dipartimento guatemalteco che si trova nella regione nord-occidentale e confina con il Messico è composto da minori.
Le cifre mostrano una incredibile crescita del 57mila % dell’afflusso di cubani rispetto allo scorso anno. Tutti entrano dal dipartimento di El Paraiso da confinante Nicaragua, che lo scorso novembre ha eliminato l’obbligo del visto per gli abitanti dell’Avana, unico paese ad averlo fatto in America latina, il che spiega questo vero e proprio boom. Da allora, sempre più cubani arrivano in Honduras da dove iniziano un difficile viaggio attraverso l’America Centrale e il Messico fino a raggiungere il confine con gli Stati Uniti.
Un anno dopo le proteste dell’11 luglio 2021, l’esodo dei migranti cubani è esploso, con un aumento di 10 volte rispetto all’anno precedente, secondo la US Customs and Border Protection. Il fenomeno è iniziato lo scorso novembre, quando i presidenti di Cuba e Nicaragua hanno eliminato i visti prima necessari ai cubani per andare a Managua con l’obiettivo di facilitare il meccanismo di uscita e abbassare la tensione che si era creata sull’isola con le manifestazioni di massa e la successiva repressione. Una strategia simile a quella di Fidel Castro che tre decenni fa, quando lo scontento sociale all’Avana stava per esplodere, aprì il rubinetto dell’emigrazione e ci fu lo storico esodo del 1980, che vide la partenza di 125.000 cubani dal porto di Mariel su centinaia di barche. Anche adesso le proteste hanno trovato la loro valvola di sfogo in quella che è stata ribattezzata la “Mariel silenziosa”, un fenomeno migratorio che ha battuto ogni record.
1238 migranti sono morti o scomparsi nelle Americhe l’anno scorso mentre attraversavano le frontiere nella speranza di una vita migliore, e più della metà dei decessi e delle sparizioni sono avvenuti al confine tra Stati Uniti e Messico, secondo uno studio del Missing Migrants Project, un’iniziativa sostenuta dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’OIM. È il numero più alto di decessi di sempre. Tra i corpi identificati, i messicani deceduti sono 154, seguiti da 129 guatemaltechi e 94 venezuelani.
La migrazione dal Messico era diminuita tra il 2009 e il 2019, con un numero maggiore di messicani che lasciano gli Stati Uniti rispetto a quelli che arrivavano. Dal 2020, la combinazione tra la crescente violenza in Messico e il peggioramento della sua economia ha portato al primo aumento della migrazione messicana da 10 anni a questa parte. Il numero di messicani arrestati negli Stati Uniti è aumentato del 50% tra il 2019 e il 2020, passando da circa 170.000 a quasi 255.000. E la cifra continua a crescere: finora quest’anno ne sono stati fermati quasi 400.000.
Nelle ultime settimane si è intensificato il numero di nicaraguensi in fuga dal Paese a causa dell’irrigidimento del regime di Daniel Ortega di fronte alle proteste sociali e all’applicazione di leggi che puniscono i dissidenti con il carcere. La maggior parte di essi si concentra in Costa Rica, la destinazione più vicina e familiare, una frontiera già da tempo rovente. “Si stima che ci siano tra i 350.000 e i 400.000 esuli nicaraguensi in Costa Rica”, ha dichiarato Mariano Rosa del Movimento Socialista dei Lavoratori (MST), che dirige la Commissione internazionale per la vita e la libertà dei prigionieri politici in Nicaragua.
Trinidad e Tobago è la nazione caraibica più vicina al Venezuela, situate a soli 24 chilometri dal povero stato settentrionale venezuelano di Sucre, dove i settori del turismo e del petrolio sono crollati. Su queste isole oltre 30.000 venezuelani sono arrivati negli ultimi tre anni rischiando la vita nelle mani di contrabbandieri e trafficanti di esseri umani. Coloro che sopravvivono ai naufragi e agli scontri violenti con le pattuglie di frontiera, che non esitano ad uccidere, non ricevono protezione all’arrivo e le donne sono molto spesso vittime della tratta e costrette alla schiavitù sessuale, spesso con la complicità dei corrotti funzionari locali. Trinidad è a detta dell’ONU lo stato che peggio tratta i migranti in fuga dal Venezuela.
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di Veronica Rossi su Vita
“Ho quello che molti definiscono ‘tutti i difetti possibili’: sono donna, araba, musulmana e africana, ma sono le cose di cui vado più fiera. E oggi sono fiera anche di essere italiana”. Si racconta così Faiza Bourhaleb, fisica marocchina in Italia dal 1999, prima come dottoranda e poi come fondatrice di una società, I-See, che si occupa dello studio degli effetti delle radiazioni sui pazienti oncologici. Questa è solo una delle storie raccontate sul portale del progetto multidisciplinare e interdipartimentale Scienza Migrante – Storie di Scienza e Migrazione finanziato dall’Università di Torino nell’ambito del Bando 2021 per i progetti di Public Engagement e realizzato in collaborazione con la sezione di Torino dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, con l’obiettivo di condividere e valorizzare il patrimonio culturale e scientifico degli immigranti sul territorio piemontese.
Dagli anni ‘90 a oggi, il fenomeno migratorio verso la Penisola ha conosciuto una crescita costante, tanto che, ora, la percentuale di popolazione straniera residente in Italia arriva al 9%. Spesso però si tratta di persone di cui non viene raccontato il background e il percorso di vita, fino ad appiattirle su un profilo comune, spesso stereotipato.
“Avevo in mente questa idea da molti anni”, racconta Michela Chiosso, docente presso il dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e responsabile scientifica del progetto. “È nata da una riflessione sull’immigrazione: mi è capitato spesso di incontrare delle persone che nei loro paesi di origine erano scienziate e che in Italia si sono reinventate. Volevo anche combattere il pregiudizio, che a volte si sente nel dibattito pubblico e sui media, secondo il quale tutti i migranti non hanno un alto livello di istruzione”.
L’iniziativa è composta da tre fasi, complementari tra loro. Scienza Migrante, infatti, è un portale che racchiude storie di scienziati migranti, che sono arrivati in Europa portando con sé il loro bagaglio culturale e di conoscenze, così come uno sguardo diverso sul metodo di ricerca. Ma è anche un progetto educational per le scuole primarie e secondarie ideato e curato assieme alle persone con background migratorio e una serie di aperitivi itineranti nelle Case del Quartiere di Torino, organizzati a cadenza mensile in collaborazione con RKH Studio e Associazione Centro Scienza Onlus.
Il primo evento si è tenuto mercoledì 6 luglio, e ha rappresentato una preziosa occasione di incontro, soprattutto per i protagonisti dell’iniziativa. “Si tratta di un momento di condivisione”, continua Chiosso, “che permette alle persone di conoscersi e di fare comunità: durante la serata inaugurale sono stati scambiati tanti contatti e si sono create delle belle sinergie, tutti erano entusiasti”. Il progetto si chiuderà ufficialmente nell’estate del 2023, ma la sua ideatrice vorrebbe che acquistasse gambe proprie. Al portale Scienza Migrante possono infatti collaborare anche nuove persone, proponendo le loro storie nella sezione dedicata del sito. In futuro, in più, saranno caricati materiali audiovisivi ed è in lavorazione un podcast costruito utilizzando le interviste. “L’obiettivo dei nostri interventi è duplice”, conclude la docente, “vorremmo far riflettere sul valore del pensiero scientifico e della pluralità di sguardi e di approcci, ma anche fornire una fonte di ispirazione ai giovani, attraverso le storie di resilienza e di coraggio di chi ha dovuto lottare per raggiungere un alto grado di istruzione e di realizzazione professionale”.
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Di Anna Pozzi su Avvenire
«Ci sono ragazzi che partono senza sapere cosa li aspetta. Alcuni arrivano in Marocco e pensano di essere già in Europa. Invece, il peggio deve ancora cominciare!». Un velo di tristezza adombra per un attimo gli occhi di Nafy Konaré che solitamente sono luminosi e fieri. Esprimono tutta la caparbietà e l’entusiasmo di questa giovane donna che ha deciso di intraprendere una strada “al contrario”: quella di una migrante di successo in Europa che è tornata nel suo Paese, il Senegal, per investire nell’agricoltura. «E’ questo il futuro – si dice convinta nella sua casa di Thiès, a est di Dakar – sia per dar da mangiare a questo Paese molto vulnerabile dal punto di vista della sicurezza alimentare, sia per frenare i flussi migratori di tanti giovani che partono con la sola idea di partire».
Sognano l’Eldorado e finiscono all’inferno. E’ quello che è successo lo scorso 24 giugno a ridosso dell’exclave spagnola di Melilla, dove sono morte 37 persone. Ma è quello che succede continuamente anche lungo la rotta marittima verso le Canarie, una strage quotidiana e invisibile di migliaia di giovani africani che tentano la traversata su fragili piroghe. Sono già quasi 9mila quelli sbarcati nel 2022, ma nessuno sa esattamente quanti ce l’hanno fatta. Quella di Nafy e della sua famiglia, che ha creato KonaTrans, una società di produzione, trasformazione e trasporto di prodotti alimentari – tra cui il fonio, un cereale tipico dell’Africa Occidentale, recentemente riscoperto per le sue proprietà nutritive – è una delle tante storie di impegno dal basso che si incontrano in Senegal. Storie di coraggio, di fatiche e di lotte. Per Nafy, come per molti altri, non si tratta solo – ed è già tanto – di contrastare l’impatto dei cambiamenti climatici sull’agricoltura e di far fronte ai troppi impedimenti e ai pochi finanziamenti: è anche una battaglia culturale per cambiare una mentalità diffusa specialmente tra i giovani che considerano degradante il lavoro nei campi e preferiscono partire, andando a ingrossare i flussi migratori interni – che stanno facendo esplodere le periferie sempre più sterminate e degradate di città come Dakar – e quelli verso l’Europa.
Ababacar Diouf è stato in un certo senso un “pioniere” della migrazione verso l’Italia, che si è ingrossata sino a fare della comunità senegalese la prima subsahariana con le sue 111 mila presenze. Diouf è arrivato nel nostro Paese nel 1979 per studiare Agraria a Firenze e poi tornare a Dakar. Oggi lavora come capo dipartimento al ministero dell’Agricoltura. «Una delle questioni che ci preoccupa di più – spiega – è la gestione dell’acqua. La nostra agricoltura è strettamente legata alle precipitazioni che sono sempre più irregolari. Già da dieci anni lavoriamo su cambiamento climatico, agricoltura e insicurezza alimentare. E già diverse volte siamo dovuti intervenire con piani straordinari».
Il suo ministero, in collaborazione con l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics), ha avviato nel 2021 un importante programma triennale denominato Piesan nella zona delle Niayes. «Si tratta di un progetto di agricoltura eco-sostenibile – spiega Serigne Cissé, consigliere del ministero per Piesan – che mira ad appoggiare gli agricoltori, in particolare giovani e donne, affinché possano migliorare le produzioni, il trasporto e le vendite e unirsi in cooperative per diventare più forti». L’obiettivo è anche quello di fornire strumenti e competenze per far fronte ai cambiamenti climatici, alla salinizzazione della terra e all’utilizzo abusivo di pesticidi, ma anche di creare lavoro e promuovere la salvaguardia dell’ambiente. «Sono coinvolti anche giovani che pensavano di emigrare e altri che sono di ritorno. Un po’ alla volta si rendono contro che attraverso l’agricoltura possono vivere meglio loro e le loro comunità».
Ci sono anche diverse ong italiane che lavoro in questo ambito: come Cospe, Lvia e Cisv, che hanno da poco concluso il progetto Migra (Migrazioni, Impiego, Giovani, Resilienza, Auto-impresa) nelle regioni meridionali, al confine con Guinea e Guinea-Bissau, coinvolgendo pure migranti di ritorno, che spesso soffrono lo stigma sociale del fallimento, oltre ai traumi del viaggio. Queste regioni sono potenzialmente più ricche d’acqua, rispetto a quelle del centro e del nord, ma anche qui si è sentito, insieme ai cambiamenti del clima, l’impatto del Covid-19. «In tutti i settori che abbiamo analizzato – agricoltura, allevamento, pesca, ma anche ristorazione, artigianato e trasporti – abbiamo notato come siano state colpite principalmente le imprese più piccole e meno strutturate. Tutto ciò si è tradotto in un calo importante delle attività», precisa Anna Meli, responsabile comunicazione di Cospe, in missione in queste terre.
Terre dalle grandi potenzialità, ma anche estremamente fragili, dove si vede in maniera ancora più evidente l’intreccio di cause ed effetti del clima impazzito, anche di conflitti e instabilità, di speculazioni e sperequazioni, dei contraccolpi della pandemia e di quelli della guerra in Ucraina, con migliaia di tonnellate di cereali bloccate nei porti, mentre nel mondo cresce l’allarme- fame e l’esodo forzato di popolazioni. Il Senegal, del resto, si colloca proprio sul margine occidentale di quella vasta ragione del Sahel e dell’Africa Occidentale che oggi è tra le più a rischio al mondo. Quest’anno le previsioni delle agenzie internazionali sono particolarmente catastrofiche: si stima, infatti, che tra giugno e agosto più di 38 milioni di persone saranno in situazioni di crisi alimentare, con particolari criticità nelle aree interessate da crisi e insicurezza. Anche in Senegal c’è molta preoccupazione. Il Paese – che è uno dei pochi stabili nella regione – sta vivendo settimane di fibrillazioni politiche e di manifestazioni talvolta violente, in vista delle elezioni legislative di fine luglio. Ma se a Dakar si respira un po’ di questa tensione, nelle aree rurali lo sguardo è rivolto innanzitutto verso l’alto a scrutare il cielo in vista delle attesissime piogge stagionali.
«Quest’anno nel Sud sono arrivate in anticipo di due settimane – spiega il responsabile del servizio meteorologico dell’aeronautica militare senegalese (Anacim), Diabel Ndiaye – ma nel 2020 il gioverno ha dovuto mettere in campo un piano d’urgenza per la sicurezza alimentare a causa della siccità. La situazione climatica è sempre più instabile». Il grafico che ci mostra non lascia spazio a dubbi: dall’inizio del secolo scorso sino agli anni Novanta, si susseguono con regolarità strisce azzurre, che un po’ alla volta si alternano a strisce arancioni e rosse, sino a diventare progressivamente di un unico colore bordeaux sempre più scuro. «L’innalzamento delle temperature – ci dice – è un’evidenza- Ma a creare molti problemi sono anche l’imprevedibilità delle precipitazioni e i fenomeni meteorologici estremi, così come la salinizzazione e l’erosione delle terre».
Sidy Sarr sa bene cosa significa tutto questo. «Sono loro che mi danno da vivere! – esclama mentre ci mostra orgoglioso i suoi campi lussureggianti -. Occorre però modernizzarci. Non possiamo più affidarci solo alle piogge». Lui, infatti, si affida al sole. Accanto a una vasca piena d’acqua, c’è un piccolo impianto solare che fa funzionare la pompa e l’irrigazione. «L’altra grande forza sta nel non rimanere isolati». Lui, ad esempio, è vice segretario di una cooperativa con circa cinquemila iscritti: «Lo sviluppo – dice – si fa insieme!».
Hanno collaborato Codou Loum e Anna Sarr nell’ambito del progetto Nouvelles Perspectives.
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Di Patrizia Baldi, Murilo H. Cambruzzi su Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea
Il progetto Un Tè a Samarkand nasce dal bisogno di scardinare la narrativa e di cambiare la prospettiva sulle storie di esilio in Italia, tralasciando un racconto generalizzante a favore di un racconto in prima persona e transculturale. Il progetto ha come base la ormai decennale esperienza della Fondazione CDEC nella raccolta di testimonianze e nello studio del fenomeno dell’immigrazione e dell’esilio ebraico. Partendo da un approccio transculturale ed intersezionale, il filmato tocca diversi argomenti nodali e attuali (tradizioni, discriminazione, trauma, appartenenza, etc) per mezzo delle vicissitudini personali dei protagonisti del documentario che provengono da varie comunità e hanno subito discriminazioni e persecuzioni legate alle loro identità, cioè, appartenenza etnica, religione (o ateismo), orientamento sessuale, genere, etc. Oltre al fatto di condividere la condizione dell’esilio, quello che emerge da questo documentario è che sebbene provengano da paesi e culture diverse, i protagonisti coinvolti hanno elementi, tradizioni, usanze, etc, che li accomunano: sia chi è arrivato in Italia da meno di tre anni, sia chi è qui da più di cinquanta.
Il progetto muove da un incontro di carattere esistenziale, davanti ad una tazza di tè in una sala del ristorante Samarkand a Milano, tra persone appartenenti a gruppi minoritari differenti. Samarkand è stato fondato da un gruppo di rifugiati afghani di cultura hazara; oltre a essere un ristorante che offre una varietà di cibo tipici dei paesi dell’Asia Centrale, questo luogo promuove attività culturali e rappresenta il focolare della comunità hazara a Milano.
Nel documentario vengono dibattute questioni rilevanti nel dibattito pubblico italiano, come esilio, immigrazione, discriminazione, antisemitismo, cittadinanza, accoglienza, memoria, etc. La narrativa sui rifugiati in Italia è recente e non include le persone già radicate nel nostro paese da decenni, esse pure costrette a lasciare i paesi d’origine in quanto minoranze perseguitate.
I protagonisti del filmato sono:
Amichai Lazarov, ebreo italo-americano, imprenditore, nato nel 1954 in Israele, di origine Bukhara.
Amin Wahidi, italo-afghano, regista, nato nel 1982 in Afghanistan, di origine Hazara, scappato nel 2007.
Ashraf Barati, afghano, ristoratore, nato nel 1980 in Afghanistan, di origine Hazara, scappato nel 2006.
Azad, profugo politico, nato negli anni 80 in Iran, discriminato per motivi politici, di orientamento sessuale e religiosi (ateo), in Italia da tre anni .
Betti Guetta, ebrea italiana, ricercatrice della Fondazione CDEC, nata nel 1956 in Libia, scappata nel 1957.
Nanette Hayon, ebrea italiana, collaboratrice della Fondazione CDEC, nata nel 1951 in Egitto, scappata nel 1956.
Progetto organizzato dalla Fondazione CDEC con il supporto di: Memoriale della Shoah Milano, Laboratorio Lapsus, Razzismo brutta storia, Arcigay Milano e Deina.
Il filmato integrale è disponibile qui.
La versione corta del filmato è disponibile qui.
Immagine in evidenza di Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea
Superare il sistema binario tra la gestione dello Stato e quella degli enti locali, bloccare la proliferazione dei centri di accoglienza straordinaria, garantire standard adeguati e uniformi, valorizzare il ruolo delle famiglie, attuare una progettazione condivisa, istituire una modalità permanente di consultazione del terzo settore. Sono sei le proposte per riformare il sistema di accoglienza italiano, presentate oggi (22/06/2022) dal Tavolo Asilo in una conferenza stampa a Roma.
“La nostra proposta nasce da un’indagine che abbiamo realizzato interrogando gli operatori e le operatrici che lavorano nei progetti territoriali – spiega Filippo Miraglia di Arci e coordinatore del Tavolo Asilo e immigrazione -. Quest’anno ricorrono i vent’anni della legge Bossi-Fini, una delle riforme legislative peggiori della storia dell’immigrazione in materia di asilo. In quella riforma, che puntava a ridurre lo spazio dei diritti degli stranieri, legandone la presenza a un contratto di lavoro, gli ultimi due articoli introducevano il sistema di accoglienza unico per richiedenti asilo e rifugiati. Eppure in tutti questi anni non si è riusciti ad abbandonare un approccio emergenziale per strutturare un sistema che risponda realmente alle esigenze del nostro paese e delle persone che arrivano qui a chiedere protezione – aggiunge Miraglia -. Le recenti vicende legate alla crisi ucraina hanno dimostrato che il sistema non è in grado di rispondere adeguatamente, il Governo ha affidato la gestione alla Protezione civile e a distanza di 4 mesi la risposta è stata marginale. La stragrande maggioranza delle persone è accolta da privati, amici e parenti”.
La proposta dettagliata di riforma dell’accoglienza parte da un punto fondamentale: superare il sistema binario. Come spiega Gianfranco Schiavone presidente dell’Ics di Trieste e membro di Asgi, “oggi c’è una chiara distinzione di competenza tra stato e autonomie locali. Ma nella prassi vige una confusione totale su chi deve fare cosa”. Per questo il Tavolo Asilo chiede un trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale e trasformare il Sai (Sitema di accoglienza e integrazione) da programma a sistema unico. Inoltre, secondo le organizzazioni che compongono il Tavolo bisogna superare la volontarietà da parte degli enti locali nell’assumere la scelta su se e quando aderire nonché uscire dal sistema di accoglienza. “Questo ha impedito negli anni che il sistema si sviluppasse, diventando un programma nazionale di accoglienza diffusa e integrata – aggiunge Schiavone -. E’ altresì difficile per un amministratore locale coscienzioso aderire a un progetto di accoglienza se è in un territorio in cui altri non lo fanno anche per ragioni elettorali e di propaganda. Tutti, invece, devono essere chiamati a fare la loro parte”.
In secondo luogo si chiede di fermare l’infinita proliferazione dei cas, i centri prefettizzi per l’accoglienza straordinaria ed attuare un programma nazionale per il loro progressivo superamento. Per farlo sarà necessario investire le regioni della responsabilità di attuare il trasferimento delle competenze, anche attraverso l’istituzione di una cabina di regia regionale che coinvolga le prefetture, Anci e una rappresentanza del terzo settore. Si chiede anche di adottare subito alcune concrete misure di incentivo agli enti locali che intendono aderire al Sai, prevedendo in particolare l’assegnazione di un contributo economico periodico pluriennale.
Il terzo punto della riforma riguarda la modifica dei capitolati di gestione dei cas per garantire standard adeguati ed uniformi su tutto il territorio. Si chiede poi di superare la logica dello scambio utilitaristico nella gestione dei servizi di accoglienza e attuare una progettazione condivisa tra enti locali e il terzo settore. Il quinto punto riguarda il riconoscimento del valore e la promozione dell’accoglienza in famiglia all’interno del sistema istituzionale. “Dai primi anni 2000 si sono sviluppate esperienze indipendenti all’interno delle famiglie italiane ma ad oggi tutto questo rimane a livello di sperimentazione – sottolinea Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome -. Vogliamo invece che siano considerate all’interno di un piano accoglienza”. Infine, la riforma pensata dal Tavolo asilo si chiude con la richiesta dell’istituzione in modalità permanente di consultazione degli enti di terzo settore.
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