Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Superare il sistema binario tra la gestione dello Stato e quella degli enti locali, bloccare la proliferazione dei centri di accoglienza straordinaria, garantire standard adeguati e uniformi, valorizzare il ruolo delle famiglie, attuare una progettazione condivisa, istituire una modalità permanente di consultazione del terzo settore. Sono sei le proposte per riformare il sistema di accoglienza italiano, presentate oggi (22/06/2022) dal Tavolo Asilo in una conferenza stampa a Roma.
“La nostra proposta nasce da un’indagine che abbiamo realizzato interrogando gli operatori e le operatrici che lavorano nei progetti territoriali – spiega Filippo Miraglia di Arci e coordinatore del Tavolo Asilo e immigrazione -. Quest’anno ricorrono i vent’anni della legge Bossi-Fini, una delle riforme legislative peggiori della storia dell’immigrazione in materia di asilo. In quella riforma, che puntava a ridurre lo spazio dei diritti degli stranieri, legandone la presenza a un contratto di lavoro, gli ultimi due articoli introducevano il sistema di accoglienza unico per richiedenti asilo e rifugiati. Eppure in tutti questi anni non si è riusciti ad abbandonare un approccio emergenziale per strutturare un sistema che risponda realmente alle esigenze del nostro paese e delle persone che arrivano qui a chiedere protezione – aggiunge Miraglia -. Le recenti vicende legate alla crisi ucraina hanno dimostrato che il sistema non è in grado di rispondere adeguatamente, il Governo ha affidato la gestione alla Protezione civile e a distanza di 4 mesi la risposta è stata marginale. La stragrande maggioranza delle persone è accolta da privati, amici e parenti”.
La proposta dettagliata di riforma dell’accoglienza parte da un punto fondamentale: superare il sistema binario. Come spiega Gianfranco Schiavone presidente dell’Ics di Trieste e membro di Asgi, “oggi c’è una chiara distinzione di competenza tra stato e autonomie locali. Ma nella prassi vige una confusione totale su chi deve fare cosa”. Per questo il Tavolo Asilo chiede un trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni per la gestione ordinaria dell’accoglienza territoriale e trasformare il Sai (Sitema di accoglienza e integrazione) da programma a sistema unico. Inoltre, secondo le organizzazioni che compongono il Tavolo bisogna superare la volontarietà da parte degli enti locali nell’assumere la scelta su se e quando aderire nonché uscire dal sistema di accoglienza. “Questo ha impedito negli anni che il sistema si sviluppasse, diventando un programma nazionale di accoglienza diffusa e integrata – aggiunge Schiavone -. E’ altresì difficile per un amministratore locale coscienzioso aderire a un progetto di accoglienza se è in un territorio in cui altri non lo fanno anche per ragioni elettorali e di propaganda. Tutti, invece, devono essere chiamati a fare la loro parte”.
In secondo luogo si chiede di fermare l’infinita proliferazione dei cas, i centri prefettizzi per l’accoglienza straordinaria ed attuare un programma nazionale per il loro progressivo superamento. Per farlo sarà necessario investire le regioni della responsabilità di attuare il trasferimento delle competenze, anche attraverso l’istituzione di una cabina di regia regionale che coinvolga le prefetture, Anci e una rappresentanza del terzo settore. Si chiede anche di adottare subito alcune concrete misure di incentivo agli enti locali che intendono aderire al Sai, prevedendo in particolare l’assegnazione di un contributo economico periodico pluriennale.
Il terzo punto della riforma riguarda la modifica dei capitolati di gestione dei cas per garantire standard adeguati ed uniformi su tutto il territorio. Si chiede poi di superare la logica dello scambio utilitaristico nella gestione dei servizi di accoglienza e attuare una progettazione condivisa tra enti locali e il terzo settore. Il quinto punto riguarda il riconoscimento del valore e la promozione dell’accoglienza in famiglia all’interno del sistema istituzionale. “Dai primi anni 2000 si sono sviluppate esperienze indipendenti all’interno delle famiglie italiane ma ad oggi tutto questo rimane a livello di sperimentazione – sottolinea Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome -. Vogliamo invece che siano considerate all’interno di un piano accoglienza”. Infine, la riforma pensata dal Tavolo asilo si chiude con la richiesta dell’istituzione in modalità permanente di consultazione degli enti di terzo settore.
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Di Alessandro Luparello su Voci Globali
“In molti Paesi europei, negli ultimi anni i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile che hanno aiutato rifugiati e migranti sono stati sottoposti a procedimenti penali infondati, limitazioni indebite alle loro attività, intimidazioni, vessazioni e campagne denigratorie. Le loro azioni di assistenza e solidarietà li hanno messi in rotta di collisione con le politiche europee sulla migrazione, che hanno l’obiettivo di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere l’Unione Europea, di trattenere quelli che riescono a entrare in Europa nel Paese di primo arrivo e di espellerne quanti più possibile verso i loro Paesi d’origine.”
“Soccorrendo rifugiati e migranti in pericolo in mare o sulle montagne, offrendo loro riparo e cibo, documentando gli abusi della polizia e delle guardie di frontiera e opponendosi alle espulsioni illegali, i difensori dei diritti umani hanno svelato la crudeltà delle politiche sull’immigrazione e sono diventati essi stessi bersagli delle autorità. I leader politici e le forze di sicurezza hanno trattato atti di umanità come minacce all’ordine pubblico, ostacolando ulteriormente il loro lavoro e costringendoli a impiegare le loro scarse risorse e le loro energie per difendersi in tribunale.”
Ecco l’inizio, inequivocabile nelle affermazioni e nei termini, della sintesi del rapporto “Punire la compassione: solidarietà sotto processo nella Fortezza Europa”, pubblicato a marzo 2020 da Amnesty International.
Queste frasi riassumono la prepotente e pervasiva deriva xenofoba e di chiusura asfittica (e violenta) dei confini cui assistiamo in Europa, e in Italia. Il tutto, osserviamo, passa attraverso una narrativa d’odio verso l’altro, il diverso, lo straniero e, per riflesso, verso chiunque si muova in suo aiuto per il rispetto dei diritti universali e per umano senso di fratellanza e sorellanza.
Ma è sempre stato così? In Italia, almeno, è indubbio un cambio di passo, una modifica del linguaggio che ha seguito il deciso indirizzo politico e ha comportato un significativo impatto sull’opinione pubblica. Ricordiamo bene come la narrativa mediatica, politica e informativa, sia scivolata velocissimamente dalla retorica degli “angeli del mare” a quella -delirante e falsa ma strumentale- dei “taxi del mare” (rimanendo nel campo delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo delle persone migranti).
Proviamo a capirne di più parlando con Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato che opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse ONG, e con Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans e che è stato direttamente oggetto di inchieste legate alla sua attività di salvataggio di persone in mare.
Partiamo proprio dal linguaggio. Quanto è stato importante, nel cambio della percezione generale dei cittadini, la modifica del linguaggio usato dalla politica e veicolato/amplificato attraverso i canali di comunicazione?
Luca Casarini afferma senza esitazioni che è stato fondamentale.“Pensiamo appunto alla formula, introdotta da Di Maio, dei ‘taxi del mare’. È quello il momento – cristallizzato in uno slogan per i media- nel quale l’umanitario diventa un campo di conflitto e non più un ‘contradditorio ma tollerabile’ terreno di relazione tra istituzioni e società civile. Si rende esplicito e radicale, da parte dello Stato, il tentativo di ‘dividere’ il lavoro e l’impegno umanitario in ‘sussidiario’, e dunque buono, e ‘sovversivo’, e quindi cattivo.
I danni di un’operazione del genere, alimentata dalla grancassa dei media, sono incalcolabili sul piano culturale e sociale. Ovviamente, per legittimare il processo di criminalizzazione dell’umanitario, c’è bisogno di ‘spersonalizzare’ le vittime delle violazioni dei diritti umani: devono essere solo numeri, non persone con volti, storie, nomi, parenti e famiglie.”
La spersonalizzazione e disumanizzazione delle persone è appunto un passaggio cruciale e fondante di quella narrativa che ci consente di attaccare l’altro, finalmente scevri da dubbi etici e dal controllo delle coscienze, autoassolvendoci da ogni disumanità e crudeltà che altrimenti -riconoscendola- non saremmo in grado di tollerare in noi stessi.
Fulvio Vassallo Paleologo precisa che “purtroppo il linguaggio discriminatorio non si è limitato ai media ma è entrato nel corpo di provvedimenti delle procure siciliane che hanno indagato e chiesto il rinvio a giudizio delle ONG accusate di facilitare l’ingresso ‘clandestino’ dei naufraghi soccorsi in mare. Molte persone che avrebbero potuto trovare salvezza in Europa continuano ancora oggi ad essere internate nei centri di detenzione in Libia, o abbandonate in mare”.
E aggiunge che “utilizzare espressioni come ‘migranti sottratti alla guardia costiera libica’ – nel corpo di importanti provvedimenti di richiesta di rinvio a giudizio di operatori umanitari (come nel caso Iuventa) che hanno soccorso in mare migliaia di vite – equivale a dare una valenza sanzionatoria all’espressione ‘taxi del mare’, in assenza di qualsiasi base legale e dopo che questa vergognosa definizione è stata ampiamente smentita dai fatti documentati nei numerosi processi nei quali le indagini contro le ONG sono state archiviate”.
Ma se dovessimo individuare -semplificando – un momento specifico in cui maggiormente si è costruito e manifestato un cambio di approccio delle Istituzioni italiane ed europee al fenomeno migratorio e alla comunicazione dello stesso verso i cittadini, quale potremmo identificare?
Una dettagliata risposta arriva da Fulvio Vassallo Paleologo: “L’anno della svolta è il 2017. Dal 2014 in poi gli arrivi via mare in Italia si erano moltiplicati, soprattutto per effetto della crisi siriana, con 170.000 persone arrivate nel 2014 e 153.000 persone arrivate nel 2015 (secondo dati dell’UNHCR e del Ministero dell’interno); nel 2016, dopo gli accordi stipulati dai Paesi dell’Unione Europea con la Turchia e la chiusura quasi completa delle rotte sull’Egeo, erano stati soccorsi nel Mediterraneo centrale oltre 180.000 profughi, poi sbarcati in Italia e provenienti in gran parte dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq, numero che nel 2017 era destinato a crollare, soprattutto dopo la stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli del 2 febbraio 2017.
La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cosiddetti ‘clandestini’, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali, le associazioni di volontariato e i singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. È finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.
A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle ONG che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari”.
Anche Luca Casarini individua lo stesso momento storico: “Mi sembra che uno dei momenti ‘topici’ degli ultimi anni, che può rappresentare bene un ‘cambio di narrazione’ da parte delle istituzioni in merito al fenomeno migratorio, si possa ascrivere alla famosa intervista su Repubblica del 29 agosto del 2017 dell’allora ministro degli interni Marco Minniti nella quale affermava ‘sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del Paese’”.
Proprio a questo proposito, quanto peso hanno avuto l’aumento del numero degli arrivi, sulle nostre coste, di persone in percorso migratorio e – appunto – la ‘paura per la tenuta democratica’ e quanto invece la progressiva chiusura degli Stati europei?
Ancora Luca Casarini: “Ci voleva la guerra in Ucraina per far capire che la questione dei ‘numeri’ è tutta una montatura. Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti in un continente di 500 milioni. Stiamo parlando di arrivi alle frontiere, anche negli anni di punta che non sono gli ultimi dieci, di numeri gestibilissimi. Non vi sono invasioni, non vi sono esodi di popolazioni intere, niente come ciò che abbiamo gestito in una settimana per l’Ucraina. E comunque, il fenomeno dello spostamento di esseri umani nel mondo riguarda poco meno di 100 milioni di persone. In un pianeta di 7 miliardi.
È un fenomeno strutturale, permanente e incentivato solo e solamente dalle scelte politiche, economiche ed energetiche della parte che si mangia l’80% delle risorse disponibili e che è il 20% della popolazione mondiale, concentrata nel Nord del pianeta. Di fronte a questo abbiamo anche il coraggio di meravigliarci? Di fare le ‘povere vittime’ dell’immigrazione incontrollata? Inondiamo il mondo di armi e di guerre, devastiamo interi Paesi per succhiargli petrolio, gas, diamanti, minerali e li riduciamo a dei luoghi invivibili, dove non si può nemmeno piantare una patata, e poi ci lamentiamo?
Produciamo tanta CO2 da alzare la temperatura globale fino a desertificare, ogni giorno, centinaia di chilometri quadrati di terre. Disboschiamo le grandi foreste al ritmo di una Lombardia al giorno, ma siamo davvero senza vergogna a tal punto da proferire ancora parola su questo?”.
“Adempiere gli obblighi di soccorso sanciti da un Regolamento europeo” – aggiunge Fulvio Vassallo Paleologo – “non può comportare rischi per la tenuta democratica di un Paese. Sono comunque molto più gravi i rischi, che spesso comprendono il sacrificio della vita umana in mare, per le persone abbandonate in acque internazionali senza che gli Stati inviino mezzi di soccorso o assumano i compiti di coordinamento delle operazioni di salvataggio previsti dalle Convenzioni internazionali”.
La criminalizzazione, giocata su più tavoli, ha riguardato e continua a riguardare attiviste e attivisti, associazioni, organizzazioni (peraltro altrimenti molto stimate, come Medici Senza Frontiere) impegnate nella solidarietà, nel soccorso, nell’aiuto alle persone in percorso migratorio.
E questo nonostante alcune palesi evidenze, più volte dimostrate, come il fatto che – senza il soccorso operato da ONG e attivisti (in supplenza degli Stati assenti) – le persone sarebbero probabilmente morte (il Mediterraneo è la rotta migratoria più mortale al mondo). O come il fatto che il numero di persone che tenta di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa non dipende dall’eventuale presenza di navi SaR al largo (cfr. ricerche ISPI sul non-pull-factor delle navi delle ONG) . O come il fatto che, nel complesso delle persone che mettono piede sul territorio italiano all’interno di un percorso migratorio, il numero di persone che sbarcano da una nave SaR di una ONG è sostanzialmente marginale.
Perchè, nonostante queste palesi evidenze e nonostante finora tutte le (tante) accuse si siano rivelate infondate e strumentali, la retorica diffusa, la propaganda politica e l’attenzione mediatica continuano ad attaccare – anche attraverso fake news e hate speech – le ONG o comunque chiunque (professionista, attivista, associazione, ecc) operi nel campo della solidarietà?
Risponde Fulvio Vassallo Paleologo: “Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione e del diritto di chiedere asilo in un Paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale Governi di segno diverso hanno progressivamente eroso il principio di eguaglianza tra le persone e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Queste politiche hanno utilizzato la falsificazione come strumento di attacco contro le persone in movimento e poi contro quanti prestavano loro assistenza.
E alla fine hanno portato ad accordi con Stati nei quali non vi era alcuna garanzia per i diritti umani, accordi che oggi pesano anche per la loro forza di ricatto sulla soluzione delle crisi belliche più virulente. Le politiche di sicurezza nazionale, o di difesa dei confini hanno di fatto cancellato il diritto di chiedere asilo (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati come diritto di accedere ad un territorio sicuro) e hanno creato le premesse per la discriminazione e la marginalizzazione degli ultimi arrivati, fino alla criminalizzazione dei sopravvissuti e dei soccorritori”.
Le libertà movimento e di richiedere asilo, adesso richiamate dall’avvocato Paleologo e presenti (articoli 13 e 14) nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sono anche oggetto dell’appello “Passaporti, basta privilegi” promosso proprio da Voci Globali per rivedere la politica dei visti e garantire libertà di movimento a tutti i cittadini del mondo.
In conclusione chiediamo, ancora a Fulvio Vassallo Paleologo, quale sia la sua personale visione sulle reali cause del fenomeno di criminalizzazione della solidarietà.
“In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguaglianze tra i migranti forzati a seconda del Paese di origine, e addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina. Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento equo ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali?
Invece si alimenta la retorica dell’invasione, adesso anche con un’allarme sulla crisi alimentare globale derivante dal blocco dei porti ucraini.Come se la devastazione ambientale prodotta da decenni di sfruttamento da parte dei Paesi più ricchi non avesse già prodotto la migrazione forzata di milioni di persone, private del loro ambiente vitale. E molto spesso la maggior parte delle persone che fuggono dalle aree di crisi rimane nei Paesi limitrofi e non trova risorse e canali di accesso verso l’Europa.
Non esistono canali legali di ingresso e il rafforzamento dei trafficanti internazionali è una conseguenza diretta delle politiche migratorie dei paesi di destinazione che puntano tutto sul ‘contrasto dell’immigrazione clandestina’, senza consentire visti di ingresso e vie di fuga per i potenziali richiedenti asilo”.
L’avvocato Paleologo ha fatto riferimento alle diseguaglianze tra i migranti. Dato che Mediterranea è stata protagonista anche di un altro tipo di azione solidale dal basso, quella dei #SafePassage di sostegno alla popolazione Ucraina, chiediamo a Luca Casarini se ha notato, dal punto di vista politico e mediatico, un diverso atteggiamento verso Mediterranea rispetto a quello “subito” per via delle missioni in mare.
“Sì”, risponde Casarini. “Loro sono bianchi di pelle. Sono profughi di una guerra dove siamo alleati con lo Stato del loro Paese di origine. Loro sono strumentalizzati al contrario: quanto è brava l’Europa, l’Italia. Invece a Sud ci sono neri, africani, il simbolo razzista per antonomasia. Eppure sono tutti e tutte profughi. Noi siamo anche in Ucraina, perché la lotta a fianco della popolazione civile di un Paese aggredito da un esercito è la nostra bussola, la nostra resistenza. Ma proprio per questo lottiamo contro la disparità di trattamento delle persone. Tutti devono essere trattati come trattiamo i profughi ucraini”.
Concludendo, chiediamo a Luca Casarini di consegnarci un messaggio per contrastare la rassegnazione alle ingiustizie anche quando la loro forza e pervasività sono (o sembrano) soverchianti.
“La ‘Cospirazione del Bene’: è questo il messaggio. Creare un mondo diverso, non avere paura di opporsi ai potenti, alle loro leggi sbagliate, ai loro criminali modi di violare quelle giuste. Disobbedire a questo orrore, e obbedire a qualcosa di più grande, l’amore per i nostri fratelli e sorelle che soffrono. Noi di Mediterranea diciamo: ‘Noi li soccorriamo, loro ci salvano’. È così. Per salvarci tutti e tutte, dobbiamo lottare, combattere con negli occhi il sorriso di un bambino che ti abbraccia dopo che l’hai tirato su dall’acqua. Niente è più importante”.
Niente è più importante.
Foto in evidenza di Alessandro Luparello
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Sembra, stando a certe polemiche, che a un flusso di rifugiati ‘buono’ e ben accetto, quello proveniente dall’Ucraina (125mila persone secondo gli ultimi dati), se ne accompagni un altro, cattivo, o comunque sgradito: quelli che arrivano via mare da Sud e da Sud-Est (20mila sbarcati nel 2022, fino ai primi di giugno). Eppure, ha ricordato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in un recente incontro con i sindaci calabresi, particolarmente coinvolti negli arrivi (quasi 4mila persone sbarcate nella Regione dall’inizio dell’anno) crescono soprattutto gli approdi dall’Afghanistan.
Se l’Ucraina è devastata dalla guerra, è un po’ difficile sostenere che l’Afghanistan sia un’isola di pace e di rispetto dei diritti umani.
Proprio le generose mobilitazioni in favore dei profughi ucraini dovrebbero insegnare che la soglia di tolleranza, oltre la quale i rifugiati diventano troppi e ingestibili, risiede nel nostro sguardo, non nei numeri in sé. Dipende dalla nostra apertura, della mente e del cuore: da quanto li percepiamo come parte della nostra stessa umanità, come persone ingiustamente perseguitate e costrette alla fuga. Insinuare che gli afghani non lo siano è un arduo esercizio politico e retorico.
Accogliere tuttavia comporta degli oneri, non v’è dubbio. È importante quanto affermato dalla ministra al riguardo: rafforzamento delle strutture di accoglienza, coinvolgimento di organizzazioni della società civile, rimborsi ai Comuni delle spese che sosterranno. I rifugiati arrivano e chiedono accoglienza in luoghi precisi: l’integrazione è necessariamente locale, come la risposta alle esigenze delle persone. Decisiva quindi, come nella gestione dei profughi ucraini, è l’attivazione di forme di accoglienza diffusa e di reti di partenariato sul territorio, basate sulla collaborazione tra istituzioni pubbliche e soggetti sociali chiamati a partecipare a un impegno condiviso. E necessario è anche l’aiuto dello Stato per rendere sostenibile l’accoglienza nel medio-lungo periodo, con le diverse misure d’integrazione da attivare: corsi di lingua, scuola per i minori, formazione professionale, assistenza sanitaria, orientamento al lavoro. Accelerando, con idonee misure di accompagnamento, l’incontro tra profughi pronti a inserirsi nel sistema occupazionale e settori dell’economia bisognosi di manodopera, come è avvenuto con l’accordo firmato a maggio da governo e parti sociali per l’inserimento di 3mila rifugiati nel settore delle costruzioni, formandoli mediante le Scuole edili a gestione congiunta.
Un terzo messaggio riguarda l’Unione Europea. Come ha ricordato Lamorgese, chi arriva in Italia arriva in Europa. La soluzione però non è una qualche redistribuzione di quote di profughi da assistere. Diversi altri Paesi della Ue, infatti, accolgono più rifugiati di noi, in assoluto e in rapporto alla popolazione.
Guardando alle prime domande di asilo (Eurostat), nel 2021 ci precedono Germania (148.200), Francia (103.800), Spagna (62.100). L’Italia è a quota 43.900, seguita da vicino dalla ‘piccola’ Austria (36.700). Ma il punto principale è che le persone non sono rifiuti ingombranti da smaltire, negoziando la suddivisione dell’onere tra i Paesi interessati.
Prendendo spunto anche a questo proposito dal caso ucraino, dovremmo invece impegnarci a sostenere il loro diritto di scegliere dove intendono insediarsi per costruire la loro nuova vita, mandando una buona volta al macero le Convenzioni di Dublino che li bloccano nel Paese di primo ingresso.
L’accoglienza dei profughi ucraini ci sta impartendo una lezione preziosa, su di loro, su di noi, sulla nostra capacità di accogliere. Facciamo in modo che si estenda anche a chi fugge da altre guerre e catastrofi umanitarie.
Immagine in evidenza di Ansa
Su Riforma.it
Continuano i corridoi umanitari anche per i profughi vittime di conflitti diversi da quello dell’Ucraina. Sono atterrati venerdì mattina 27 maggio a Fiumicino, con un volo proveniente da Beirut, 41 rifugiati siriani che hanno vissuto anni nei campi profughi della Valle della Bekaa e del nord Libano o in alloggi precari delle periferie di Beirut e Tripoli. Si tratta di famiglie e singoli che negli ultimi mesi hanno sofferto un pesante peggioramento delle loro condizioni di vita, non solo a causa della pandemia, ma anche della gravissima crisi politica, economica e sociale che sta attraversando il Libano.
A questo primo gruppo si sono aggiutne stamane 30 maggio altre 22 persone, per un totale di 63 persone. Tra di loro 23 sono minori che a causa della situazione precaria del Libano per lo più non frequentano la scuola e alcuni malati che verranno presi in cura negli ospedali italiani. Il nuovo arrivo permetterà anche la realizzazione di alcuni ricongiungimenti familiari con parenti che erano giunti in precedenza nel nostro paese con i corridoi umanitari.
Il loro ingresso in Italia è stato reso possibile attraverso il sistema dei Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, in accordo coi Ministeri dell’Interno e degli Esteri, che dal febbraio 2016 hanno portato in salvo nel nostro Paese, dal Libano, oltre 2.300 persone. Complessivamente in Europa con i corridoi umanitari sono giunti più di 4.600 richiedenti asilo.
I nuclei familiari giunti questa mattina saranno accolti anche da associazioni, parrocchie, comunità e singoli cittadini in diverse regioni italiane (Sardegna, Lazio, Lombardia, Calabria, Sicilia, Toscana, Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, Trentino) e verranno avviati in un percorso di integrazione: per i minori attraverso l’immediata iscrizione a scuola e per gli adulti, subito con l’apprendimento della lingua italiana e, una volta ottenuto lo status di rifugiato, l’inserimento nel mondo lavorativo. I corridoi umanitari, interamente autofinanziati (dalla raccolta fondi di Sant’Egidio e l’8 per mille della Tavola valdese) e realizzati grazie a una rete di accoglienza diffusa, rappresentano una best practice che coniuga solidarietà e sicurezza.
Mentre i rifugiati in fuga dall’Ucraina sono stimati ormai in circa cinque milioni, di cui circa 100mila in Italia, la brutta storia dell’accoglienza differenziata aggiunge nuovi anelli a una catena sempre più stretta. Dopo il Regno Unito, anche la Danimarca ha annunciato di voler sottoscrivere un accordo con il Ruanda per decentrare laggiù i propri obblighi di protezione dei rifugiati, deportandoli a migliaia di chilometri dal suo territorio. Ma non si tratta di una novità, bensì dell’inasprimento di un progressivo distacco del nobile Paese scandinavo dalla propria tradizione di impegno umanitario. Suona invece come un campanello d’allarme, per la sua rilevanza istituzionale e il suo significato politico, la notizia dell’accordo che l’Unione Europea sta negoziando con il Senegal per dispiegare nel Paese dell’Africa Occidentale l’apparato di Frontex, la discussa Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Lo ha riferito ‘Nigrizia’, la rivista dei missionari comboniani nel suo numero di questo aprile 2022.
Se l’accordo andrà in porto, sarà la prima volta di una missione di Frontex fuori dall’Europa, lontano dai confini della Ue e sul territorio di uno Stato sovrano africano, con truppe armate che vestono uniformi della Ue, dispiegano mezzi militari e dispongono di (costose) attrezzature di sorveglianza con i colori dell’Unione. Gli scopi sono quelli delle altre ormai numerose iniziative di «esternalizzazione delle frontiere» della Ue verso i Paesi di transito e talvolta di origine dei migranti e dei richiedenti asilo. Con una retorica sempre più stantia e sempre meno convincente, Bruxelles si trincera dietro gli obiettivi di lottare contro il traffico di esseri umani e di salvare le vite di chi dal Senegal sale a bordo di fragili imbarcazioni in direzione delle Isole Canarie, 1.500 km più a Nord: 19mila persone nel 2021. Le forze aeronavali di Frontex verrebbero pertanto inviate a presidiare la costa senegalese e il confine con la Mauritania. Come se i rischiosi viaggi della speranza non fossero l’effetto della mancanza di mezzi legali per raggiungere l’Europa, e tra i viaggiatori non si contassero persone che una volta giunte nel nostro continente avrebbero titolo per ottenere l’asilo. Frontex è diventata in pochi anni la più ricca e potente agenzia della Ue, con un bilancio rapidamente cresciuto, fino a raggiungere i 757 milioni di euro nel 2022. Forte già oggi di 2mila effettivi, dovrebbe arrivare a quota 10mila entro il 2027. Questo nonostante l’agenzia sia oggetto dal 2019 di accuse per violazione dei diritti fondamentali dei migranti, nel 2020 sia stata posta sotto inchiesta dall’Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta anti-frode, nel 2021 sia stata stigmatizzata da un rapporto molto critico della Corte dei Conti europea.
L’obiettivo politico di sigillare le frontiere nei confronti dell’immigrazione indesiderata, compresa quella umanitaria, a Bruxelles pesa più delle crescenti riserve sui metodi adottati da Frontex e sulle modalità d’impiego dei suoi ingenti fondi. L’annuncio della proposta di accordo Ue-Senegal da parte dell’eurocommissaria Johansson ha già suscitato le proteste delle organizzazioni della società civile africana ed europea.
In un documento presentato a febbraio a Bruxelles hanno richiamato il fatto che l’accordo mette in discussione la sovranità nazionale del Senegal, compromette la libertà di mobilità dei cittadini africani, solleva il problema dello squilibrio di potere tra un Paese in via di sviluppo e una potente istituzione interstatale del Nord del mondo come la Ue. Nel tempo delle porte aperte ai rifugiati ucraini, la disuguaglianza nel trattamento che ricevono i rifugiati di altre guerre, altre crisi umanitarie e altre persecuzioni, appare stridente come forse mai in passato. L’impeto di generosità a cui assistiamo è prezioso, ma deve fare breccia anche in altre direzioni, e non fermarsi ai confini d’Europa.
di Carlo Ciavoni su La Repubblica
Nel corso di “Prima Pagina”, la trasmissione quotidiana di Radio 3 dedicata alla lettura e ai commenti sui giornali, una ascoltatrice ha ricordato alla collega de La Stampa, Francesca Paci, questa settimana alla conduzione del programma, che esiste ancora un articolo della legge n. 94 del 2009 (il famigerato “pacchetto sicurezza”) che all’art. 6 del Testo Unico sull’Immigrazione impedisce di fatto la registrazione alla nascita dei figli di cittadini stranieri irregolari, cioè senza permesso di soggiorno. Un ostacolo che danneggia e pregiudica il futuro da cittadini dei neonati, privi di certificato di nascita solo perché figli di migranti irregolari. “Non costerebbe nulla cancellare o modificare quell’articolo”, ha sottolineato l’ascoltatrice, sarebbe una semplice correzione, senza nessun impegno finanziario da parte dello Stato. Basterebbe solo la sempre evocata “volontà politica”, finora mai dimostrata dai sette esecutivi che si sono succeduti dal 2009 ad oggi: rispettivamente i governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, i due governi Conte e quello attuale di Mario Draghi.
La possibile scelta dell’inesistenza. Le legge che vieta il certificato di nascita ai bambini di genitori senza permesso di soggiorno – è stato ricordato durante la conversazione tra l’ascoltatrice e Francesca Paci – contiene anche l’intento di far uscire allo scoperto gli immigrati irregolari, nel momento in cui vanno ad ufficializzare la nascita di un figlio. L’alternativa tragica – praticata chissà da quante persone – è invece quella di non registrare il neonato e sancire così la sua inesistenza come cittadino. Esiste una proposta di legge per reintrodurre esplicitamente gli atti di stato civile tra quelli per i quali non è necessaria l’esibizione dei documenti di soggiorno. L’ASGI – l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione – assieme ad altre organizzazioni, ha avviato una campagna per chiarire che l’obbligo di esibizione del permesso di soggiorno non venga applicato alla dichiarazione di nascita e al riconoscimento del figlio naturale, in quanto tra le possibili interpretazioni della legge, questa era ritenuta la sola conforme alla Costituzione e agli obblighi internazionali. Dunque è ormai da tempo – sebbene non se ne parli spesso – che diverse Associazioni per la tutela dei minori, assieme ad alcuni rappresentanti politici, richiedono una modifica legislativa per chiarire in modo definitivo i dubbi.
L’urgenza di imporre modifiche alla legge. Del resto, i principi Costituzionali evocati si riscontrano anche nell’ultimo Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione Onu sull’infanzia e l’adolescenza, oltre che suoi Protocolli Opzionali il Gruppo CRC, il network composto da più di 100 soggetti del Terzo Settore che da anni si occupano della promozione e la tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, coordinato da Save the Children Italia. Si ribadisce, insomma, l’urgenza di imporre modifiche normative per assicurare la sicura registrazione anagrafica per i minori stranieri figli di cittadini presenti irregolarmente.
Su Fondazione ISMU
Dopo la significativa riduzione del numero di richiedenti asilo, iniziata tra il 2017 e il 2018, e l’ulteriore contrazione delle domande di protezione avvenuta del 2020 nel periodo della pandemia Covid-19, Fondazione ISMU segnala che nel 2021 le richieste di protezione sono tornate a crescere. Infatti oltre 56mila migranti hanno fatto domanda di asilo nel nostro paese durante il 2021, più del doppio rispetto al 2020 quando le domande pervenute erano state 27mila.
Nel 2021 sono aumentati soprattutto i richiedenti asilo afghani e i minori. Tra i richiedenti asilo del 2021 spicca il dato relativo ai minorenni, che costituiscono un quinto di tutti i richiedenti, di cui 3.257 non accompagnati e 8.312 al seguito di adulti. La crisi afghana dell’agosto 2021 in particolare ha determinato un flusso importante di migranti in cerca di protezione: sono stati oltre 6mila i cittadini afghani che hanno fatto domanda di asilo in Italia l’anno scorso, mentre furono “solo” 600 del 2020. Nel complesso dei paesi UE gli afghani hanno presentato circa 97.800 domande di asilo, il doppio rispetto al 2020.
Nel nostro paese spiccano durante il 2021, oltre alle provenienze asiatiche ormai consolidate quali quelle da Pakistan (7.513) e Bangladesh (7.134), anche le domande presentate da cittadini tunisini, al terzo posto in graduatoria (7.102 richiedenti asilo).
Sul fronte degli esiti in prima battuta va segnalato come il numero di domande esaminate ha risentito dell’andamento delle richieste: le domande esaminate nel corso del 2020 sono state 42mila e quasi 53mila nel 2021, numeri ben diversi rispetto agli anni 2016-2019 quando le commissioni territoriali hanno esaminato in media 90mila domande all’anno.
Nel corso dell’ultimo biennio è diminuito il numero di esiti negativi (56% nel 2021 contro 75% del 2020), mentre nel 2021 è cresciuta la quota di coloro che hanno ricevuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria (oltre 16mila persone) ed è aumentata significativamente la risposta positiva delle Commissioni per la concessione di protezione speciale (6mila persone, pari al 12% di tutti gli esiti).
A determinare gli esiti positivi con massima protezione sono soprattutto le domande presentate da cittadini afghani, che nel 2021 hanno ricevuto nel 97% dei casi lo status di rifugiato o quantomeno la protezione sussidiaria, e da cittadini somali (95%). Gli esiti negativi alle domande esaminate nel 2021 sono invece determinati soprattutto dai dinieghi riguardanti cittadini provenienti da: Tunisia (92%), Bangladesh (85%) e Marocco (83%).
Se nel 2021 la crisi afghana ha determinato un flusso importante di richiedenti asilo anche nel nostro paese, nel 2022 si sta assistendo alla crisi dei profughi ucraini in fuga dalla guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. I dati relativi alle richieste di protezione di cittadini ucraini non sono ancora disponibili, ma soprattutto la grave crisi umanitaria sta determinando uno scenario in continua evoluzione con l’adozione di provvedimenti straordinari a livello europeo e nazionale per far fonte all’emergenza. Uno tra tutti il provvedimento che consente di concedere la protezione temporanea per la prima volta in Europa: il 4 marzo il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità una decisione di esecuzione che permette una protezione temporanea a seguito dell’afflusso massiccio di persone in fuga dall’Ucraina a causa della guerra. La protezione temporanea è un meccanismo di emergenza applicabile in casi di afflussi massicci di persone e teso a fornire protezione immediata, senza che sia necessario esaminare la sussistenza dei presupposti per lo status di rifugiato o protezione sussidiaria (previo accertamento della sussistenza dei presupposti e l’assenza di condizioni ostative indicati nel DPCM 29 marzo 2022). In Italia sono aperte le richieste di permesso di soggiorno per protezione temporanea per gli sfollati provenienti dall’Ucraina (per informazioni dettagliate consultare il sito https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/2373/Protezione-temporanea-emergenza-Ucraina-domande-in-Questura)
Flussi dall’Ucraina nei primi mesi del 2022. Nei prossimi giorni e mesi si capirà quale sarà il flusso verso l’Italia alla luce anche dell’introduzione della protezione temporanea, tenendo conto comunque che la maggior parte dei profughi per il momento si è spostata nei paesi limitrofi, con la speranza di poter tornare presto nelle proprie case, ma la situazione potrebbe cambiare in funzione dell’andamento del conflitto e della sua durata. I dati UNHCR, infatti, mostrano come i profughi ucraini siano attualmente soprattutto: in Polonia (2,5 milioni), in Romania (645mila), nella Repubblica Moldova e in Ungheria (400mila in entrambi in paesi). Per maggiori informazioni clicca qui.
Occorre, tuttavia, considerare che i cittadini ucraini sono esentati dall’obbligo di visto e possono circolare liberamente nell’area Schengen per 90 giorni. e, quindi, potrebbero spostarsi in altri Stati membri UE nelle prossime settimane.
Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno, nel 2022 le persone in fuga dal conflitto in Ucraina arrivate in Italia alla data di oggi 13 aprile sono complessivamente 91.137: 47.112 donne, 10.229 uomini e 33.796 minori (aggiornamenti disponibili su: https://www.interno.gov.it/it).
Sono oltre 76 mila i profughi ucraini arrivati in Italia dal 24 febbraio scorso (data di inizio dell’offensiva russa nel paese) a oggi. La maggior parte è composta da donne e bambini ospitati per ora presso familiari e amici. Per il flusso straordinario delle persone in fuga dalle zone di conflitto il coordinamento della gestione dell’accoglienza è stata affidata alla protezione civile, che ieri (29 marzo) ha emesso un’ordinanza (n.881) per fissare alcuni criteri base in termini di spesa e di assistenza. Sempre nella giornata di ieri (29 marzo) il presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato il dpcm sulla protezione temporanea che recepisce la decisione del Consiglio Ue del 4 marzo scorso.
I beneficiari della protezione temporanea prevista dalla direttiva 55/2001 sono gli sfollati dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022. In questa categoria rientrano non solo i residenti in Ucraina, ma anche cittadini di Paesi terzi che beneficiavano di protezione internazionale e i familiari. Il permesso di soggiorno ha validità di un anno e può essere prorogato di sei mesi più sei, per un massimo di un anno. Consente l’accesso all’assistenza erogata dal servizio sanitario nazionale, al mercato del lavoro e allo studio. Il provvedimento prevede anche specifiche misure assistenziali e consente ai cittadini ucraini già presenti in Italia di chiedere il ricongiungimento con i propri familiari ancora presenti in Ucraina. Per quanto riguarda l’accoglienza l’ordinanza 881 prevede contributi sia ai singoli che alle organizzazioni del terzo settore. In particolare per le persone che hanno trovato autonomamente un posto è previsto un contributo una tantum di 300 euro per tre mesi. A questi si aggiungono 150 euro per ogni minore presente in famiglia. Alle regioni e alle province autonome, invece, vengono riconosciuti 1500 euro circa per ciascun profugo. Il governo si impegna inoltre ad allargare di 15mila i posti attualmente in accoglienza.
“Dopo oltre un mese di guerra la montagna ha partorito topolino: abbiamo atteso tre settimane senza ragione, il dpcm di ieri non cambia nulla rispetto alle decisioni prese in sede europea. L’Italia poteva fare qualcosa di più e invece il governo ha scelto di appiattirsi sulle posizioni dei paesi di Visegrad”, è il commento duro di Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci nazionale. Le critiche sono rivolte alla scelte di includere tra i beneficiari solo gli ucraini, i lungosoggiornanti in Ucraina e i titolari di protezione internazionale, lasciando fuori chi aveva un permesso di breve periodo per studio o lavoro. “La decisione presa in sede europea consente ai governi di lasciarsi una aperta porta e di decidere autonomamente, l’Italia ha deciso di attenersi su posizioni più restrittive, questo implica che le persone dovranno fare domanda d’asilo, intasando il sistema”.Critiche arrivano anche sulla gestione dell’accoglienza. Secondo OpenPolis l’Italia si è fatta trovare impreparata anche stavolta, nonostante le riforme fatte negli anni per una gestione adeguata. “Ad oggi il 65% delle persone presenti nei centri di accoglienza sono ospitate nei Cas – scrivono in una nota -. Non stupisce quindi che il governo, in questa difficile situazione, abbia deciso di attivare la protezione civile, attraverso meccanismi emergenziali, piuttosto che affidarsi al sistema previsto dalle norme vigenti. In questo modo tuttavia si va delineando, almeno provvisoriamente, una nuova struttura emergenziale per la gestione dei rifugiati, del tutto sovrapposta, anche se in buona parte intersecata, a quella prevista dalla normativa vigente”.
Foto in evidenza di Daniele Napolitano su Redattore Sociale
Di Luca Rondi su Altreconomia
È la sera di martedì primo marzo quando il Flixbus su cui sta viaggiando Amol (nome di fantasia), cittadino di origine indiana, viene fermato all’imbocco del traforo del Frejus, verso la Francia, per i controlli di frontiera. La polizia d’Oltralpe controlla i documenti, Amol mostra il suo permesso di soggiorno ottenuto in Ucraina, racconta di essere scappato dalla guerra il 27 febbraio ed esibisce il suo passaporto con un timbro dell’Ungheria. Spiega che vuole raggiungere un parente in Portogallo. “Non puoi passare”, gli rispondono gli agenti francesi. Amol viene respinto dalla Francia verso l’Italia e accompagnato a Oulx, cittadina dell’Alta Val Susa, dalla polizia italiana. La storia dell’uomo indiano non è un caso isolato: decine di migliaia di persone rischiano di trovarsi “intrappolate” in un limbo giuridico. Sono i cittadini stranieri, originari di Paesi terzi, che in seguito all’invasione russa dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio sono scappati dal Paese e oggi rischiano di essere esclusi dalla “protezione temporanea” attivata dalle istituzioni europee per garantire accoglienza ai rifugiati ucraini.
In fase di votazione dell’applicazione della Direttiva 55 del 2001, che prevede appunto la possibilità per chi lascia il territorio ucraino di accedere a un permesso di soggiorno (e a forme di accoglienza) con un canale più veloce rispetto alla richiesta di protezione internazionale, il gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) ha contestato in sede di Consiglio europeo l’estensione della protezione temporanea ai cittadini non ucraini. Come ha spiegato Gianfranco Schiavone su Altreconomia, proprio su questo punto i Paesi del “gruppo” hanno minacciato di far “saltare il banco” e l’attivazione della Direttiva in toto. Il risultato è stato un testo “timido” in termini di garanzie per i cittadini di Paesi extra-Ue. La decisione infatti prevede, al considerando 12, la possibilità di garantire protezione a coloro che “soggiornavano legalmente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 sulla base di un permesso di soggiorno permanente valido rilasciato conformemente al diritto ucraino e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio Paese o regione di origine”. Il termine “permanente” lascia ampio spazio interpretativo ai singoli Stati membri così come il passaggio, al 13esimo punto, che invita i governi dell’Ue a garantire protezione, in caso di impossibilità di rientro nel Paese d’origine, anche a chi si trovava in Ucraina “per un breve periodo per motivi di studio o lavoro al momento degli eventi che hanno determinato l’afflusso massiccio di persone sfollate”. In entrambi i casi, comunque, resta necessario dimostrare per lo “straniero” il pericolo in caso di rientro nel suo Paese.
In Italia, dodici giorni dopo la pubblicazione della Decisione sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue manca ancora il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm) che dovrebbe delineare le regole di applicazione della protezione temporanea. Il 10 marzo 2022, però, una circolare della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, in seno al ministero dell’Interno, specifica che “in attesa del Dpcm” la possibilità di richiedere il permesso di soggiorno per protezione temporanea è riservata solamente ai “cittadini ucraini e loro famigliari”, “apolidi” e a “cittadini di Paesi terzi diversi dall’Ucraina che beneficiavano di protezione internazionale o protezione nazionale equivalente prima del 24 febbraio 2022”.
In altri termini: solo se un organo ucraino ha già dichiarato che la persona sarebbe in pericolo in caso di rientro nel Paese d’origine allora è possibile accedere alla protezione temporanea. In tutti gli altri casi, teoricamente, l’unica via possibile è la richiesta d’asilo anche per accedere a forme di accoglienza. Questo porterebbe, tra l’altro, a una “concentrazione” delle persone in fuga nei Paesi confinanti con l’Ucraina perché per il regolamento di Dublino la domanda d’asilo deve essere esaminata nel Paese dell’Unione europea di primo ingresso.
Il differente trattamento tra profughi che scappano da “diverse” guerre è lampante sui confini esterni europei. Il New York Times racconta in un dettagliato reportage i diversi destini di Albagir, giovane del Sudan di 22 anni, e Katya Maslova, 21 anni, originaria di Odessa in Ucraina. Entrambi vogliono attraversare la Polonia per raggiungere l’Ue: il primo, al confine con la Bielorussia, viene preso a pugni in faccia, insultato e lasciato nelle mani di una guardia di frontiera polacca che lo picchia brutalmente. Katya, invece, si sveglia ogni giorno “con un frigorifero rifornito e del pane fresco in tavola, grazie a un uomo che lei chiama santo”. Questa disparità sta però emergendo anche lungo i confini interni dell’Unione, per persone che scappano dallo stesso conflitto, come conseguenza della “stretta” sull’attivazione della protezione temporanea per i cittadini di Paesi terzi che lasciano l’Ucraina.
Lo sguardo sulle frontiere interne è quello degli operatori legali di Diaconia Valdese, attivi sul confine orientale di ingresso di Trieste e in uscita, lungo quello italo-francese, a Ventimiglia e Oulx. “Non rileviamo grossi problemi in ingresso in Italia. Più complessa invece è la situazione al confine francese -spiega Simone Alterisio, responsabile del Progetto Open Europe per Diaconia Valdese-. Chi ha permessi di soggiorno temporanei per lavoro e studio viene respinto e trattato allo stesso modo di coloro che vogliono attraversare la frontiera e non scappano dal conflitto in Ucraina”. I casi di persone a cui viene negata la possibilità di far ingresso in Francia restano, per ora, contenuti. “Probabilmente la maggior parte delle persone non vengono intercettate -spiega Costanza Mendola, operatrice legale di Diaconia Valdese a Ventimiglia- perché arrivano in macchina e vengono respinte senza ‘passare’ dal nostro Sportello. Anche perché spesso non hanno bisogno di assistenza e cercano in autonomia altre soluzioni”.
Sul confine marittimo sono sei i casi registrati, tutti di persone di origine nigeriana e provenienti da Kiev, di cui quattro uomini soli e una famiglia. Avevano tutti un permesso temporaneo per studio e alcuni di loro nel giro di pochi giorni hanno preso un volo per tornare in Nigeria con non pochi problemi perché, non essendo vaccinati, non riuscivano a raggiungere Milano Malpensa. “Avevano tutti il timbro della polizia ungherese sul passaporto quindi teoricamente per 90 giorni avrebbero potuto circolare nello spazio Schengen -spiega Mendola-. La stessa polizia di frontiera italiana ha provato a chiedere chiarimenti ai francesi, senza successo. ‘Le regole dall’alto sono queste’ hanno risposto”.
Chi viene respinto resta in un limbo. A Oulx un cittadino nepalese è rimasto bloccato per diversi giorni al rifugio Massi, struttura in cui le persone in transito trovano sostegno. “Era confuso sulla propria situazione -spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese-. Aveva viaggiato liberamente in autobus fino in Italia, dopo essere uscito dall’Ucraina dove da qualche mese studiava la lingua locale per prepararsi al primo anno di università. Aveva un permesso di soggiorno temporaneo e voleva raggiungere il Portogallo. Mi ha raccontato che ha provato a spiegare la sua fuga dal conflitto alla polizia e la condizione di regolarità nel Paese ma la polizia gli ha notificato un refus d’entrée”. Un rifiuto d’ingresso giustificato dall’assenza di un documento di soggiorno valido per attraversare il confine. Come lui, altre due persone di origine nepalese, un indiano, due algerini e un nigeriano sono stati respinti tra il 3 e il 17 marzo.
“Nel decreto di attuazione francese della Decisione sulla protezione temporanea viene ripreso interamente quanto scritto nella decisione del Consiglio -spiega l’avvocata Anna Brambilla, membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)-. Chi ha un titolo di soggiorno permanente e non aveva una protezione riconosciuta dovrà dimostrare i motivi per cui non può rientrare nel Paese d’origine. Nel testo la locuzione ‘et’ viene messa in grassetto per sottolineare come non basti un documento ma la ‘prova’ del pericolo in caso di rimpatrio. La diversa trasposizione del testo tra i diversi Paesi creerà dei problemi”. Se la Spagna, ad esempio, garantirà protezione a tutti i soggetti, compresi i cittadini di Paesi extra-Ue, allora il passaggio alla frontiera interna per raggiungere il territorio spagnolo dovrà essere garantito. “Le difficoltà riguardano soprattutto gli studenti, chi era ‘irregolare’ in Ucraina e i richiedenti asilo. Soprattutto con riferimento a chi aveva un permesso per studio resta la difficoltà di iscrivere le persone in istituti italiani perché, banalmente, resta necessario convertire gli esami e far sì che sia tutto in regola”.
Se per gli studenti internazionali è complesso avere delle stime, così non è per gli “irregolari”. Nell’aprile 2021 l’Organizzazione mondiale per le migrazioni dichiarava una presenza alla fine del 2019 di un numero compreso “tra le 37.700 e 60.900 persone senza un regolare documento di soggiorno”. Una stima basata su tre diversi metodi di studio, di cui due su tre propendono per un numero superiore alle 60mila presenze. “La maggior parte di questi entra in Ucraina -si legge nel documento- con un valido permesso per studio o turismo ma successivamente perde il documento”. A questi si aggiungono circa 2.800 richiedenti asilo presenti nel Paese secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Tra l’altro, l’Unhcr sottolinea nel documento come il tasso di riconoscimento sia pari a circa il 21% ma “ancora più basso” per coloro che provengono da “Paesi produttori di rifugiati” come Siria e Afghanistan. L’Oim stimava che al 9 marzo, a fronte di 2,2 milioni di profughi che avevano lasciato il Paese circa 109mila erano cittadini di Paesi terzi.
In questo quadro, Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee ha annunciato il 2 marzo l’invio di 150 agenti e 45 auto di pattuglia in Romania, al confine con la Moldavia e l’Ucraina, come misura per “sostenere” gli Stati membri nella gestione del flusso di rifugiati in fuga dal conflitto. Ma non solo. Lo scorso 10 e 11 marzo i primi voli hanno lasciato la Polonia con a bordo 394 persone, soprattutto famiglie, verso il Tagikistan e il Kirghizistan. “Frontex – si legge nel comunicato stampa- sta anche esaminando i modi in cui l’agenzia può sostenere i cittadini non ucraini che sono fuggiti dal Paese e che desiderano tornare nei loro Paesi d’origine con voli di rientro”. Sperando che il “desiderio” non sia drammaticamente l’unica opzione possibile per le persone.
Sono passati trent’anni dall’approvazione dell’attuale legge sulla cittadinanza, la legge 91 del 5 febbraio 1992. Già allora l’Italia si era scoperta multietnica, soprattutto per effetto dell’ampio dibattito attorno alla legge Martelli del 1990 e alla sanatoria correlata. Eppure, la reazione del sistema politico, pressoché unanime, fu quella di guardare al passato, riconoscendo una serie di diritti a figli e nipoti degli antichi emigranti italiani, guardando con favore ai concittadini della Ue (che, pure, della cittadinanza italiana non avevano bisogno), ma raddoppiando il tempo richiesto per diventare cittadini agli immigrati provenienti da Paesi extracomunitari: da cinque a dieci anni.
Nemmeno il fascismo aveva preso una misura del genere, essendo la legge precedente (quella dei cinque anni) in vigore dal lontano 1912. Il fatto che nella maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale (Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Svezia…) oltre che negli Usa, vigesse la soglia dei cinque anni non scalfì l’improvvisa sete di italianità ancestrale dei nostri legislatori, trascinati all’epoca dalle argomentazioni parlamentare missino Mirko Tremaglia.
Iniziarono tempi duri anche per i figli degli stranieri residenti: la legge riconosceva loro la cittadinanza solo al compimento della maggiore età, a patto che – nati qui – fossero sempre vissuti in Italia. Sei mesi passati, anche in tenera età, coi nonni nel paese di origine della famiglia o, più grandi, all’estero per un qualsiasi motivo bastavano a sbarrare la strada.
Da allora molti flussi di persone sono passati attraverso frontiere, sanatorie, dinamiche familiari. La popolazione immigrata, stagnante nei numeri da circa dieci anni, si è attestata poco sopra i cinque milioni di persone, in prevalenza donne. È composta oggi prevalentemente di famiglie ricongiunte, in cui vivono circa un milione di minorenni. In altri Paesi europei, come Germania, Spagna, Grecia, nel frattempo le norme sono state riformate in senso più favorevole agli immigrati, sebbene con cautela.
Lo Ius soli automatico, alla nascita, per tutti, non esiste più in nessun Paese europeo, ma le norme complessivamente vanno incontro al desiderio d’integrazione delle nuove generazioni. In Spagna per chi nasce sul territorio è sufficiente un anno di residenza. In Germania si applica lo Ius soli a condizione che almeno uno dei genitori sia residente da almeno otto anni e in possesso di un permesso a tempo indeterminato. In Grecia è stata introdotta una forma di Ius culturae: cittadinanza a chi ha frequentato almeno sei anni di scuola.
Solo l’Italia è rimasta ferma al palo, prigioniera di un dibattito insieme ideologico e dominato dalla paura di un’«invasione» mai avvenuta. Deteniamo ora il poco invidiabile primato di Paese più restrittivo dell’Europa occidentale sulla materia. Anche ai legislatori idealmente più aperti a una ragionevole riforma – quella, a suo tempo, definita dello Ius culturae con elementi di Ius soli temperato – manca il coraggio di affrontare un dibattito pubblico in cui temono di essere sovrastati dalle urla di chi griderebbe al «tradimento» di un’identità italiana basata sul sangue (e rivolta sostanzialmente al passato).
Anzitutto, nonostante norme tanto sfavorevoli, un volume di cinque milioni di residenti stranieri, ormai insediati da anni, produce naturalmente ogni anno un numero consistente di candidati eleggibili per la naturalizzazione. Gli ostacoli non mancano (ricordiamo che il Ministero dell’Interno mantiene un potere discrezionale sulla materia, e può bastare molto poco per vedersi rigettare l’istanza) e i tempi sono lunghi.
Molti si scoraggiano, ma un bel numero di domande di cittadinanza ogni anno vanno in porto: 132.736 nel 2020, pari al 26,4 per 1.000 stranieri residenti. In secondo luogo, un numero considerevole di neo-cittadini si serve del nuovo passaporto italiano (ed europeo) per compiere una nuova emigrazione. Si prende la via di Paesi più promettenti: 228.000 nel decennio 2010-2019, su un totale di 898.000 (Dossier immigrazione 2021). Paradossalmente, chi vorrebbe veder diminuire il numero degli immigrati dovrebbe facilitare la loro naturalizzazione. In terzo luogo, come osservano Salvatore Strozza, Cinzia Conti ed Enrico Tucci su ‘Neodemos’, non è affatto detto che tutti gli stranieri residenti facciano la fila per diventare italiani appena se ne dischiuda l’opportunità.
Vivono in Italia oltre 1,1 milioni di stranieri con un’anzianità di presenza di oltre 15 anni che non hanno acquisito la cittadinanza. Ed è giusto che sia così: diventare cittadini dovrebbe essere una scelta, non una condizione per accedere a qualche diritto in più. Da questo punto di vista, il fatto che l’impiego pubblico continui a essere precluso agli stranieri, persino ai medici e infermieri in tempi di Covid, ha l’effetto paradossale di spingere verso la cittadinanza chi magari preferirebbe farne a meno.
Resta il paradosso di ragazzi a cui si chiede di studiare lingua, letteratura, storia, geografia e Costituzione italiane, per centinaia di ore all’anno, ma a cui si chiudono le porte della piena appartenenza nazionale, come minimo fino ai 18 anni. Ragazzi che poi scoprono l’inconveniente di essere ‘stranieri’ a casa loro quando vorrebbero andare in gita all’estero con i compagni, oppure praticare uno sport agonistico, e soprattutto quando si affacciano al mercato del lavoro, dove un numero innaturale di datori richiede la cittadinanza come requisito per l’assunzione.
Siamo in un anno pre-elettorale e gli slogan e le cattive approssimazioni minacciano ancora una volta di prevalere sulla realtà e sulla ragione. Abbiamo ancora molta strada da percorrere per diventare un Paese capace di consentire una vita normale a chi lo abita e lo vorrebbe riconoscere come sua patria. E per valorizzare tutto intero il suo patrimonio umano.
Immagine in evidenza su pixabay
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