Di Alessandro Luparello su Voci Globali
“In molti Paesi europei, negli ultimi anni i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che hanno aiutato rifugiati e migranti sono stati sottoposti a procedimenti penali infondati, limitazioni indebite alle loro attività, intimidazioni, vessazioni e campagne denigratorie. Le loro azioni di assistenza e solidarietà li hanno messi in rotta di collisione con le politiche europee sulla migrazione, che hanno l’obiettivo di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere l’Unione Europea, di trattenere quelli che riescono a entrare in Europa nel Paese di primo arrivo e di espellerne quanti più possibile verso i loro Paesi d’origine.”
“Soccorrendo rifugiati e migranti in pericolo in mare o sulle montagne, offrendo loro riparo e cibo, documentando gli abusi della polizia e delle guardie di frontiera e opponendosi alle espulsioni illegali, i difensori dei diritti umani hanno svelato la crudeltà delle politiche sull’immigrazione e sono diventati essi stessi bersagli delle autorità. I leader politici e le forze di sicurezza hanno trattato atti di umanità come minacce all’ordine pubblico, ostacolando ulteriormente il loro lavoro e costringendoli a impiegare le loro scarse risorse e le loro energie per difendersi in tribunale.”
Ecco l’inizio, inequivocabile nelle affermazioni e nei termini, della sintesi del rapporto “Punire la compassione: solidarietà sotto processo nella Fortezza Europa”, pubblicato a marzo 2020 da Amnesty International.
Queste frasi riassumono la prepotente e pervasiva deriva xenofoba e di chiusura asfittica (e violenta) dei confini cui assistiamo in Europa, e in Italia. Il tutto, osserviamo, passa attraverso una narrativa d’odio verso l’altro, il diverso, lo straniero e, per riflesso, verso chiunque si muova in suo aiuto per il rispetto dei diritti universali e per umano senso di fratellanza e sorellanza.
Ma è sempre stato così? In Italia, almeno, è indubbio un cambio di passo, una modifica del linguaggio che ha seguito il deciso indirizzo politico e ha comportato un significativo impatto sull’opinione pubblica. Ricordiamo bene come la narrativa mediatica, politica e informativa, sia scivolata velocissimamente dalla retorica degli “angeli del mare” a quella -delirante e falsa ma strumentale- dei “taxi del mare” (rimanendo nel campo delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo delle persone migranti).
Proviamo a capirne di più parlando con Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato che opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse ONG, e con Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans e che è stato direttamente oggetto di inchieste legate alla sua attività di salvataggio di persone in mare.
Partiamo proprio dal linguaggio. Quanto è stato importante, nel cambio della percezione generale dei cittadini, la modifica del linguaggio usato dalla politica e veicolato/amplificato attraverso i canali di comunicazione?
Luca Casarini afferma senza esitazioni che è stato fondamentale.“Pensiamo appunto alla formula, introdotta da Di Maio, dei ‘taxi del mare’. È quello il momento – cristallizzato in uno slogan per i media- nel quale l’umanitario diventa un campo di conflitto e non più un ‘contradditorio ma tollerabile’ terreno di relazione tra istituzioni e società civile. Si rende esplicito e radicale, da parte dello Stato, il tentativo di ‘dividere’ il lavoro e l’impegno umanitario in ‘sussidiario’, e dunque buono, e ‘sovversivo’, e quindi cattivo.
I danni di un’operazione del genere, alimentata dalla grancassa dei media, sono incalcolabili sul piano culturale e sociale. Ovviamente, per legittimare il processo di criminalizzazione dell’umanitario, c’è bisogno di ‘spersonalizzare’ le vittime delle violazioni dei diritti umani: devono essere solo numeri, non persone con volti, storie, nomi, parenti e famiglie.”
La spersonalizzazione e disumanizzazione delle persone è appunto un passaggio cruciale e fondante di quella narrativa che ci consente di attaccare l’altro, finalmente scevri da dubbi etici e dal controllo delle coscienze, autoassolvendoci da ogni disumanità e crudeltà che altrimenti -riconoscendola- non saremmo in grado di tollerare in noi stessi.
Fulvio Vassallo Paleologo precisa che “purtroppo il linguaggio discriminatorio non si è limitato ai media ma è entrato nel corpo di provvedimenti delle procure siciliane che hanno indagato e chiesto il rinvio a giudizio delle ONG accusate di facilitare l’ingresso ‘clandestino’ dei naufraghi soccorsi in mare. Molte persone che avrebbero potuto trovare salvezza in Europa continuano ancora oggi ad essere internate nei centri di detenzione in Libia, o abbandonate in mare”.
E aggiunge che “utilizzare espressioni come ‘migranti sottratti alla guardia costiera libica’ – nel corpo di importanti provvedimenti di richiesta di rinvio a giudizio di operatori umanitari (come nel caso Iuventa) che hanno soccorso in mare migliaia di vite – equivale a dare una valenza sanzionatoria all’espressione ‘taxi del mare’, in assenza di qualsiasi base legale e dopo che questa vergognosa definizione è stata ampiamente smentita dai fatti documentati nei numerosi processi nei quali le indagini contro le ONG sono state archiviate”.
Ma se dovessimo individuare -semplificando – un momento specifico in cui maggiormente si è costruito e manifestato un cambio di approccio delle Istituzioni italiane ed europee al fenomeno migratorio e alla comunicazione dello stesso verso i cittadini, quale potremmo identificare?
Una dettagliata risposta arriva da Fulvio Vassallo Paleologo: “L’anno della svolta è il 2017. Dal 2014 in poi gli arrivi via mare in Italia si erano moltiplicati, soprattutto per effetto della crisi siriana, con 170.000 persone arrivate nel 2014 e 153.000 persone arrivate nel 2015 (secondo dati dell’UNHCR e del Ministero dell’interno); nel 2016, dopo gli accordi stipulati dai Paesi dell’Unione Europea con la Turchia e la chiusura quasi completa delle rotte sull’Egeo, erano stati soccorsi nel Mediterraneo centrale oltre 180.000 profughi, poi sbarcati in Italia e provenienti in gran parte dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq, numero che nel 2017 era destinato a crollare, soprattutto dopo la stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli del 2 febbraio 2017.
La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cosiddetti ‘clandestini’, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali, le associazioni di volontariato e i singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. È finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.
A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle ONG che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari”.
Anche Luca Casarini individua lo stesso momento storico: “Mi sembra che uno dei momenti ‘topici’ degli ultimi anni, che può rappresentare bene un ‘cambio di narrazione’ da parte delle istituzioni in merito al fenomeno migratorio, si possa ascrivere alla famosa intervista su Repubblica del 29 agosto del 2017 dell’allora ministro degli interni Marco Minniti nella quale affermava ‘sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del Paese’”.
Proprio a questo proposito, quanto peso hanno avuto l’aumento del numero degli arrivi, sulle nostre coste, di persone in percorso migratorio e – appunto – la ‘paura per la tenuta democratica’ e quanto invece la progressiva chiusura degli Stati europei?
Ancora Luca Casarini: “Ci voleva la guerra in Ucraina per far capire che la questione dei ‘numeri’ è tutta una montatura. Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti in un continente di 500 milioni. Stiamo parlando di arrivi alle frontiere, anche negli anni di punta che non sono gli ultimi dieci, di numeri gestibilissimi. Non vi sono invasioni, non vi sono esodi di popolazioni intere, niente come ciò che abbiamo gestito in una settimana per l’Ucraina. E comunque, il fenomeno dello spostamento di esseri umani nel mondo riguarda poco meno di 100 milioni di persone. In un pianeta di 7 miliardi.
È un fenomeno strutturale, permanente e incentivato solo e solamente dalle scelte politiche, economiche ed energetiche della parte che si mangia l’80% delle risorse disponibili e che è il 20% della popolazione mondiale, concentrata nel Nord del pianeta. Di fronte a questo abbiamo anche il coraggio di meravigliarci? Di fare le ‘povere vittime’ dell’immigrazione incontrollata? Inondiamo il mondo di armi e di guerre, devastiamo interi Paesi per succhiargli petrolio, gas, diamanti, minerali e li riduciamo a dei luoghi invivibili, dove non si può nemmeno piantare una patata, e poi ci lamentiamo?
Produciamo tanta CO2 da alzare la temperatura globale fino a desertificare, ogni giorno, centinaia di chilometri quadrati di terre. Disboschiamo le grandi foreste al ritmo di una Lombardia al giorno, ma siamo davvero senza vergogna a tal punto da proferire ancora parola su questo?”.
“Adempiere gli obblighi di soccorso sanciti da un Regolamento europeo” – aggiunge Fulvio Vassallo Paleologo – “non può comportare rischi per la tenuta democratica di un Paese. Sono comunque molto più gravi i rischi, che spesso comprendono il sacrificio della vita umana in mare, per le persone abbandonate in acque internazionali senza che gli Stati inviino mezzi di soccorso o assumano i compiti di coordinamento delle operazioni di salvataggio previsti dalle Convenzioni internazionali”.
La criminalizzazione, giocata su più tavoli, ha riguardato e continua a riguardare attiviste e attivisti, associazioni, organizzazioni (peraltro altrimenti molto stimate, come Medici Senza Frontiere) impegnate nella solidarietà, nel soccorso, nell’aiuto alle persone in percorso migratorio.
E questo nonostante alcune palesi evidenze, più volte dimostrate, come il fatto che – senza il soccorso operato da ONG e attivisti (in supplenza degli Stati assenti) – le persone sarebbero probabilmente morte (il Mediterraneo è la rotta migratoria più mortale al mondo). O come il fatto che il numero di persone che tenta di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa non dipende dall’eventuale presenza di navi SaR al largo (cfr. ricerche ISPI sul non-pull-factor delle navi delle ONG) . O come il fatto che, nel complesso delle persone che mettono piede sul territorio italiano all’interno di un percorso migratorio, il numero di persone che sbarcano da una nave SaR di una ONG è sostanzialmente marginale.
Perchè, nonostante queste palesi evidenze e nonostante finora tutte le (tante) accuse si siano rivelate infondate e strumentali, la retorica diffusa, la propaganda politica e l’attenzione mediatica continuano ad attaccare – anche attraverso fake news e hate speech – le ONG o comunque chiunque (professionista, attivista, associazione, ecc) operi nel campo della solidarietà?
Risponde Fulvio Vassallo Paleologo: “Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione e del diritto di chiedere asilo in un Paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale Governi di segno diverso hanno progressivamente eroso il principio di eguaglianza tra le persone e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Queste politiche hanno utilizzato la falsificazione come strumento di attacco contro le persone in movimento e poi contro quanti prestavano loro assistenza.
E alla fine hanno portato ad accordi con Stati nei quali non vi era alcuna garanzia per i diritti umani, accordi che oggi pesano anche per la loro forza di ricatto sulla soluzione delle crisi belliche più virulente. Le politiche di sicurezza nazionale, o di difesa dei confini hanno di fatto cancellato il diritto di chiedere asilo (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati come diritto di accedere ad un territorio sicuro) e hanno creato le premesse per la discriminazione e la marginalizzazione degli ultimi arrivati, fino alla criminalizzazione dei sopravvissuti e dei soccorritori”.
Le libertà movimento e di richiedere asilo, adesso richiamate dall’avvocato Paleologo e presenti (articoli 13 e 14) nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sono anche oggetto dell’appello “Passaporti, basta privilegi” promosso proprio da Voci Globali per rivedere la politica dei visti e garantire libertà di movimento a tutti i cittadini del mondo.
In conclusione chiediamo, ancora a Fulvio Vassallo Paleologo, quale sia la sua personale visione sulle reali cause del fenomeno di criminalizzazione della solidarietà.
“In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguaglianze tra i migranti forzati a seconda del Paese di origine, e addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina. Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento equo ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali?
Invece si alimenta la retorica dell’invasione, adesso anche con un’allarme sulla crisi alimentare globale derivante dal blocco dei porti ucraini.Come se la devastazione ambientale prodotta da decenni di sfruttamento da parte dei Paesi più ricchi non avesse già prodotto la migrazione forzata di milioni di persone, private del loro ambiente vitale. E molto spesso la maggior parte delle persone che fuggono dalle aree di crisi rimane nei Paesi limitrofi e non trova risorse e canali di accesso verso l’Europa.
Non esistono canali legali di ingresso e il rafforzamento dei trafficanti internazionali è una conseguenza diretta delle politiche migratorie dei paesi di destinazione che puntano tutto sul ‘contrasto dell’immigrazione clandestina’, senza consentire visti di ingresso e vie di fuga per i potenziali richiedenti asilo”.
L’avvocato Paleologo ha fatto riferimento alle diseguaglianze tra i migranti. Dato che Mediterranea è stata protagonista anche di un altro tipo di azione solidale dal basso, quella dei #SafePassage di sostegno alla popolazione Ucraina, chiediamo a Luca Casarini se ha notato, dal punto di vista politico e mediatico, un diverso atteggiamento verso Mediterranea rispetto a quello “subito” per via delle missioni in mare.
“Sì”, risponde Casarini. “Loro sono bianchi di pelle. Sono profughi di una guerra dove siamo alleati con lo Stato del loro Paese di origine. Loro sono strumentalizzati al contrario: quanto è brava l’Europa, l’Italia. Invece a Sud ci sono neri, africani, il simbolo razzista per antonomasia. Eppure sono tutti e tutte profughi. Noi siamo anche in Ucraina, perché la lotta a fianco della popolazione civile di un Paese aggredito da un esercito è la nostra bussola, la nostra resistenza. Ma proprio per questo lottiamo contro la disparità di trattamento delle persone. Tutti devono essere trattati come trattiamo i profughi ucraini”.
Concludendo, chiediamo a Luca Casarini di consegnarci un messaggio per contrastare la rassegnazione alle ingiustizie anche quando la loro forza e pervasività sono (o sembrano) soverchianti.
“La ‘Cospirazione del Bene’: è questo il messaggio. Creare un mondo diverso, non avere paura di opporsi ai potenti, alle loro leggi sbagliate, ai loro criminali modi di violare quelle giuste. Disobbedire a questo orrore, e obbedire a qualcosa di più grande, l’amore per i nostri fratelli e sorelle che soffrono. Noi di Mediterranea diciamo: ‘Noi li soccorriamo, loro ci salvano’. È così. Per salvarci tutti e tutte, dobbiamo lottare, combattere con negli occhi il sorriso di un bambino che ti abbraccia dopo che l’hai tirato su dall’acqua. Niente è più importante”.
Niente è più importante.
Foto in evidenza di Alessandro Luparello
Domenica 19 giugno, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, si terrà un convegno organizzato da UNIRE – Unione Nazionale Italiana per Rifugiati ed Esuli in collaborazione con Save the Children e CSV Lazio nell’ambito del progetto “Gestione di poli associativi del Progetto IMPACT Lazio volti a promuovere l’associazionismo straniero”.
L’evento si terrà presso la sede di Save the Children a Roma in Via S. Francesco di Paola, 9, dalle ore 11.00 alle ore 17.00.
Questo il programma della giornata:11.00 – SALUTISyed Hasnain, Presidente associazione UNIREGiusy D’Alconzo, Responsabile relazioni istituzionali e advocacy Save the Children
11.10 – PRIMA TAVOLA ROTONDAAccesso alla protezione dai conflitti: un diritto per tutti o un privilegio per pochi?MODERA Alidad Shiri, Giornalista e scrittoreINTERVENGONOChiara Cardoletti, Rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino dell’UNHCR, agenzia ONU per i Rifugiati*Valerio Cataldi, Presidente associazione Carta di RomaYagoub Kibeida, Direttore esecutivo associazione Mosaico e membro direttivo ECREMara di Lullo, Direttore Centrale per le politiche migratorie Autorità Fondo Asilo Migrazione e Integrazione*
14.30 – SECONDA TAVOLA ROTONDAAccesso alle vie sicure e legali per le persone in fuga dai conflittiMODERA Martina Bossi, Presidente associazione Large MovementsINTERVENGONOYagoub Kibeida, Direttore esecutivo associazione Mosaico e membro direttivo ECRESediqa Mushtaq, Presidente associazione Donne per le donneSiid Negash, Associazione Next Generation ItalyCarlotta Sami, Portavoce UNHCRDaniela Pompei, Responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi ai migranti e coordinatrice internazionale dei Corridoi Umanitari
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Sembra, stando a certe polemiche, che a un flusso di rifugiati ‘buono’ e ben accetto, quello proveniente dall’Ucraina (125mila persone secondo gli ultimi dati), se ne accompagni un altro, cattivo, o comunque sgradito: quelli che arrivano via mare da Sud e da Sud-Est (20mila sbarcati nel 2022, fino ai primi di giugno). Eppure, ha ricordato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in un recente incontro con i sindaci calabresi, particolarmente coinvolti negli arrivi (quasi 4mila persone sbarcate nella Regione dall’inizio dell’anno) crescono soprattutto gli approdi dall’Afghanistan.
Se l’Ucraina è devastata dalla guerra, è un po’ difficile sostenere che l’Afghanistan sia un’isola di pace e di rispetto dei diritti umani.
Proprio le generose mobilitazioni in favore dei profughi ucraini dovrebbero insegnare che la soglia di tolleranza, oltre la quale i rifugiati diventano troppi e ingestibili, risiede nel nostro sguardo, non nei numeri in sé. Dipende dalla nostra apertura, della mente e del cuore: da quanto li percepiamo come parte della nostra stessa umanità, come persone ingiustamente perseguitate e costrette alla fuga. Insinuare che gli afghani non lo siano è un arduo esercizio politico e retorico.
Accogliere tuttavia comporta degli oneri, non v’è dubbio. È importante quanto affermato dalla ministra al riguardo: rafforzamento delle strutture di accoglienza, coinvolgimento di organizzazioni della società civile, rimborsi ai Comuni delle spese che sosterranno. I rifugiati arrivano e chiedono accoglienza in luoghi precisi: l’integrazione è necessariamente locale, come la risposta alle esigenze delle persone. Decisiva quindi, come nella gestione dei profughi ucraini, è l’attivazione di forme di accoglienza diffusa e di reti di partenariato sul territorio, basate sulla collaborazione tra istituzioni pubbliche e soggetti sociali chiamati a partecipare a un impegno condiviso. E necessario è anche l’aiuto dello Stato per rendere sostenibile l’accoglienza nel medio-lungo periodo, con le diverse misure d’integrazione da attivare: corsi di lingua, scuola per i minori, formazione professionale, assistenza sanitaria, orientamento al lavoro. Accelerando, con idonee misure di accompagnamento, l’incontro tra profughi pronti a inserirsi nel sistema occupazionale e settori dell’economia bisognosi di manodopera, come è avvenuto con l’accordo firmato a maggio da governo e parti sociali per l’inserimento di 3mila rifugiati nel settore delle costruzioni, formandoli mediante le Scuole edili a gestione congiunta.
Un terzo messaggio riguarda l’Unione Europea. Come ha ricordato Lamorgese, chi arriva in Italia arriva in Europa. La soluzione però non è una qualche redistribuzione di quote di profughi da assistere. Diversi altri Paesi della Ue, infatti, accolgono più rifugiati di noi, in assoluto e in rapporto alla popolazione.
Guardando alle prime domande di asilo (Eurostat), nel 2021 ci precedono Germania (148.200), Francia (103.800), Spagna (62.100). L’Italia è a quota 43.900, seguita da vicino dalla ‘piccola’ Austria (36.700). Ma il punto principale è che le persone non sono rifiuti ingombranti da smaltire, negoziando la suddivisione dell’onere tra i Paesi interessati.
Prendendo spunto anche a questo proposito dal caso ucraino, dovremmo invece impegnarci a sostenere il loro diritto di scegliere dove intendono insediarsi per costruire la loro nuova vita, mandando una buona volta al macero le Convenzioni di Dublino che li bloccano nel Paese di primo ingresso.
L’accoglienza dei profughi ucraini ci sta impartendo una lezione preziosa, su di loro, su di noi, sulla nostra capacità di accogliere. Facciamo in modo che si estenda anche a chi fugge da altre guerre e catastrofi umanitarie.
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Su Redattore Sociale
Sebbene il numero di rifugiati e migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa sia diminuito rispetto al 2015, le traversate stanno diventando sempre più fatali. Questi i dati che emergono dalla Rappresentazione grafica pubblicata oggi (10 giugno) dall’Unhcr, Agenzia Onu per i Rifugiati.
“Dopo il picco del 2015, quando più di un milione di rifugiati e migranti hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, il numero delle persone che affrontano questo tipo di traversate ha registrato una tendenza al ribasso, anche precedentemente alla pandemia di Covid-19 – afferma l’organizzazione -. Nel 2021 sono stati segnalati 123.300 attraversamenti individuali, a cui precedevano 95.800 nel 2020, 123.700 nel 2019 e 141.500 nel 2018. Nonostante la diminuzione del numero di attraversamenti, il bilancio delle vittime ha visto un forte aumento. L’anno scorso sono stati registrati circa 3.231 morti o dispersi in mare nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord-occidentale. Nel 2020 il numero registrato corrispondeva a 1.881, 1.510 nel 2019 e oltre 2.277 nel 2018. Il numero potrebbe essere ancora più elevato con morti e dispersi lungo le rotte terrestri attraverso il deserto del Sahara e zone di confine remote”.
L’Unhcr ha costantemente richiamato l’attenzione sulle terribili esperienze e sui pericoli affrontati dai rifugiati e dai migranti che intraprendono queste rotte. “Molti di loro sono individui in fuga da conflitti, violenze e persecuzioni. La rappresentazione grafica dei dati si concentra in particolare sulla rotta che va dall’Est e dal Corno d’Africa al Mediterraneo centrale”.
Oltre al crescente numero di morti in mare, l’Unhcr manifesta preoccupazione per le morti e gli abusi diffusi lungo le rotte terrestri, più comunemente all’interno e attraverso i Paesi di origine e di transito, tra cui Eritrea, Somalia, Gibuti, Etiopia, Sudan e Libia, dove viene segnalata la preoccupante maggioranza dei rischi e degli incidenti. “Durante il loro percorso, i rifugiati e i migranti hanno poche opzioni se non quella di affidarsi ai trafficanti per attraversare il deserto del Sahara, esponendosi a un rischio molto alto di abusi. Dalla Libia e dalla Tunisia, sono molti i tentativi di attraversare il mare, il più delle volte verso l’Italia o Malta. In molti casi, coloro che sopravvivono al passaggio attraverso il Sahara e tentano la traversata in mare vengono abbandonati dai trafficanti, mentre alcuni di coloro che partono dalla Libia vengono intercettati e riportati nel Paese di partenza, dove vengono successivamente detenuti. Ogni anno, migliaia di persone muoiono o scompaiono in mare senza lasciare traccia”.
Invitando a intensificare le azioni per prevenire le morti e proteggere i rifugiati e i richiedenti asilo che intraprendono queste rotte, all’inizio di aprile l’Unhcr ha pubblicato una strategia aggiornata concernente la protezione e le soluzioni, insieme a un appello per i finanziamenti. L’appello chiede di aumentare l’assistenza umanitaria, il sostegno e le soluzioni per le persone che necessitano di protezione internazionale e per i sopravvissuti a gravi abusi dei diritti umani. Coinvolge circa 25 Paesi in tre regioni diverse, collegate dalle stesse rotte terrestri e marittime utilizzate da migranti, richiedenti asilo e rifugiati.
Allo stesso tempo, l’Unhcr esorta gli Stati a garantire alternative sicure alle traversate pericolose e a impegnarsi a rafforzare l’azione umanitaria, di sviluppo e di pace per affrontare le sfide della protezione e delle soluzioni.L’Unhcr, insieme ad altre agenzie Onu, ha sollecitato gli Stati ad adottare misure che garantiscano che i rifugiati e i migranti soccorsi in mare vengano fatti sbarcare in luoghi dove la loro vita e i loro diritti umani siano salvaguardati.
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Di Antonella Sinopoli su Voci Globali
Deportazioni. Dove l’umanità vale niente. Dove l’uomo vale denaro. 160 milioni di dollari sarà la cifra pagata per quel carico di merce che arriverà a breve in Rwanda spedita dalla Gran Bretagna. Migranti, rifugiati anzi, provenienti per la maggior parte da Sudan, Eritrea, Afghanistan, Iran e Iraq.
Non propriamente Paesi in cui andare a fare una vacanza o in cui vorresti vivere. Paesi dove sono in corso conflitti, a volte decennali, dove il pericolo di morire (di violenza, mancanza di lavoro, stenti) è reale, dove le crisi umanitarie fanno moltiplicare gli allarmi e le richieste di donazioni da parte degli organismi internazionali, la FAO, l’UNHCR per esempio. Bracci operativi di un sistema che si vorrebbe umanitario che però non ha nessuna forza di far smettere quanto accade. Che sta a guardare.
Come è accaduto per Mohamed Mahmoud Abdel Aziz. Proveniva dal Darfur, non proprio un bel posto dove crescere. Il fatto è che Mohamed non crescerà, non diventerà un uomo adulto. Meglio perderla la vita, meglio appendersi con una corda al collo, che continuare a farsi martoriare, picchiare, insultare, dimenticare.
Come era stato dimenticato da chi, appunto, avrebbe dovuto prendere in carico il suo caso e portarlo via da quel centro di detenzione – Ain Zara a Tripoli – dove lui e moltissimi altri conducevano una vita di abusi. E quanto puoi resistere… Quanto può resistere, non tanto il tuo corpo giovane, certo privato, ma quanto può resistere uno spirito piegato. E con quella delusione nel cuore di chi ha visto solo male.
Ma, the show must go on. Uno show, sì, crudele e ripetuto. Anzi, qualche modifica, qualche peggioramento qua e là. Chi sono le donne e gli uomini che verranno “trasferiti” in terra africana? A dire il vero importa poco. Sono clandestini, questo è quanto. Che si son presi la briga di attraversare la Manica – e già per arrivare fin lì quanti mesi, a volte anni, quante privazioni, quante violenze, quanti altri visti morire – per arrivare in un Paese civile, dove le leggi funzionano e anche i diritti umani sono una garanzia. Sbagliato. Essere arrivati fin lì non è garanzia di una vita diversa, finalmente.
Un migrante – quelli provenienti dai Sud del Mondo – un rifugiato, non è mai al sicuro in quest’Occidente malato e sbagliato. Come osano queste persone sperare che i diritti siano uguali per tutti, che mettere in salvo la pelle e la famiglia sia un’azione normale (anzi forse eroica), che un mondo diverso da qualche parte deve pur esserci.
Sarà in Rwanda questa vita diversa, assicura il ministero degli Interni britannico che anzi si è premurato di far sapere che questi “deportati” potranno rifarsi una nuova vita in sicurezza nel Paese dove stanno per essere spediti (i primi trasferimenti cominceranno il 14 giugno). Una delle (tante) cose assurde delle politiche europee sui migranti è che si continua ad insistere nel chiamarli “irregolari”.
Ma quanti di loro, per esempio, hanno già famiglie all’estero e potrebbero raggiungerle se solo avessero accesso ai visti che invece restano preclusi a chi ha passaporti che non valgono niente. Passaporti che sono carta straccia perché non ti assicurano il diritto di viaggiare, di emigrare. Le restrizioni e gli abusi istituzionali nascono a monte, con una parte del mondo che decide le sorti di tutti.
Altra cosa ridicola sono le dichiarazioni, false nei fatti, che tali trasferimenti (deportazioni) siano necessari per fornire un deterrente al traffico e ai trafficanti di esseri umani. Forse un deterrente sarebbe garantire davvero stessi diritti a tutti nelle stesse condizioni.
E cosa dicono dall’Africa? Quali voci si alzano per urlare, o almeno commentare, quanto sta accadendo? Silenzio, perlopiù. Ma non tutti. Come Mondli Makhania, direttore di City Press che si domanda dove sia l’Unione Africana in questo momento e parla di razzismo neanche ben mascherato insito nell’accordo tra Rwanda e Gran Bretagna. Mentre l’esperto dei diritti umani, Abdul Tejn Cole dalle pagine di Africa is a Country parla di “devil deal” e ricorda i brutti esempi forniti dal presidente Paul Kagame riguardo al rispetto e applicazione dei diritti umani.
Ma torniamo a Mohamed Aziz e a quell’immagine di lui che oscilla da una trave. Pare ci sia rimasto 24 ore prima di essere tirato giù. Sui social i ligi amministratori il cui compito è verificare che non vengano pubblicate foto di violenza o che possano turbare gli utenti si sono affrettati a rimuovere quell’immagine.
Non sarà così per quella che ritrae Valerie, la giovane ucraina fotografata con il suo bell’abito rosso, quello con cui avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia di diploma. E invece quella cerimonia non si terrà perché la sua scuola è andata distrutta dai bombardamenti russi. È una foto bella quella che ritrae Valerie, bella nonostante (e forse a causa) della sua tragicità.
Quella di Mohamed, fatta da un telefonino, è invece brutta, orribile. Mohamed un vestito bello non lo ha mai avuto, solo stracci. A scuola non ci è andato probabilmente (era impegnato a sopravvivere e a viaggiare verso la salvezza – no, verso la morte). Nessuno gli ha mandato aiuti in abiti, coperte, latte, beni di prima necessità.
Non ha zie (come quella di Valerie che ha diffuso la foto sui social) che si preoccuperanno per lui. O meglio, chissà quando e se sapranno mai che il loro nipote, figlio, fratello, amico è morto in quel modo. Non ha avuto l’occasione di fuggire dal nuovo orrore in cui era scivolato. La realtà – cruda ed evidente – è che anche nelle guerre (sempre atroci e insopportabili) c’è chi conserva il diritto alla pietà, alla solidarietà, alle azioni di singoli cittadini, organizzazioni e Governi che cercano di alleviare le conseguenze della guerra, le conseguenze del divenire un rifugiato.
C’è chi conserva questi diritti. E c’è chi questi diritti non li ha mai avuti.
Lesley Naa Norle Lokko, Ghanaian-Scottish architect poses for a picture in Cà Giustinian, Venice, 30 May 2022. Lesley Lokko has been appointed as the new curator of the Architecture sector of the Biennale. ANSA/ANDREA MEROLA
Di Roberto Nardi su Ansa
Lesley Lokko, architetta e scrittrice, scozzese di origini ghanesi, fondatrice nel 2020 in Ghana ad Accra dell'”African Futures Institute”, una scuola di specializzazione in architettura, sceglie due parole, “laboratorio” e “futuro”, per il titolo della 18ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia e pone al centro della sua proposta l’Africa. “Il continente più giovane del mondo”, dove le questioni che ci assillano l’oggi sul destino dell’umanità e della Terra – sociali, politiche, ambientali, legate alla mancanza d’acqua ed energia, sanitarie – sono già da tempo presenti, sarà il “protagonista”, il punto da cui guardare il mondo, della rassegna in programma dal 20 maggio al 26 novembre 2023, tra i Giardini e l’Arsenale e altri spazi della città lagunare con i padiglioni nazionali.
Inutile fare giri di parole per spiegare le ragioni della scelta: “qui in Europa – dice la curatrice – parliamo di minoranze e diversità, ma la verità è che le minoranze dell’Occidente sono la maggioranza globale; la diversità è la nostra norma. C’è un luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondano. L’Africa. A livello antropologico, siamo tutti africani. E ciò che accade in Africa accade a tutti noi”.
“Il laboratorio del futuro”, recita il titolo della mostra – le cui linee guida sono state presentate dalla curatrice e dal presidente della Biennale Roberto Cicutto – sarà una sorta di “bottega artigiana” che guarda all’architettura di domani, nel senso più ampio del termine, e parte da un punto di vista dell’Africa come spazio di elaborazione, messa in prova del futuro, ampliando la visione sull’intero pianeta attorno a temi propri del vivere insieme, del destino dell’umanità, della natura. L’Europa, quella parte del mondo che negli ultimi decenni ha cullato “un falso senso di sicurezza”, per la curatrice, si è trovata costretta a confrontarsi “con le stesse questioni riguardanti la terra, la lingua e l’identità che in molte parti dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente sono state e sono tutt’ora una costante”. Sulla scena così sono comparsi temi come “decolonizzazione” e “decarbonizzazione”, che sembrano “macrofenomeni” ma che si riflettono “a livello microscopico negli aspetti più intimi della nostra vita quotidiana”. Il tutto senza dimenticare la storia, la tragedia della schiavitù, e la curatrice ricorda: “con tutti i discorsi sulla decarbonizzazione è facile dimenticare che i corpi neri sono stati le prime unità di energia ad alimentare l’espansione imperiale europea che ha plasmato il mondo moderno. Equità razziale e giustizia climatica sono due facce della stessa medaglia”. Il dono dell’architettura – per Lesley Lokko – “è la capacità di influenzare il nostro modo di vedere il mondo”, con l’aiuto anche delle nuove tecnologie. Da qui, il bisogno di puntare l’attenzione sull’Africa, in un modo non teorico ma concreto, per interrogarsi sul mondo. La curatrice, al momento, ha reso note le linee guida del “laboratorio”, c’è un anno per dare sostanza al progetto, per mostrare al pubblico che gli architetti, nel segno della speranza, “sono attori chiave nel tradurre le immagini in realtà”. Roberto Cicutto si dice convinto che la mostra di Lesley Lokko – già in membro della giuria internazionale della passata edizione della Biennale, “How Will we live together” di Hashim Sarkis – non sarà “teorica, ma sarà una Biennale dove gli aspetti fisici, concreti, saranno molto forti e coinvolgenti”. Una mostra, dove, uscite di scena le grandi firme del mondo globale, probabilmente si guarderà a come si irriga, a come ci si difende dal caldo e dal freddo, a come si vive insieme in spazi difficili, come si riesce a essere curati in tempi brevi “in posti così desertificati” (a dirla con le parole del presidente della Biennale).
Foto in evidenza Ansa
Pubblichiamo la Dichiarazione di Erice su “La tutela della salute dei migranti. Una sfida di equità per il sistema sanitario pubblico”, predisposta in occasione dell’omonimo Corso svoltosi a Erice dal 28 marzo al 2 aprile 2022, patrocinato dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), dalla Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI) e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e svoltosi nell’ambito della Scuola Superiore di Epidemiologia e Medicina Preventiva della Fondazione e Centro di Cultura Scientifica “Ettore Majorana” di Erice.
La Dichiarazione di Erice è disponibile qui.
Già sottoscritta da 92 persone a vario titolo presenti al Corso, è possibile sottoscrivere la Dichiarazione compilando la griglia al link https://drive.google.com/drive/folders/1VRBf6fT3-pFJ9ysf8v-o0ZC-cA9_n2PX?usp=sharing entro il 15 luglio 2022.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Si chiamava Blessing Matthew e aveva solo 21 anni. Era partita dalla Nigeria con l’idea di arrivare in Europa e diventare un medico, prendersi cura delle persone, aiutare i più fragili. Ma il suo sogno si è interrotto nella primavera di quattro anni fa sulle Alpi francesi: il corpo della ragazza è stato trovato il 9 maggio del 2018 riverso nel fiume Durance, nella valle di Briançon. È morta nel tentativo di attraversare la frontiera e raggiungere la Francia nella speranza di un futuro migliore. Sul caso di Blessing Matthew è stata aperta un’indagine, che si è conclusa senza che siano state accertate le circostanze del decesso né le eventuali responsabilità. Ma chi viaggiava con la ragazza chiama in causa la polizia e la militarizzazione della frontiera. Per questo oggi la famiglia di Blessing, insieme all’associazione Tous Migrants, che opera al confine tra Italia e Francia per la tutela dei diritti dei migranti, chiede verità e giustizia. In particolare, gli attivisti hanno rintracciato il suo compagno di viaggio, Hervé S., mai ascoltato prima. Le sua testimonianze e le ricostruzioni sono contenute in un’inchiesta, che viene resa nota oggi sul sito Borders Forensics, diretto da Lorenzo Pezzani e Charles Heller. All’inchiesta hanno lavorato un gruppo di ricercatori e ricercatrici che hanno condiviso i risultati con l’associazione Tous Migrants, l’avvocato Vincent Brengarth e la sorella di Blessing, Christiana Obie. Ora chiedono la riapertura del caso giudiziario alla luce dei nuovi elementi raccolti.
Blessing Matthew è stata vista l’ultima volta il 7 maggio quando la gendarmeria ha cercato di arrestare lei ed Hervé S., a La Vachette, a 15 chilometri dal confine franco-italiano. “A noi migranti danno la caccia come agli animali” sottolinea Hervé, che ora è uno dei testimoni chiave: “Quando ci siamo incontrati mi ha dato l’impressione di una ragazza felice. Non era preoccupata. Eravamo tutti convinti di arrivare in Francia” afferma. Poi però l’incontro con la gendarmeria sulle Alpi ha fatto precipitare gli eventi: “Blessing ha iniziato a correre, un militare la inseguiva gridando: “Stop, stop!”. Lei gridava: “Lasciami, lasciami, lasciami”. E poi, Blessing è caduta… caduta nell’acqua”. A questo punto, secondo le ricostruzioni, nessuno ha prestato soccorso alla ragazza che è stata poi ritrovata morta, nelle griglie della diga del fiume, a 15 km da dove è caduta. Anche su questa omissione di soccorso gli attivisti chiedono di fare chiarezza.
Quello di Blessing Matthew non è un caso isolato. Sono almeno 87 le persone identificate come vittime dal 2015 a oggi nel tentativo di attraversare le Alpi, 47 solo sulla frontiera franco-italiana, spiega Cristina Del Biaggio, ricercatrice presso il laboratorio Pacte e l’Université Grenoble Alpes: “La morte di Blessing ha toccato molto la comunità, perché prima del decesso le persone hanno protestato per quello che stava succedendo: la militarizzazione di quella frontiera era un chiaro pericolo”. Sotto la lente degli attivisti non ci sono, infatti, le responsabilità dei singoli ma l’intero sistema dei controlli di frontiera eseguiti dalle forze dell’ordine e dalle guardie di confine. In particolare, aggiunge la ricercatrice, nei giorni in cui Blessing è morta il clima nei villaggi frontalieri era teso per l’arrivo di Generazione identitaria, l’associazione di estrema destra che aveva organizzato una manifestazione. “Il ministro degli Interni francese aveva deciso di rafforzare la presenza con uno squadrone di gendarmi – afferma Del Biaggio – Sono loro che hanno cercato di arrestare Blessing e i suoi compagni di viaggio, passato il confine a Clavière. Quello che abbiamo fatto noi è cercare di ricostruire gli eventi con un testimone oculare, Hervé, che non è mai stato sentito durante l’inchiesta giudiziaria. Questo nuovo elemento ci consente di chiedere la riapertura del caso”. L’inchiesta degli attivisti è corredata da mappe cartografiche e ricostruzioni in 3D che consentono di ricostruire passo passo quanto accaduto la mattina del 7 maggio. E che mettono in discussione anche la versione fornita dai gendarmi intervenuti.
La morte di Blessing è oggi ancora un ricordo vivo nella comunità alpina. La ragazza era partita nel 2016 dalla Nigeria per arrivare in Italia, dove viveva già la sorella maggiore, Christiana. A compiere il viaggio insieme a lei la sorella Happy, che però dopo la traversata del Mediterraneo è stata arrestata dalla Guardia Costiera e riportata prima in Libia, poi in Nigeria. Durante il suo soggiorno in Italia, Blessing è stata ospitata in un centro di accoglienza per richiedenti asilo a Torino, fino all’inizio di maggio 2018, quando ha deciso di partire per la Francia. La sera del 6 maggio Blessing chiamò per l’ultima volta la sorella Happy, da poco sbarcata di nuovo in Italia, per informarla che intendeva attraversare il confine a piedi, non avendo ancora documenti né lavoro in Italia. “Sappiamo che prima di morire Blessing ha gridato aiuto, ma nessuno l’ha aiutata – afferma oggi la sorella -. È stata lasciata morire, per questo continueremo a batterci per avere giustizia”.
Su Riforma.it
Continuano i corridoi umanitari anche per i profughi vittime di conflitti diversi da quello dell’Ucraina. Sono atterrati venerdì mattina 27 maggio a Fiumicino, con un volo proveniente da Beirut, 41 rifugiati siriani che hanno vissuto anni nei campi profughi della Valle della Bekaa e del nord Libano o in alloggi precari delle periferie di Beirut e Tripoli. Si tratta di famiglie e singoli che negli ultimi mesi hanno sofferto un pesante peggioramento delle loro condizioni di vita, non solo a causa della pandemia, ma anche della gravissima crisi politica, economica e sociale che sta attraversando il Libano.
A questo primo gruppo si sono aggiutne stamane 30 maggio altre 22 persone, per un totale di 63 persone. Tra di loro 23 sono minori che a causa della situazione precaria del Libano per lo più non frequentano la scuola e alcuni malati che verranno presi in cura negli ospedali italiani. Il nuovo arrivo permetterà anche la realizzazione di alcuni ricongiungimenti familiari con parenti che erano giunti in precedenza nel nostro paese con i corridoi umanitari.
Il loro ingresso in Italia è stato reso possibile attraverso il sistema dei Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, in accordo coi Ministeri dell’Interno e degli Esteri, che dal febbraio 2016 hanno portato in salvo nel nostro Paese, dal Libano, oltre 2.300 persone. Complessivamente in Europa con i corridoi umanitari sono giunti più di 4.600 richiedenti asilo.
I nuclei familiari giunti questa mattina saranno accolti anche da associazioni, parrocchie, comunità e singoli cittadini in diverse regioni italiane (Sardegna, Lazio, Lombardia, Calabria, Sicilia, Toscana, Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, Trentino) e verranno avviati in un percorso di integrazione: per i minori attraverso l’immediata iscrizione a scuola e per gli adulti, subito con l’apprendimento della lingua italiana e, una volta ottenuto lo status di rifugiato, l’inserimento nel mondo lavorativo. I corridoi umanitari, interamente autofinanziati (dalla raccolta fondi di Sant’Egidio e l’8 per mille della Tavola valdese) e realizzati grazie a una rete di accoglienza diffusa, rappresentano una best practice che coniuga solidarietà e sicurezza.
Di Stefano Lamorgese su Premio Morrione
“Vero”, in latino verum, è una parola che – secondo alcuni studiosi – deriverebbe dall’accadico, la lingua semitica più antica, parlata da Sumeri e Babilonesi. Il termine originario sarebbe Bērum e indicava la rivelazione concessa ai veggenti: solo a loro appariva chiaro, definito e incontestabile il messaggio divino. Ciò che per noi oggi è “vero”, dunque, ha radici misteriche, nebulose, sacerdotali, avvolte nei fumi degli incensi.
Sono trascorsi più di cinquemila anni da quando si divinavano oracoli sulle rive dell’Eufrate. Ma non si è ancora spenta la suggestione che il concetto stesso di verità contiene. Anzi: la solidità della rivelazione è sempre più soltanto un’apparenza etimologica, insidiata e squarciata dal crescente rumore di fondo che tutto confonde.
Rovesciando il paradigma della divinazione, Monica Andolfatto, Laura Nota e Roberto Reale – autori di “Aver cura del vero“, uscito nello scorso mese di Aprile per i tipi di “nuovadimensione” – trovano il coraggio necessario per riutilizzare la parola magica: “vero”, declinandola come una categoria culturale, una prassi professionale, un’attitudine politica, un obiettivo collettivo. E lo fanno raccontando un’esperienza originale di formazione e condivisione dei saperi. Come autentici illuministi, sanno fare tesoro dei dubbi e delle incertezze, perché è la ragione che le suggerisce e non più un’oscura divinità ancestrale.
Alle spalle del libro c’è stato, infatti, nell’Anno Accademico 2020-21, il corso di Alta Formazione “Raccontare la verità. Come informare promuovendo una società inclusiva”: un corso marcatamente interdisciplinare, al quale hanno contribuito docenti di economia, di psicologia, giornalisti, esperti di inclusione e di diritto internazionale. Organizzato dall’Università di Padova, della quale Laura Nota – già prorettrice – è ordinaria di Psicologia dell’orientamento e di Psicologia dell’inclusione, è stato un corso ambizioso e direi quasi visionario, al quale anche chi scrive ha immeritatamente partecipato con una piccola docenza: si perdoni, dunque, la partigianeria.
Viene in soccorso, a tal proposito, l’introduzione di Carlo Verdelli – già alla guida del quotidiano “la Repubblica” e delle news Rai, oggi direttore del settimanale “Oggi” – intitolata, manco a farlo apposta: “Il giornalismo è partigiano”. Vi si legge, tra le testimonianze personali dell’autore, che «il giornalismo è partigiano, non esiste per me un altro tipo di giornalismo intimamente onesto. Non significa rivendicare un’appartenenza politica ma essere limpidi con il lettore: ogni cosa che leggerai è frutto di un’interpretazione». E di interpretazioni, analisi e prospettive il nostro libro è davvero ricco.
Tutto parte da una presa di coscienza, maturata compiutamente durante l’esplosione epidemica del Covid-19: il frastuono mediatico, che qualcuno ha chiamato “infodemia”, ha reso indistinguibile troppo spesso il vero dal falso. Nebbia semantica e caos espositivo – nell’ecosistema rabbioso e aggressivo della società dello spettacolo – hanno via via reso inefficaci le strategie di debunking e di fact-checking, perché le fake-news, scrive Roberto Reale, «sfruttano i pregiudizi delle persone, circolano molto più velocemente delle correzioni e tendono a persistere più a lungo in rete». Ma nella realtà del nostro tempo tutto è inter-connesso: i mali di un settore della società non sono slegati da tutto il resto; i limiti nell’esercizio di un diritto si riflettono sul godimento di tutti gli altri. Le distorsioni sono fecondi brodi di coltura di altre distorsioni. Il problema più grande – questo è emerso con forza durante il corso padovano – non è di ordine epistemologico: la disinformazione è un problema di ordine eminentemente politico.
Leggendolo appare chiaramente: man mano che le criticità si accumulavano e i problemi venivano sviscerati analiticamente, gli ideatori, gli organizzatori e i partecipanti al corso hanno sempre più convintamente scelto la via della costruzione, l’ottimismo della volontà. Monica Andolfatto, giornalista del Gazzettino e Segretaria del sindacato dei giornalisti del Veneto, lo spiega chiaramente: «agire contro le fake-news significa stimolare il pensiero critico (…) solo un’educazione critica all’uso dei media e al lavoro nei media può essere un antidoto efficace alla disinformazione». In questa prospettiva quello che poteva sembrare un azzardo o una scommessa temeraria si è rivelato come un successo: su 47 iscritti (paganti!), 41 professionisti del sistema dei media hanno sostenuto la prova finale. Trattandosi di giornalisti, che molto spesso indossano assai poco umilmente la veste del “tuttologo”, è quasi un miracolo: parola di giornalista.
Dal libro si evince un fenomeno promettente: quello che è nato a Padova è un “laboratorio” animato e abitato da professionisti che “co-costruiscono” (la definizione è di Laura Nota) «una vision alternativa», ragionando sui problemi, confrontandosi con gli esperti, mettendo in comune le proprie esperienze. Tutti i temi e le criticità del sistema dell’informazione vengono passati al vaglio. Emerge con chiarezza il legame tra qualità del lavoro e qualità del prodotto, l’informazione. Spicca, tra i problemi più comuni e brucianti, quello della precarietà, che impedisce – negando la dignità stessa al lavoro – di rispettare i criteri essenziali di una buona attività professionale: la riflessività e l’accuratezza, su tutti, che costituiscono non solo i caratteri essenziali delle buone prassi professionali, ma incarnano le garanzie indispensabili nei confronti del pubblico. Una precarietà, si diceva, che accomuna i lavoratori di ogni genere: «ormai tra un reparto di fabbrica e una redazione c’è poca differenza: diminuiscono gli operai così come i giornalisti, aumentano in maniera esponenziale i carichi di lavoro (…) e si viene licenziati con una mail: è toccato agli operai della GKN di Campi Bisenzio (Firenze), è toccato ai redattori del “Trentino” (Trento)».
Da questo intreccio di idee e consapevolezze sconsolate scaturisce la necessità di uscire dalla trappola, di superare i limiti che vanno posti sotto la lente dell’analisi.È ancora Laura Nota che scrive: «si vuole far superare l’idea che ciò che viviamo sia inevitabile, basato su leggi non modificabili di tipo economico; che le ingiustizie, le discriminazioni e le disuguaglianze siano una sorta di fatalità». E invece «non è scritto da nessuna parte che si debba continuare così: è possibile, tramite un processo cognitivo ed emotivo, riappropriarsi della propria umanità mettendo al centro la lotta alla sofferenza propria e altrui e anche del nostro ambiente». Un obiettivo ambizioso ma possibile: lo testimonia la trasformazione della forma mentis riscontrata tra i partecipanti: è ciò che emerge dalle risposte che i quarantuno hanno fornito ai questionari loro somministrati prima e dopo il corso. Accuratezza, inclusività del linguaggio e possibilità di avvicinare effettivamente la verità: sono temi e sensibilità usciti potenziati da questa esperienza. Ecco come l’ottimismo della volontà si traduce in progetto, quindi in un orizzonte esplicitamente politico, attivo e partecipato.
Tale orizzonte viene attualizzato dalla riflessione di Marco Mascia (uno degli autori, docente di Relazioni Internazionali all’Università di Padova, direttore del Centro Antonio Papisca), che spiega come quelli all’espressione e alla corretta informazione siano inclusi tra i diritti sanciti dalle tante Carte che costellano l’apparato giuridico delle Nazioni Unite. In particolare Mascia denuncia l’attacco rivolto contro il multilateralismo: una declinazione della perdita di libertà e dello slittamento verso forme autoritarie e verticistiche di governo che non può mancare di produrre danni anche nell’ambito della libertà d’informazione, con la conseguenza di indebolirne tutti gli operatori, giornalisti compresi.
Di tutto questo lavorìo, la morale – se mai è possibile desumerne una soltanto da un volume tanto denso – ce la offre ancora Roberto Reale, nel capitolo intitolato: “Dal tutti contro tutti a un sentire comune”. L’assunto è chiaro: siamo nell’epoca dell’individualismo più spinto, l’ “Era del singolo”, per citare un saggio di Francesca Rigotti uscito nel 2021; siamo nel “Secolo della solitudine”, altro titolo di Noreena Herz, del 2020. Ecco: traendo esempi e spunti dalla sue vaste letture, Reale prova ad azzardare una sintesi molto suggestiva. Quasi tutti i problemi emersi e affrontati durante il corso padovano sembrano collegati con il paradigma relazionale più malfunzionante della nostra epoca: l’eclissi dell’Altro dal nostro cielo individuale.Se si curasse questa distorsione, pare di capire, si riuscirebbe ad affrontare alla radice tutto il monumentale impaccio che avvelena scienze e coscienze, che confonde il falso col vero, che porta all’autocrazia, al complottismo più assurdo, infine persino alla dissoluzione dei diritti, tanto individuali e che collettivi. «Non sarà arrivato il momento – si chiede Roberto Reale – di chiederci quanto e quale spazio ci sia per un’informazione rivolta all’insieme della cittadinanza oggi, nell’era del singolo che stenta a vedersi parte di una comunità?».
Insomma: “Aver cura del vero” è un libro difficile. Ma è anche un libro “necessario”. Perché è davvero ora che si torni a ragionare sul ruolo sociale dell’informazione con onestà intellettuale, con sincerità e anche con l’indispensabile spregiudicatezza che si accompagna sempre a chi pone molto in alto l’asticella delle sfide che sceglie di affrontare. Alla faccia degl’incantesimi, degli antichi sacerdoti e dei misteri più arcani.
Monica Andolfatto, Laura Nota, Roberto Reale“Aver cura del vero.Come informare e far crescere una società inclusivaGiornalismo e ricerca: storia del Laboratorio Padova”Edito da: “nuovadimensione”, un marchio di Edicilo editore.PRIMA EDIZIONE: aprile 2022
Gli altri interventi inseriti nel volume sono di: Carlo Verdelli, Raffaele Lorusso, Maria Cristina Ginevra, Ilaria Di Maggio, Sara Santilli, Enrico Ferri, Giuseppe Giulietti, Marco Mascia, Carlo Bartoli, Salvatore Soresi, Mirco Tonin.
Foto in evidenza di Premio Morrione
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