Su Melting Pot Europa
Il primo dato che emerge dal rapporto è proprio quello di un’emergenza che non c’è, perché in tre anni, dal 2018 al 2020 le persone accolte in Italia sono diminuite del 42%.Eppure 7 su 10 sono accolti in centri straordinari, perché è il sistema di accoglienza ad essere basato sulla risposta emergenziale, evidenziando il fallimento di quanto stabilito dal primo Decreto Sicurezza.
Al nuovo rapporto si aggiunge una novità: una mappatura dettagliata – attraverso un sito web facilmente utilizzabile e liberamente accessibile – di tutti i centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo del paese. La piattaforma di monitoraggio centriditalia.it, realizzata da ActionAid insieme a openpolis, permette di avere a disposizione in formato aperto tutti i dati dei centri di accoglienza sparsi nel territorio nazionale.
E’ il risultato di un lavoro di raccolta e analisi dati sui centri esistenti in tutta Italia. Un lavoro capillare, che mostra nel dettaglio il numero dei posti disponibili nelle strutture, le presenze effettive, chi gestisce il centro, i prezzi, la localizzazione. Uno strumento per chiunque voglia conoscere, capire, monitorare il sistema, dal singolo cittadino, a giornalisti e ricercatori. E uno strumento che colma un vuoto informativo di Governo e Istituzioni: ad oggi – scrivono le organizzazioni – manca ancora la relazione annuale obbligatoria del 2020 del Ministero dell’Interno al Parlamento.
L’assenza di informazioni verificate e trasparenti ha prestato il fianco per troppo tempo a speculazioni politiche. Non serve gestire l’accoglienza con politiche emergenziali, perché l’emergenza non c’è. Nel 2020 i rifugiati e richiedenti asilo in accoglienza rappresentano solo lo 0,13% della popolazione italiana. Nonostante siano calati drasticamente gli sbarchi e gli ingressi, non c’è stata nessuna volontà di ripensare il sistema e privilegiare l’accoglienza diffusa e pubblica.
“Con un calo delle presenze di queste proporzioni, si sarebbe potuto incentivare con facilità l’accoglienza diffusa delle persone in piccoli centri. Un risultato positivo che invece si è evitato a causa di una scelta politica insita nel Decreto Sicurezza: destrutturare il sistema pubblico di accoglienza diffusa, incentivare l’approccio emergenziale e i centri straordinari e tagliare i servizi per l’integrazione, lasciando che le persone prive di mezzi scivolino verso una condizione di soggiorno irregolare e di estrema marginalità sociale” spiegano Fabrizio Coresi, Programme Expert on migration e Cristiano Maugeri Programme developer di ActionAid.
“Centri d’Italia può fornire elementi concreti per porre in essere politiche pubbliche basate sull’impatto delle riforme attuate negli anni, e non sulla strumentalizzazione della questione migratoria. Dobbiamo tuttavia rilevare che nonostante gli sforzi nella richiesta dei dati e i progressi nell’ottenimento degli stessi, rimangono ancora oscuri aspetti essenziali per la realizzazione di una trasparenza effettiva dell’accoglienza in Italia. Parliamo dei dati economico-finanziari che collegano i singoli centri agli enti gestori, che ad oggi ci sono stati negati”, continuano Michele Vannucchi e Mattia Fonzi, responsabili di progetto per openpolis.
In risposta alla diminuzione delle presenze, tra il 2018 e il 2020, i curatori del rapporto hanno assistito a una diminuzione del 25,1% del numero di centri attivi sul territorio nazionale e del 40,2% dei posti complessivamente disponibili (il 46,8% in meno nel sistema Sprar/Siproimi). A fine 2020, 7 persone su 10 sono accolte in centri di gestione prefettizia. Di questi, i centri di piccole dimensioni sono quelli ad aver perso più posti dal 2018 al 2020, quasi 22mila.
Ad aumentare è invece la centralità delle città più grandi. In 16 città vengono ospitate oltre il 18% delle persone e i centri di Roma e Milano tendono ad essere i più grandi. Due anni prima la percentuale era al 14,2%. Scendono anche i prezzi, ovvero la cifra attribuita per spese di vitto, alloggio e servizi per l’integrazione e a subire il maggior taglio sono i prezzi per i centri piccoli (-27%) e succede in particolare al nord, con punte che arrivano al -46%.
Gli autori spiegano che ci sono ancora molte informazioni fondamentali a cui non hanno avuto accesso, nonostante le molte richieste di accesso agli atti, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Un esempio sono i codici fiscali e le partite IVA dei gestori, utili a identificarli con sicurezza e a verificare un fenomeno registrato anche in passato, ovvero l’ingresso nel sistema di società for profit prive di vocazione sociale, competenze ed esperienza necessarie. “Fino a quando la maggioranza dei richiedenti asilo che si trovano nel paese sarà ospitata in centri straordinari, non ci potrà essere approccio sistemico all’accoglienza sui territori” conclude Fabrizio Coresi di ActionAid.
La speranza per le organizzazioni è che il Ministero prenda atto della situazione e proceda e garantisca maggiore trasparenza sul sistema, quest’ultima giudicata come un antidoto contro il business sulle spalle dell’accoglienza e contro la criminalizzazione della solidarietà.
Il rapporto “L’emergenza che non c’è” è disponibile qui.
La piattaforma è disponibile qui.
Immagine in evidenza di Openpolis
Di Luca Rondi su Altreconomia
A pochi metri dal confine di ponte San Luigi, a Ventimiglia, Mosaab si affaccia dal parapetto guardando il porticciolo di Mentone, prima cittadina in territorio francese. “Dopo essere sopravvissuto alla Libia – spiega – non avrei mai immaginato che passare questo confine sarebbe stato così difficile”. Per l’ottava volta il giovane diciottenne originario del Sudan del Sud è stato identificato e riaccompagnato sul territorio italiano dalla polizia d’Oltralpe. È il numero 39 – dice il foglio che ne sancisce il divieto di ingresso – di una giornata quasi primaverile di fine gennaio. Mosaab è solo uno degli oltre 24mila respingimenti registrati al confine italo-francese nel 2021: secondo i dati ottenuti da Altreconomia provenienti dal ministero dell’Interno il 13% in più rispetto al 2020 e pari al 46% in più del 2019. “Da quando la collaborazione tra le polizie è più intensa è sempre più difficile passare e il ruolo dei passeur è sempre più rilevante”, spiega Enzo Barnabà, scrittore e storico che abita a poche centinaia di metri dal confine italo-francese.
Alla stazione italiana di Ventimiglia la polizia controlla a intermittenza gli accessi ai treni: nel primo mattino un dispiegamento di sette agenti rende pressoché impossibile a tutti coloro che hanno determinate caratteristiche somatiche salire sul treno in mancanza di documenti: due poliziotti presidiano l’uscita dalle scale che dal tunnel portano sulla piattaforma. Ma all’ora di pranzo, nel cambio turno, sulle piattaforme dei binari si perdono le tracce degli agenti almeno per un paio di ore. Allo stesso modo i francesi non riescono a garantire un controllo costante. “Il venerdì pomeriggio, quando c’è il mercato di Ventimiglia, meta da parte dei cittadini francesi, in treno praticamente non controllano nessuno” spiega Alessandra Garibaldi, operatrice legale di Diaconia Valdese (diaconiavaldese.org). “Così come quando gioca il Nizza: il prefetto concentra i controlli allo stadio e il passaggio è più facile” aggiunge Barnabà. Non sono “falle del sistema” ma la consapevolezza che non è possibile bloccare migliaia di persone in una cittadina al confine tra due Stati membri dell’Unione europea. Un confine sempre più militarizzato con “infinite” possibilità di passarlo: a piedi, in treno o in camion percorrendo le strade statali lungo l’autostrada. Tanto che da Bordighera, la città prima di Ventimiglia viaggiando in direzione Nizza, le piazzole di sosta sono chiuse e nell’ultimo autogrill italiano non è possibile la sosta per i tir con un peso maggiore di 3,5 tonnellate.
Bashir, diciottenne originario del Ciad, racconta che è la seconda volta che prova ad attraversare e viene respinto. “Ieri abbiamo pagato 50 euro per sapere dove fosse l’imbocco del sentiero – spiega -. Per passare in macchina ne servivano 300 ma io non ho tutti quei soldi”. Bashir è arrivato in Italia da appena 30 giorni ed è la seconda volta che prova ad attraversare a piedi: la polizia francese l’ha intercettato nella tarda serata del giorno prima e poi trattenuto tutta la notte. Da Grimaldi, un Paese di meno di 300 abitanti a otto chilometri da Ventimiglia parte il sentiero che è stato ribattezzato “Passo della morte”. Diversi oggetti segnano la strada: valigie, ombrelli, spazzolini, documenti “stracciati”. Chi transita si alleggerisce passo dopo passo di tutto ciò che è superfluo. Superata l’autostrada, il sentiero prosegue verso l’interno della vallata per poi risalire dritto verso il crinale della montagna. Un “buco” nella rete metallica permette l’ingresso in Francia, da quel punto in poi è più difficile seguire le tracce della strada. Di notte, le persone sono attratte dalle luci di Mentone sotto di loro. Puntano verso il basso rischiando di scivolare nel precipizio. “È un sentiero che hanno utilizzato gli ebrei che scappavano in Francia, gli ustascia che scappavano dall’ex Jugoslavia negli anni 50. Oggi lo percorrono i migranti correndo gli stessi rischi di sempre” spiega Barnabà che su quel sentiero e sui “ricorsi” storici ha pubblicato un libro dal titolo “Il Passo della Morte” pubblicato per Infinito edizioni. Un confine, quello tra Italia e Francia, che resta mortale.
Il primo febbraio è stato trovato il corpo carbonizzato di un migrante sopra il pantografo di un treno diretto da Ventimiglia a Mentone. Una notizia arrivata poche ore dopo quella dell’identificazione di Ullah Rezwan Sheyzad, un giovane afghano di 15 anni trovato morto lungo i binari della linea ferroviaria di Salbertrand, in alta Valle di Susa, lo scorso 26 gennaio mentre tentava di raggiungere la Francia attraverso la rotta alpina.
Aboubakar è stato respinto insieme a Bashir nonostante i suoi sedici anni: sul foglio di respingimento la polizia ha indicato la maggiore età. Le persone rintracciate vengono prima accompagnate nella sede della polizia francese, prima del confine del ponte San Luigi e successivamente riconsegnate, un centinaio di metri più in su percorrendo la strada in direzione Ventimiglia, alle autorità italiane di fronte alla sede della polizia di frontiera. “Teoricamente la procedura di rifiuto di ingresso implicherebbe un esame individuale delle persone e la garanzia del rispetto di certi diritti per le persone fermate – spiega Emilie Pesselier, coordinatrice del progetto sulle frontiere interne francesi dell’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (anafè.org) -. Ma alla frontiera franco-italiana questo non succede: non c’è nessuna informazione legale sulla procedura e sui diritti, nessuna possibilità di contattare un avvocato o un parente, e nessuna possibilità di chiedere l’ingresso nel territorio in regime di asilo. Inoltre, le persone arrestate possono essere private della loro libertà in locali adiacenti alla stazione della polizia di frontiera francese senza alcun quadro giuridico o diritto e in condizioni di reclusione poco dignitose: ci sono solo panche di metallo attaccate alle pareti degli edifici modulari. E le persone restano rinchiuse in queste condizioni a volte per tutta la notte. Anche le persone vulnerabili”.
Nel 2021 secondo i dati ottenuti da Altreconomia su un totale di 24.589 respingimenti la maggioranza dei respinti dalla Francia verso l’Italia proviene dalla Tunisia (3.815), seguiti dal Sudan (1.822) e dall’Afghanistan (1.769). Un aumento, nel totale, rispetto al 2019 (16.808) e al 2020 (21.654). Ormai da quasi sette anni – giugno 2015 – la Francia mantiene i controlli ai confini interni per dichiarate “ragioni di sicurezza” nonostante il periodo massimo previsto dal codice Schengen sia di 24 mesi. L’eccezionalità diventa normalità con la “benedizione” delle istituzioni europee. “La Commissione non ha mai fermato queste procedure -spiega l’avvocata Anna Brambilla dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it) – si è sempre limitata a ricordare agli Stati il rischio di progressivo svuotamento dello spazio di libera circolazione a causa del prolungato ripristino dei controlli alle frontiere interne e a suggerire misure alternative come i controlli di polizia. Oggi la Commissione torna a proporre di rafforzare la strategia degli accordi bilaterali di riammissione e di cooperazione di polizia”. È il “cambiamento di paradigma” nella cooperazione con i Paesi terzi (e non) previsto dal Patto sulla migrazione e l’asilo presentato nel settembre 2020 al Parlamento europeo: procedure di riammissione più semplici e senza garanzie in termini di rispetto dei diritti. “Da un rischio di svuotamento di significato di alcune disposizioni si passa al consolidamento di prassi illegittime al punto che si modifica il testo normativo per farle diventare legittime”.
Questi “accordi” hanno così effetti devastanti sulle persone, costrette a tentare più e più volte di attraversare ma anche su Ventimiglia. “È una città che non si è mai adattata a quello che è il transito delle persone affrontando la migrazione sempre come fenomeno emergenziale – continua Garibaldi, dal 2017 operatrice legale al confine -. Si pensa che l’unico modo di gestire la situazione sia aumentare le forze dell’ordine ma i risultati sono evidenti”. Le persone vivono per strada. Adulti, giovani, donne e bambini. La Caritas prova a sistemare le famiglie in transito negli appartamenti ma non sempre ci riesce. “La notte è il momento più complesso – spiega Christian Papini, il direttore della Caritas Intermelia -. Devi fare attenzione perché ti possono rubare la tenda, picchiare. Questa ‘paura’ si ripete ogni giorno. Non avere una rete che ti protegge, nessuna nicchia sicura porta a complicanze, spesso vulnerabilità psichiatrica. Le persone cominciano ad abusare di sostanze psicotrope e alcol e la tensione in città non può che aumentare”. La difficoltà nell’attraversare la frontiera rende tutto più complesso. “Chi non riesce a passare e resta ‘bloccato’ in un imbuto, che è Ventimiglia, inizia a vivere per strada e facilmente inizia a delinquere e magari a fare il passeur. Perché non ha alternative” conclude Garibaldi.
In questo modo, spesso le tensioni si realizzano tra i passeur che hanno promesso “false” soluzioni alle persone che vengono respinte. La Caritas nel mese di agosto 2021 ha registrato 180 interventi di ambulatorio medico legati a ferite da taglio o contusione. Piccoli “regolamenti di conti” in un contesto paradossale in cui i controlli portano ad aumentare le attività illecite. Se si considera che nel 2021 i respinti dalla Francia all’Italia sono stati 25mila e la “tassa” per conoscere anche solo il sentiero da percorrere è di 50 euro mentre il passaggio in macchina, come detto, arriva a costare fino a 300 euro a persona si capisce l’entità di un’economia sommersa ma visibile a tutti in una città militarizzata. “Le istituzioni non ci sono. Ora si parla di aprire un centro, lontano dalla città e su un’area che è a rischio dissesto idrogeologico. È tutto detto e la situazione è sempre più difficile nonostante i numeri dei transiti siano in calo” racconta Papini che lavora a Ventimiglia dal 2001. Si è passato da circa 800 persone al giorno nel 2016, alle 200 di oggi. “Ma chi arrivava all’inizio, sette anni fa, aveva speranza di passare. Oggi non è più così. Le persone sanno che dovranno tentare tante volte e sono esauste. Giusto ieri è arrivata una famiglia con due figli in carrozzina. Tutto questo è disumano”.
Immagine in evidenza di Luca Rondi/Altreconomia
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Una donna, madre di due figli, è stata picchiata mentre era rinchiusa nel carcere di Ain Zara. È stata arrestata durante la retata che c’è stata nell’area di Gargarish. Chi gestisce la prigione controlla i rifugiati, compie abusi contro le donne. Siamo molto spaventati”: è un passaggio di una lettera inviata dai migranti rinchiusi nel carcere di Ain Zara, nella periferia meridionale di Tripoli, all’account Twitter Refugees in Libya, un account gestito da rifugiati e attivisti in Libia.
Centinaia di persone sono incarcerate in seguito al blitz avvenuto tra l’8 e il 9 gennaio, compiuto mentre un gruppo di rifugiati protestava davanti alla sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) chiedendo di essere trasferiti dalla Libia, un paese considerato non sicuro, in cui i migranti sono sottoposti ad abusi di ogni tipo, detenzione arbitraria e violazioni sistematiche dei diritti umani. Era il 2 febbraio 2017 quando l’allora presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni firmò il Memorandum di intesa (Mou) con Tripoli sui migranti che prevedeva di ripristinare l’accordo di amicizia Italia-Libia del 2008. Il giorno successivo i leader europei salutavano con favore il patto italo-libico sull’immigrazione in un vertice a Malta.
L’accordo prevedeva la formazione e il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica – che avrebbe avuto il compito di pattugliare le coste per fermare le imbarcazioni di migranti – e il finanziamento dei centri di detenzione libici, chiamati dall’accordo “centri di accoglienza”. Nonostante le numerose denunce di violazioni dei diritti umani, di “inimmaginabili orrori” (documentati dall’Onu nel 2018) commessi nei centri di detenzione libici finanziati dal governo italiano “dai funzionari pubblici, dai miliziani che fanno parte di gruppi armati e dai trafficanti”, in un contesto di assoluta impunità, il governo italiano nel 2020 ha prorogato automaticamente l’accordo per altri tre anni (fino al 2023). Cinque anni dopo la firma del Memorandum, la guardia costiera libica ha fermato e riportato indietro nel paese 82mila persone.
Secondo l’ong Oxfam di più di 20mila migranti riportati in Libia si sono perse le tracce. Per finanziare la guardia costiera e i centri di detenzione, l’Italia ha speso quasi un miliardo di euro. Secondo Amnesty international “uomini, donne e bambini rimpatriati in Libia devono affrontare detenzioni arbitrarie, torture, condizioni disumane, stupri e violenze sessuali, estorsioni, lavori forzati e uccisioni. Invece di affrontare queste continue violazioni dei diritti umani, il governo libico di unità nazionale continua a essere complice degli abusi e a rafforzare l’impunità, come illustrato dalla recente nomina di Mohamed al Khoja a direttore del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim). Al Khoja gestiva il centro di detenzione di Tariq al Sikka, dove sono stati documentati abusi ai danni dei migranti”.
In un rapporto del 17 gennaio 2022, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto di provare una “grave preoccupazione” per le continue violazioni dei diritti umani contro rifugiati e migranti in Libia e ha confermato che “la Libia non è un porto di sbarco sicuro per rifugiati e migranti”. Il rapporto conferma inoltre che la cosiddetta guardia costiera libica ha continuato a operare in modi che mettono a grave rischio la vita e il benessere dei migranti e dei rifugiati che tentano di attraversare il mar Mediterraneo. Nonostante questo, un rapporto interno del comandante dell’operazione navale dell’Unione europea Eunavfor Med Irini, pubblicato dall’Associated press il 25 gennaio 2022, conferma che le autorità europee sono intenzionate a continuare la cooperazione con la guardia costiera libica.
L’attuale accordo dell’Italia con la Libia scade nel febbraio del 2023, ma si rinnoverà automaticamente per altri tre anni se le autorità non lo annulleranno prima di novembre del 2022. In concomitanza con il quinto anniversario dell’accordo, centinaia di associazioni e di ong, italiane, libiche, africane ed europee, hanno chiesto che il governo italiano revochi il patto, presentando un’analisi degli effetti dell’accordo sulla vita degli stranieri nel paese nordafricano. “Il Memorandum Italia-Libia sta, nei fatti, agevolando la strutturazione di modelli di sfruttamento e riduzione in schiavitù all’interno dei quali sono perpetrate in maniera sistematica violenze tali da costituire crimini contro l’umanità”, denuncia il rapporto.
Immagine in evidenza di Mahmud Turkia/Afp
Di Rosita Rijtano su lavialibera
Sovraffollamento, carenza di vestiti adatti al gelo, e di cibo. Sono le condizioni in cui vivono i richiedenti asilo che nei mesi scorsi sono arrivati in Polonia attraversando il confine bielorusso. Lo denunciano associazioni umanitarie e volontari che chiedono la chiusura delle strutture in cui hanno trattenuto quasi tutte le persone che da maggio a oggi sono riuscite a superare la frontiera. Centri di sorveglianza per stranieri simili ai nostri Centri per il rimpatrio (Cpr), in cui “non ci sono gli standard minimi per il rispetto dei diritti umani”, dice a lavialibera Monia Matus di Grupa Granica, sigla sotto cui sono riunite più organizzazioni non governative polacche, aggiungendo che il Paese non ha una politica migratoria: “Una lacuna che rende difficile processare le richieste d’asilo, con il conseguente rischio di possibili abusi”. Non va meglio a chi ancora si nasconde nella foresta tentando di superare il valico polacco, dove nelle scorse ore è iniziata la costruzione del muro annunciato a novembre.
Sin dall’inizio, il governo di destra guidato da Mateus Morawiecki ha ostacolato gli aiuti umanitari al confine, agitando lo spettro dell’invasione nonostante i numeri fossero gestibili. A settembre il parlamento ha adottato lo stato di emergenza, un provvedimento che ha imposto delle restrizioni nella lingua di terra a tre chilometri dalla Bielorussia, limitando i soccorsi. Il provvedimento è stato prorogato di mese in mese fino a dicembre, quando sono state decise nuove regole. Ma nei fatti sembra che non molto sia cambiato. Il 6 gennaio Medici senza frontiere ha annunciato l’abbandono della Polonia per l’impossibilità di accedere alla zona confinaria.
Un’altra ferita aperta sono i respingimenti legalizzati a ottobre dal Sejm, la camera bassa del parlamento di Varsavia, con un emendamento alla legge sugli stranieri: i migranti che superano il confine vengono riportati in Bielorussia, senza che venga presa in considerazione la loro volontà di richiedere asilo. Una pratica che viola i trattati internazionali, ma che in questi mesi in Polonia è diventata prassi nel silenzio d’Europa. Dopo essere stato respinto più volte, chi è ritornato a Minsk ora si trova davanti poche opzioni. Stando a quanto hanno raccontanto a lavialibera alcuni di loro, nelle ultime settimane Lukashenko sta imponendo un ricatto: o vengono arrestati, o rientrano nel proprio Paese, o riprovano a entrare in Polonia.
Qui, in totale, si contano sette centri di sorveglianza per stranieri, di cui uno aperto di recente proprio per far fronte al flusso migratorio in arrivo dalla Bielorussia. Al momento si stima che ospitino circa duemila individui. Tutte le strutture, incluse quelle in cui ci sono i bambini, si trovano in condizioni pessime. “Il principale problema è il sovraffollamento – spiega Matus –. Ma le persone con cui abbiamo parlato denunciano anche la carenza di cibo e di vestiti adeguati al freddo”. Pochissime le postazioni internet, a cui ognuno ha accesso non più di quindici minuti al giorno. Banditi gli smartphone dotati di fotocamera e di strumenti di registrazione audio.
Un’altra difficoltà generale è legata ai lunghi tempi di attesa per ottenere risposta alla richiesta di asilo. In teoria, non dovrebbero passare più di tre mesi. In pratica, grazie alla possibilità di prolungare di altri tre mesi il soggiorno all’interno di queste strutture, alcuni si ritrovano imprigionati per molto tempo. “Di contro, le domande accolte sono pochissime”. Nel 2020, per esempio, hanno ottenuto protezione internazionale solo 392 persone, a fronte delle 2803 che ne avevano fatto richiesta. “Il governo polacco non ha mai brillato per la gestione dei richiedenti asilo, ora la situazione è solo peggiorata”, conclude Matus.
Molto critica la situazione a Wedrzyn, collocato all’interno di una caserma per l’addestramento militare, a circa cinquanta chilometri dalla Germania. La struttura ospita 593 uomini, con camere da 24 posti letto ciascuna. Hanna Machinska, vice garante civica (l’istituzione che in Polonia si occupa di difendere i diritti umani), ha visitato il centro il 24 gennaio scorso, documentando che la densità rende impossibile il rispetto dei diritti e riduce la funzione di Wedrzyn a quella di mero “isolamento”. L’unico spazio aperto è un piccolo cortile recintato dal filo spinato.
La vice garante ha anche fatto notare che la superficie minima prevista per gli stranieri in queste strutture (due metri quadri) è persino inferiore a quella dei detenuti nelle carceri (tre metri quadri) e al di sotto degli standard raccomandati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (quattro metri quadri). Non solo: i richiedenti asilo si trovano in un cattivo stato mentale, esasperato dal fatto di essere da molto tempo costretti a rimanere in un luogo così sovraffollato.
Da mesi, nel centro si susseguono le proteste. L’ultima qualche giorno fa. Uno sciopero della fame a cui hanno partecipato, tra gli altri, sette siriani. Il gruppo si trova a Wedrzyn da dicembre, quando spontaneamente si è presentato alla Guardia di frontiera polacca accompagnato dagli attivisti di Grupa Granica. Due di loro, Munzer e Gaith, hanno visto la propria città natale distrutta dall’Isis e sono stati più volte incarcerati dal regime siriano per la propria attività politica. In particolare – riportano i volontari dell’associazione –, Munzer ha paura delle armi e il posto in cui si trova gli riporta alla mente le traumatiche esperienze vissute in Siria. “Non possiamo restare ancora in prigione, rispettiamo il Governo polacco, ma non c’è alcuna ragione per tenerci qui”, ha detto il giovane agli attivisti.
Silvia Cavazzini, una volontaria italiana che parla ogni giorno con alcune persone all’interno della struttura, aggiunge che anche le cure mediche sono carenti: a un ragazzo che soffre di epilessia, per esempio, non gli sono state riconosciute tutte le medicine di cui aveva bisogno. “Ma al di là dei casi specifici, tutti lamentano di stare male e di non ricevere abbastanza supporto”. Inesistenti, poi, le misure anti-Covid: “Hanno detto – prosegue Cavazzini – di non aver ricevuto alcuna mascherina, né di aver fatto un tampone all’ingresso”. In uno dei cinque blocchi che compongono il centro, la situazione sarebbe persino peggiorata dopo una rivolta, quando i tafferugli avrebbero portato a una rappresaglia delle guardie che ha ripercussioni ancora oggi: un limitato accesso alla Rete.
Intanto al confine sono partiti i lavori per la costruzione di una barriera lunga circa 186 chilometri, che la Guardia di frontiera polacca, sul proprio sito ufficiale, definisce “il più grande investimento nella storia” del corpo. La struttura si compone di pali di acciaio alti cinque metri e sormontati da una rete di filo spinato. Non mancano tecnologie all’avanguardia: sensori di movimento e telecamere. Il costo è di 353 milioni di euro. “Vogliamo che la recinzione sia installata entro la fine della prima metà del 2022”, ha dichiarato a novembre il ministro degli Interni di Varsavia Mariusz Kaminsky.
Contro il finanziamento del muro con i soldi dell’Unione europea, si era espresso l’ex presidente dell’europarlamento David Sassoli, morto l’11 gennaio: “Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità, muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo dalla fame dalla guerra dalla povertà”, ha detto nel suo ultimo video messaggio pubblicato in occasione delle festività natalizie, aggiungendo: “Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini e quando combattiamo contro tutte le ingiustizie”.
Ma sulla questione l’Europa è divisa. Se l’opinione di Sassoli aveva una spalla sicura nella presidente della Commissione Ursula von der Leyen, la pensano diversamente i 12 Stati Ue che hanno firmato una lettera aperta in cui si legge che “una barriera fisica è un’efficace misura di protezione della frontiera a servizio degli interessi dell’intera Europa”. Un’analisi interna al Consiglio, letta dalla testata Politico, riporta che i Paesi interessati potrebbero ottenere i fondi nel caso in cui rispettino leggi e condizioni Ue, garantendo la supervisione delle istituzioni e in particolare accesso alla frontiera a Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera). Un ultimo segnale di apertura è arrivato a novembre, quando il presidente del Consiglio Ue Charles Michel in visita a Varsavia, ha affermato che “basandosi sull’opinione del servizio legale del Consiglia, (il finanziamento, ndr) è legalmente possibile”.
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Su Nigrizia
Un report, il secondo, per mettere in evidenza la situazione dei minori stranieri non accompagni (msna) in Italia e la concretezza di una legge del 2017 creata ad hoc, la legge Zampa. Il Cespi, Centro studi di politica internazionale, con il suo Osservatorio nazionale sui minori stranieri non accompagnati, fa il punto su cosa sia successo, dall’inizio della pandemia, a questi 11.159 ragazzi e ragazze che si trovavano, a novembre del 2021, secondo i dati del ministero del lavoro e delle politiche sociali, sul nostro territorio nazionale.
Lo fa partendo da numeri che fotografano la presenza di oltre 11mila minori, per lo più maschi (97,3%), 17enni (62,9%) provenienti dal Bangladesh (25%), Tunisia (14%), Egitto (14%) e Albania (11%). La piccola percentuale femminile (2,7%) vede le ragazze arrivare per lo più dalla Costa d’Avorio (19,8%) e dall’Eritrea (9,6%). La maggior parte di questa popolazione straniera adolescente è accolta in Sicilia (29,7%), che è seguita da Friuli-Venezia Giulia (9%) e Puglia (8,2%).
Presentata l’entità del fenomeno msna, l’Osservatorio si sofferma sull’analisi di quel che la legge Zampa prevede nero su bianco e quel che invece è la realtà. Sottolineando l’alta ed entusiasta adesione all’indomani della promulgazione della norma, che prevede la figura del tutore volontario per i minori non accompagnati. Alla celere risposta di centinaia di persone, provenienti da ambiti del sociale, associazionismo, educazione, che hanno aderito alla richiesta di questa figura di supporto, non è corrisposta altrettanta rapidità dei tempi burocratici che avrebbero dovuto permettere effettivamente a queste persone di dare inizio al loro percorso di sostegno.
Le selezioni, le nomine, la formazione, l’accompagnamento al percorso di coloro che si erano offerti per il ruolo di tutore non hanno avuto una tempistica/modalità adatta al funzionamento della macchina tutoriale. Davanti a delle disponibilità della società civile non c’è stata una risposta organizzativa di quella governo-amministrativa.
In tutto questo non ha poi giovato l’arrivo della pandemia e le restrizioni per il covid-19. L’Osservatorio Cespi analizza nel dettaglio quali siano stati i contraccolpi su questa tutela volontaria e sulle necessarie relazioni che devono intercorrere tra la persona del tutore e quella del minore straniero. Gli oltre 10mila ragazzi e ragazze si sono infatti trovati chiusi nelle strutture e la maggior parte dei rapporti che avevano è praticamente scomparsa. Così come i corsi dedicati, le uscite occasionali e i momenti di socializzazione al di fuori dei contesti di accoglienza.
Senza contare come la prassi consolidata della quarantena obbligatoria da trascorrere sulle navi, nonostante l’esito del tampone negativo, abbia interessato anche questa fascia d’età per buona parte della fase pandemica. Tra coloro che arrivavano via mare nel 2020/2021 e venivano messi in isolamento forzato vi erano anche i msna fino a ottobre 2021. Questo è avvenuto nonostante, come riporta Osservatorio, da più parti le associazioni e organizzazioni impegnate nella tutela dei minori avessero sottolineato che tale procedura andava contro quanto stabilito dalla legge Zampa su accoglienza e accompagnamento dei minori.
Sono state necessarie ben tre morti di msna sulle navi quarantena perché i tribunali di Palermo e Catania aprissero delle inchieste su tale prassi e arrivassero a interrompere una pratica diventata abitudinaria nonostante fosse palesemente lesiva dei diritti dei minori.
Il monitoraggio della legge Zampa da parte del Cespi sottolinea la distanza tra ciò che la legge prevede e l’effettiva messa in pratica della norma in tema di accoglienza e accompagnamento delle situazioni che questi minori presentano. L’impianto di verifica dell’Osservatorio coadiuvato dall’aiuto di Defence for children international Italia prende in esame per il proprio focus quattro regioni, Sicilia, Puglia, Liguria e Marche; mettendo alla luce una criticità non da poco nel sistema accoglienza e migrazione: l’alto numero di fughe tra i minori stranieri che arrivano in Italia.
E, soprattutto, il problema concreto e diffuso dell’apolidia di chi sbarca sul territorio nazionale. La mancanza di riconoscimento di una nazionalità comporta infatti tutta una serie di problematiche nella gestione dei diritti. Problematiche cui si affianca la mancata conoscenza del fenomeno degli apolidi da parte degli operatori che hanno a che fare con questi minori e che sono figure di riferimento importanti non solo per rendere coscienti i minori stessi ma per dare inizio il prima possibile alle procedure di riconoscimento prima della maggiore età. Accanto a questa seria difficoltà, il Cespi sottolinea come sia necessario creare dei meccanismi stretti di scambio tra le istituzioni coinvolte in questo riconoscimento.
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Su Centro Astalli
Sette migranti di nazionalità bengalese, sono morti mentre tentavano di raggiungere Lampedusa su un’imbarcazione che trasportava circa 280 persone, partita dalla Libia tre giorni fa. Tre cadaveri sono stati trovati a bordo, mentre altri quattro sono deceduti sulla terraferma. Tutti vittime dell’ipotermia.
P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, esprime cordoglio per le vittime: “in questo giorno di lutto rivolgiamo un appello alle istituzioni nazionali e sovranazionali: non condanniamo all’invisibilità uomini e donne in cerca di una vita dignitosa.
Ritorniamo a una politica che applichi le convenzioni internazionali, che abbia una visione di governo ispirata al rispetto dei diritti umani e che non lasci morire nell’indifferenza alcun essere umano. In un momento cruciale per il Paese, per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, queste morti richiamano ai principi fondanti la nostra Costituzione che fa dell’Italia uno Stato che accoglie lo straniero nel cui Paese non siano riconosciute le medesime libertà democratiche garantite qui (articolo 10 comma 3).
Si agisca per salvare vite creando vie di ingresso legali per i migranti che alle porte d’Europa chiedono di entrare in cerca di protezione, accoglienza e integrazione”.
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Su Avvenire
La Polonia ha iniziato i lavori per erigere il muro anti-profughi al confine con la Bielorussia. Un’opera che l’opposizione attacca, definendola senza mezzi termini «il muro della vergogna».
Ad annunciare l’avvio del cantiere è stata la Guardia di frontiera: si tratta della barriera che il governo di Varsavia vuole alzare per proteggere il Paese dall’ondata di profughi usati come un’arma dal dittatore Aleksander Lukashenko. Un flusso di uomini, donne e bambini che, a piedi, sognano di raggiungere l’Europa, attraversando boschi, paludi e il fiume che separa i due Stati, sfidando in questi mesi anche il gelo.
L’esecutivo di Morawiecki ha stanziato investimenti senza precedenti per blindare 186 chilometri di frontiera a un costo enorme: 1,6 miliardi di zloty, pari a oltre 350 milioni di euro. Ma il governo è finito nel mirino delle opposizioni che lo accusano di rendere la Polonia un simbolo della mancanza di solidarietà con i migranti in arrivo dalle zone più disastrate del mondo.
La frontiera fra Polonia e Bielorussia è lunga 418 chilometri, 171 dei quali costeggiati dal fiume Bug, mentre 67 chilometri passano attraverso paludi. Il muro sarà costruito solo sulla terra ferma, ha spiegato Anna Michalska, la portavoce della Guardia di frontiera, aggiungendo che l’impatto di quest’iniziativa sull’ambiente dovrebbe essere minimo.
Non sono d’accordo però scienziati e ambientalisti legati alla Foresta di Bielowieza, che si trova esattamente sul confine e che dovrebbe ora essere divisa dal muro. È una riserva unica, popolata da bisonti e altri animali: 152 mila chilometri quadrati, 62 mila dei quali appartengono alla Polonia. Fra i vari timori, anche quello che un intervento del genere possa far cancellare la Foresta dall’elenco dei patrimoni dell’Unesco.
La costruzione del muro, stando all’opposizione, non si giustifica peraltro di fronte a numeri vanno via via diminuendo: oggi sono stati 17 i profughi che hanno cercato di attraversare il confine, ieri 20, due giorni fa 6.
Per l’europarlamentare Pietro Bartolo, che alcune settimane fa ha visitato le zone al confine polacco-bielorusso, Varsavia «volta le spalle ai valori fondanti dell’Europa». «Spero in una nuova Norimberga per tutti coloro che hanno permesso la morte dei profughi», ha detto alla Gazeta Wyborcza, ricordando le decine di persone decedute per il freddo, la fame o lo sfinimento di fronte ai respingimenti alla frontiera.
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Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Immagine in evidenza di Agenzia Ansa
È mattino presto all’esterno del rifugio Massi di Oulx, cittadina in alta Val Susa a meno di venti chilometri dal confine italo-francese. Abdullahi, originario della Somalia, mostra i documenti agli operatori legali presenti in struttura. Sono i primi di gennaio 2022. Nella notte ha tentato di attraversare la frontiera passando il tunnel del Frejus con un Flixbus per arrivare in Germania, dove lo aspettano moglie e tre figli. Ha un titolo di viaggio valido e l’asilo politico ottenuto in Grecia ma quel documento è scaduto. Anche se fosse valido il suo passaggio non sarebbe scontato: l’Europa “tradisce” se stessa con Abdullahi che torna alla stazione dei treni e riparte per tentare l’attraversamento su un altro confine. “Se l’asilo è un diritto riconosciuto da tutti gli Stati membri, non vedo perché una persona alla quale viene riconosciuto tale diritto di restare sul territorio per essere protetto non possa muoversi liberamente all’interno dello spazio Schengen. Proprio la libera circolazione è il principio fondante dell’Ue ma su questo confine viene sistematicamente negata”, spiega Giovanni Papotti, avvocato e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it).
La “temporanea” sospensione della libera circolazione al confine italo-francese è diventata normalità. Da quando nel 2015 l’esecutivo di Parigi ha proclamato lo stato d’emergenza in seguito agli attacchi terroristici la presenza di controlli al confine ha continuato ad aumentare di anno in anno. “I Paesi membri dell’Ue possono reintrodurre i controlli alle frontiere per un massimo di due anni ma il governo francese sembra dimenticarsene. Aumentano i militari ma il flusso non si blocca e l’unico risultato è rendere più rischioso l’attraversamento delle persone in transito” spiega Emilie Pesselier dell’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (anafè.org). Il confine dell’alta Val Susa è frastagliato. Si espande sia in ampiezza sia in altezza: si va dal colle della Scala, 1.300 metri di altitudine sopra Bardonecchia, al monte Chaberton, 3.300 metri. Tante opzioni tra cui le persone possono scegliere.
In questo quadro la presenza della polizia francese si concentra soprattutto nei diversi punti in cui confluiscono i numerosi sentieri che collegano il territorio francese a quello italiano. È la mattina del 5 gennaio quando su una pista da sci a pochi chilometri dal confine, due poliziotti schivano gli sciatori e puntano a Nord, poi improvvisamente cambiano direzione dirigendosi verso il fondo valle. Una “caccia all’uomo” orchestrata dai “piantoni” che dal pilone della seggiovia prima contano il numero di persone (straniere) che scendono alla fermata dell’autobus, nel centro di Claviere, poi seguono il loro tentativo di attraversare il confine. “Sapendo di essere controllate dall’alto spesso le persone si fermano a Claviere cercando nascondigli di fortuna e aspettando il buio per poi partire a un certo punto della notte con temperature insostenibili” spiega Michele Belmondo del Comitato della Croce Rossa italiana di Susa. Anche per questo, la Croce Rossa ha istituito pattugliamenti per cercare di presidiare i valichi di frontiera. “È capitato che qualcuno, infreddolito e al buio, cambiasse idea”.
Negli ultimi mesi, gradualmente, anche raggiungere Claviere con l’autobus non è scontato. Per servire i passeggeri del TGV che viaggiano da Parigi a Milano erano previsti degli autobus che da Bardonecchia e Oulx portavano le persone a Briançon facendo tappa anche nelle città di confine italiane. Oggi sono stati soppressi: le persone vengono fatte scendere a Modane e un autobus attraversa due volte il confine prima a Bardonecchia e poi a Claviere per garantire il servizio. Chilometri, tempo e spese in più per i cittadini francesi ma soste sul territorio italiane scongiurate. Anche l’azienda italiana Sadem ha diminuito le corse che da Oulx si dirigono verso il confine. “Le persone arrivano a Claviere con circa dodici chilometri in più sulle gambe, più stanchi e malconci, di certo non si fermano perché manca l’autobus” commenta Belmondo.
Se tra il 2017 e il 2018 la maggioranza delle persone che arrivavano in Val Susa erano originarie dei Paesi dell’Africa sub-sahariana, oggi chi arriva a Oulx ha percorso la rotta balcanica o è arrivato attraverso la nuova rotta via mare che collega la Turchia direttamente alla Calabria: gli afghani sono in questo momento la nazionalità prevalente. Il nuovo rifugio, aperto a fine dicembre 2021, ai primi di gennaio conta poche presenze sugli 80 posti disponibili. “Per il freddo bosniaco che ha temporaneamente bloccato le partenze” dicono i volontari.
Seduti ai tavoli due ragazzi afghani, di 15 e 17 anni, chiedono informazioni. Durante la mattina hanno provato ad attraversare la frontiera: vedendo la polizia hanno deviato sui sentieri ma con le scarpe da ginnastica di tela hanno desistito. Non sanno che per loro il passaggio sarebbe concesso, almeno sulla carta, per la loro età. Le regole della frontiera sono spesso poco conosciute anche se, chi percorre la rotta balcanica prima di arrivare in Val Susa conosce meglio il freddo, le montagne. Per chi è arrivato via mare, l’idea di questa frontiera si materializza invece a un passo dal confine. Samba, di origine ivoriana, al mattino ha tentato di attraversarla trascinando una valigia e percorrendo la strada asfaltata come un normale turista. È stato respinto senza grandi sforzi della polizia.
Da quando nell’estate 2021 è operativo l’ufficio di polizia di frontiera a Bardonecchia, le persone vengono “consegnate” dalle autorità francesi a quelle italiane alla stazione di polizia al confine tra Briançon e Claviere o in quella di Modane a seconda della zona di attraversamento. Tutto ruota attorno al regolamento di Dublino, il sistema che costringe le persone a richiedere protezione nel Paese di primo arrivo. “Non sembra essere concepito manifestare la domanda di asilo in frontiera ed entrare, in questo modo, in una eventuale procedura Dublino prima di essere ritrasferiti in Italia – spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese (diaconiavaldese.org) che a Oulx offre un servizio di supporto a chi è in transito -. Il respingimento avviene invece in poche ore e, per il fatto che non vi è un provvedimento, risulta impossibile da impugnare”. Se le riammissioni avvengono in tarda serata le persone vengono trattenute negli uffici di polizia francesi. “Sono container con pochi letti e spazi spesso sovraffollati, soprattutto oggi considerando la pandemia. Non sempre sono presenti mediatori o interpreti che informino le persone sui loro diritti, né vi è spazio per una valutazione delle vulnerabilità”. Solamente i minori – per cui non valgono le regole di Dublino – se hanno possibilità di “confermare” la propria età riescono ad attraversare. “Soprattutto da quando è presente la polizia di frontiera italiana. In termini di rispetto dei diritti delle persone in transito è l’unica cosa che è cambiata da quando ci sono gli agenti italiani – spiega Pesselier di Anafè -. Per il resto la violazione dei diritti nelle procedure è sistematica”.
I numeri che si registrano a Oulx sono un termometro della permeabilità della frontiera. “Generalmente sono 30 transiti, in media al giorno ma a volte aumentano – spiega Belmondo di Croce Rossa -. A ottobre abbiamo accolto quasi 2mila persone, a novembre quasi 2.200 con picchi serali di 120 presenze. Da un lato l’aumento degli arrivi, dall’altra la frontiera era meno permeabile e il flusso era bloccato per diversi motivi: le persone bloccate a Briançon perché senza il green pass non potevano ripartire dalla cittadina con i mezzi pubblici, forse la situazione di Calais che ha fatto stringere le maglie al governo francese. Poi il flusso è tornato normale: questo dimostra che i controlli non fermano le persone. Semplicemente queste tentano più volte e magari su strade più pericolose”.
Il 3 gennaio la polizia francese ha diffuso la foto di un uomo di 31 anni, di origine marocchina, ritrovato morto a Freney, a Sud di Modane, che molto probabilmente ha attraversato il confine italo-francese tra il 29 dicembre e il primo gennaio 2022. “Un sentiero meno battuto ma non per questo meno ‘frontiera’. Non è però la montagna che ammazza ma i controlli di polizia -spiega Piero Gorza coordinatore dei volontari di Medici per i diritti umani (medu.org) in Piemonte -. Chi può tenta in tutti i modi. Giovani che hanno bucato una decina di frontiere e pensano di farcela anche questa volta. La disumanità di questa farsa per cui bisogna militarizzare tutto, le persone passano lo stesso ma poi qualcuno muore. E così da farsa diventa una tragedia”. Dal 2018 sono sei le persone morte su questo confine. “Ma è una stima. Spesso i soccorsi sono difficili: non si conosce la persona esatta e poi sono persone che non vengono reclamate da nessuno. Nel mese di aprile tre ricerche si sono concluse nel nulla”, sottolinea Michele.
La rete solidale è quella che salva. Perché fornisce giacche, scarponi, berretti, guanti e di fatto fa attività di prevenzione. “La particolarità di questa frontiera è forse la presenza di una rete ramificata di sostegno. Si tenta di dare una risposta dignitosa a chi transita” spiega Gorza. Una rete che è trasversale: il movimento anarchico che, occupando la casa cantoniera Chez JesOulx hanno accolto per anni chi era in transito, i volontari che quotidianamente si recano al rifugio Massi per sostenere le attività, le suore di Susa, che offrono posti letto e sostegno per i casi più vulnerabili, le Ong attive sul confine. Oggi questa accoglienza è più istituzionalizzata rispetto al passato, dopo la chiusura della casa cantoniera. “Una casa che ha salvato molte vite, ne sono convinto e che ci interroga molto – continua Gorza -. Così come a Velika Kladuša, in Bosnia ed Erzegovina, le persone forse preferiscono i posti informali. In molti ci stiamo interrogando sul perché. Si cercano così soluzioni che garantiscano un’accoglienza sempre più adeguata alle persone in transito: laddove vengono riconosciute come soggetti e meno come ‘migranti’, meno ‘cose’ oggetto della benevolenza altrui si sentono più accolte. La frontiera funziona da angolo prospettico per capire molte cose del nostro mondo”.
Un essere soggetti che interroga anche il diritto. “Gli attuali meccanismi legislativi e burocratici da Dublino all’impossibilità di circolare liberamente non rispettano i tempi della migrazione, gli affetti, la possibilità di scegliere il posto in cui vivere non solo in base a motivi economici – conclude Papotti -. È lo stesso passato coloniale degli Stati membri che influisce sul desiderio di una persona di andare in Francia, magari perché banalmente sa già la lingua. Tutto questo manca, in normative che continuano a guardare alla migrazione con la lente sbagliata. Questa frontiera lo dimostra”.
Foto in evidenza di Luca Rondi/Altreconomia
Di Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Corriere della Sera
Quasi la metà degli Stati dell’Unione Europea vuole che Bruxelles paghi la costruzione di barriere fisiche per frenare la migrazione irregolare. Lo hanno chiesto il 7 ottobre 2021 con una lettera di 4 pagine alla Commissione europea i ministri degli interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. I ministri sostengono che una recinzione è «un’efficace misura di confine che serve l’interesse di tutta l’Unione, non solo degli Stati membri del primo arrivo» e che andrebbe «adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria». Il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer, ha anche dichiarato che il sistema di quote dell’UE per la distribuzione dei richiedenti asilo sarebbe «inutile» fino a quando le frontiere esterne non saranno «rigorosamente» protette. Sono passati 22 anni dall’accordo di Schengen e l’inversione di tendenza è iniziata con la crisi in Siria del 2012. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri: a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri, tutti di difesa territoriale, a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Oggi ne conta 16 per oltre mille km, tutti in chiave anti-migranti.
La costruzione di muri e recinzioni anti-migranti è iniziata negli anni ‘90, con il caso della Spagna a Ceuta (1993) e Melilla (1996), per bloccare gli arrivi dal Marocco, ma è dal 2012 con la crisi siriana che il fenomeno è esploso in Europa. Comincia la Grecia con una barriera di fossati e doppio filo spinato di 150 km e alta 4 metri lungo le rive del fiume Evros, al confine con la Turchia, per arginare la fuga dei siriani diretti in Europa. Poi è stata la volta della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia per bloccare i profughi siriani: il muro è stato definitivamente concluso nel 2017 per una lunghezza complessiva di circa 200 km, con filo spinato, torrette presidiate da soldati e guardia di frontiera con camere a infrarossi e sensibili al calore. La rotta balcanica, percorsa dai profughi in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Afghanistan, è stata via via chiusa dal 2015. L’Ungheria ha prima bloccato quasi tutto il confine con la Croazia (300 km di barriera su 329) e nei due anni successivi ne ha alzato un’altra lunga tutti i 151 km di confine con la Serbia. La Macedonia ha blindato 33 km al confine con la Grecia, l’Austria ha disposto 3,7 km di filo spinato lungo il confine con la Slovenia che, a sua volta, ha chiuso 200 dei 670 km che li divide dalla Croazia. A quel punto la rotta da oriente verso l’Europa si è spostata più a nord, e così nel 2016 la Norvegia ha eretto una barriera di 200 km e alta 4 metri lungo il confine con la Russia; lo stesso hanno fatto nel 2017 la Lituania e la Lettonia. Lituania, Lettonia e Polonia hanno anche annunciato nuove barriere di 508, 134 e 130 km lungo il confine con la Bielorussia.
Scelte che non hanno funzionato, come dimostrano i dati di Iom. Gli arrivi via terra sono stati 26.395 nel 2016, 15.662 nel 2017, 31.257 nel 2018, 24.636 nel 2019, 13.666 nel 2020 e 33.296 nel 2021: per una media di 24.152 all’anno. Quelli via mare, invece, sono stati 363.581 nel 2016, 171.837 nel 2017, 115.399 nel 2018, 103.836 nel 2019, 85.809 nel 2020 e 111.144 nel 2021: per una media di 158.601 all’anno. Costruire muri ha però alimentato la strumentalizzazione politica, cavalcata dai partiti xenofobi che sono cresciuti in popolarità ed esercitano pressioni che limitano le soluzioni. Oggi tra i 28 membri dell’UE ci sono 39 partiti politici che promuovono una violenta retorica anti-migranti, e in dieci Stati membri (Austria, Danimarca, Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Italia, Ungheria, Polonia e Paesi Bassi) hanno una forte presenza in Parlamento.
Però poi i migranti servono. Se n’è accorto il Regno Unito dopo la Brexit, rimasto senza camionisti che distribuissero le merci ed è stato costretto a mettere in campo l’esercito. Se ne accorge l’Italia: le nostre imprese hanno bisogno di braccia che sostengano la crescita ed hanno chiesto a Draghi di rivedere la politica migratoria. A dicembre il Governo ha deliberato il nuovo Decreto Flussi che disciplina l’ingresso dei lavoratori stranieri. Per il 2022 il numero è fissato a 69.700 per sostenere i settori agricolo, turistico-alberghiero, autotrasporto merci ed edilizia. Una svolta rispetto agli ultimi sei anni, quando il numero complessivo era sempre rimasto costante a quota 30.850.
Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno delle grandi divisioni. Oggi esistono 70 muri nel mondo: 40 mila chilometri di recinzioni, quanto basta per coprire l’intera circonferenza della Terra secondo i calcoli di Elizabeth Vallet dell’Università di Montreal. Undici furono costruiti tra il 1947 e il 1991, durante la guerra fredda, sette tra il 1991 e il 2001, ventidue tra il 2001 e il 2009. E ben 30 negli ultimi 10 anni. Senza considerare altri 7 già finanziati e in via di completamento. L’Asia è quella che ne ospita di più, 36, ma è anche il continente più esteso al mondo. Fra i più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan, tra Iran e i Paesi confinanti. Nessuno ha mai realmente funzionato, se non là dove sparano dalle torrette di controllo (Corea del Nord). Chi vuole fuggire trova sempre un modo, a costo della propria vita, basta leggere i numeri degli annegati sulla rotta mediterranea. Anche qui parlano chiaro i dati (fonte Unhcr): nel 2010 i richiedenti asilo e rifugiati nel mondo erano 16 milioni, saliti a 24,2 nel 2015 e diventati 34,4 nel 2020. Lo stesso trend è stato seguito dal numero e dalla percentuale dei migranti totali.
La scelta dell’Unione Europea in questi anni è stata quella di cercare di frenare i flussi migratori prima dell’ingresso, pagando, e gestire i rimpatri. In questa chiave vanno tutti gli accordi firmati con i Paesi satelliti, come quello del 2016 con la Turchia alla quale sono stati già destinati 6 miliardi di euro per evitare le partenze irregolari verso tutti gli Stati membri. Altri 3,5 miliardi arriveranno ad Erdogan nei prossimi quattro anni, mentre 2,2 miliardi andranno in Siria, Libano, Giordania e Iraq. Anche la sorveglianza è aumentata, con i sistemi informatici utilizzati per controllare la migrazione, come il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema di archiviazione dei dati Eurodac. Per pagare tutti questi controlli e sorveglianza, il bilancio di Frontex è passato da 6,2 milioni nel 2005 a 543 milioni nel 2021.
Scelte che hanno consegnato un’arma di ricatto in mano ai leader politici più spregiudicati: lo fa il Marocco con la Spagna, lo sta facendo la Turchia di Erdogan, e da ultimo la Bielorussia di Lukashenko, che sta agevolando l’ingresso di profughi iracheni per poi spingerli sul confine europeo allo scopo di ottenere le cancellazioni delle sanzioni. Non si è percorsa, invece, la strada di aprire e gestire i flussi in maniera regolare, ma nemmeno quella di applicare uno schema di ridistribuzione dei migranti tra i diversi Paesi membri. La Commissione non ci è riuscita, come non è riuscita a fa passare l’idea di un contributo economico per i rimpatri da parte dei Paesi che rifiutano la redistribuzione verso quelli, come l’Italia, che si trova ad essere il primo Paese d’ingresso dalla rotta africana. In sostanza se ogni Paese pensa a sé, per quale ragione gli africani, iracheni, afgani, siriani, pakistani non dovrebbero pensare a loro stessi, e fermarsi di fronte ad un filo spinato?
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