Su Il Post
Lunedì mattina centinaia di migranti, molti dei quali provenienti dal Medio Oriente, hanno raggiunto a piedi il confine tra Bielorussia e Polonia. Sono stati scortati dalle guardie di confine bielorusse, che li hanno poi incoraggiati a entrare in Polonia.
Sono mesi che la Bielorussia accoglie e poi spinge verso il territorio polacco migliaia di migranti e richiedenti asilo, in quello che viene considerato un tentativo di mettere in difficoltà la Polonia e l’Unione Europea, avversari politici del regime autoritario di Alexander Lukashenko: non era mai successo, però, che un numero così alto di migranti venisse spinto verso la Polonia in una sola volta.
Le immagini del flusso di persone tra il confine bielorusso e quello polacco sono state diffuse soprattutto attraverso i social network, con video che mostrano moltissime persone, tra cui famiglie con bambini, che camminano per strada portando con sé sacchi, zaini e qualche vestito. Le persone si trovavano nella strada che porta dalla cittadina bielorussa Bruzgi a quella polacca Kuźnica, da un lato all’altro del confine tra Bielorussia e Polonia. Nei video si vede bene che sono state scortate e accompagnate verso il confine polacco dalle guardie di confine bielorusse.
Non si sa di preciso quante fossero: Reuters ha parlato di centinaia di persone, il Guardian di circa circa 500. Non si sa di preciso neanche la loro provenienza, anche se si suppone che arrivino soprattutto dal Medio Oriente, come gli altri migranti che nei mesi scorsi sono arrivati in quella zona. Non è facile avere notizie precise anche perché, come spiegato dal sito di attualità polacca Notes from Poland, è molto difficile per i media indipendenti raggiungere quella zona e raccontare quanto sta accadendo a causa dello stato di emergenza in vigore al confine con la Bielorussia, imposto settimane fa dalla Polonia in risposta al flusso di migranti in arrivo ai suoi confini (lo stato di emergenza rende difficile raggiungere l’area anche a giornalisti e membri delle ong).
Secondo alcune testimonianze riportate dal Guardian, i migranti sarebbero stati attirati dalla Bielorussia, che avrebbe concesso il visto e offerto loro voli per raggiungere Minsk, la capitale del paese, promettendogli poi di portarli nell’Unione Europea. Una volta raggiunto il confine, però, i migranti non sono riusciti a entrare in Polonia perché il governo polacco da giorni presidia le frontiere con la Bielorussia: si stima che oggi a presidiarle ci fossero 12mila soldati. I migranti si trovano ancora al confine tra i due paesi.
Negli ultimi mesi la Bielorussia ha di fatto aperto una nuova rotta migratoria verso Polonia, Lituania e Lettonia, concedendo a migliaia di migranti visti per raggiungere Minsk, per poi accompagnarli al confine con questi paesi, sperando di provocare una crisi come ritorsione per l’appoggio offerto dall’Unione Europea all’opposizione a Lukashenko, e per le sanzioni imposte contro il suo regime.
In risposta all’imponente arrivo di flussi di migranti – nel 2021 in Polonia sono stati registrati 23mila ingressi illegali, quasi la metà dei quali solo nel mese di ottobre – Polonia e Lituania hanno annunciato la costruzione di barriere fisiche, e lunedì la Lituania ha detto che seguirà l’esempio della Polonia nell’imporre anche uno stato di emergenza ai propri confini. Sono misure molto controverse e criticate dagli attivisti per i diritti umani, dato che, secondo le norme europee, chiunque mette piede in uno stato europeo ha diritto a chiedere asilo in quel paese.
Nelle ultime settimane la situazione sta scivolando verso una grave crisi umanitaria: con l’arrivo del freddo i migranti si trovano ad attraversare boschi e strade ghiacciate, senza essere attrezzati né avere cibo o assistenza medica. Secondo Infomigrants fra l’estate e l’inizio di novembre sono stati trovati i corpi di almeno dieci migranti morti al confine fra Bielorussia e Polonia.
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Di Giovanni Maria del Re su Avvenire
Quattro ore e mezzo. Tanto è durata la discussione, accesissima, dei 27 leader sulle migrazioni, tema dominante ieri al secondo giorno del Consiglio Europeo. A tener banco anzitutto la questione dei «muri» che dovrebbero – secondo un gruppo di Stati – esser finanziati dall’Ue. I più accesi sono i Paesi dell’Est che confinano con la Bielorussia: il dittatore di Minsk Aleksandr Lukashenko attira sempre più migranti per poi spingerli verso l’Ue, come «arma» contro l’Europa che lo sanziona per la repressione dei dissidenti. La Bielorussia viene citata con la promessa di nuove misure restrittive Ue.
Alcuni Paesi, come Polonia e le Repubbliche baltiche hanno già iniziato a costruire muri al confine. Già un mese fa dodici Stati (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno scritto a Bruxelles chiedendo finanziamenti Ue per realizzarli. Ieri sono tornati a farlo. «Abbiamo urgente bisogno di barriere fisiche – ha dichiarato il presidente lituano Gitanas Nauseda – di fronte a quello che fa Lukashenko.
Nessuno sa che cosa accadrà domani, potremmo trovarci di fronte a 3-4-5.000 migranti che provano a passare il confine tutti assieme o in punti diversi». «Abbiamo chiaramente bisogno – ha avvertito anche il neo cancelliere austriaco Alexander Schallenberg – di contromisure alla frontiera, con droni, recinti o qualcosa del genere cofinanziati dall’Ue».
Questi Paesi hanno ottenuto l’aggiunta di un paragrafo-chiave nelle conclusioni del vertice – le cui bozze sono state riscritte varie volte – dalla formulazione ambigua – che cercheranno di vendersi come apertura: si chiede alla Commissione di proporre «i necessari cambiamenti legislativi» al sistema giuridico Ue e «misure concrete sorrette da adeguato sostegno finanziario per assicurare una risposta immediata e appropriata in linea con gli obblighi internazionali, incluso i diritti fondamentali».
In realtà, ha precisato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «sono stata molto chiara che non ci saranno finanziamenti Ue per fili spinati o muri». Molti altri leader sono contrari, tra cui l’Italia. Su un punto però sono tutti d’accordo: la necessità di «un controllo efficace delle frontiere esterne».
A rischio è la tenuta stessa dell’area senza frontiere di Schengen, messa già a dura prova dalla crisi migratoria del 2015. «Guarderemo alle necessarie misure legali per migliorare la situazione – ha assicurato Von der Leyen – apportando modifiche al codice sullo spazio Schengen che sarà sul tavolo come nuova proposta».
L’altro punto che ha tenuto banco è quello dei movimenti secondari, che preoccupano Stati come Germania, Belgio, Olanda. Soprattutto quest’ultima chiede all’Italia di impedire che i migranti approdati sulle sue coste proseguano poi verso il Nord Europa. Le tensioni sono state forti, alla fine però si è trovato il compromesso. Il testo delle conclusioni afferma sì che «bisogna mantenere gli sforzi per ridurre i movimenti secondari», tuttavia l’Italia ha strappato un’aggiunta importante, e cioè che si tratterà anche di «assicurare un giusto equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra Stati membri».
Nel complesso, comunque, l’impressione è che la discussione abbia almeno rafforzato la sensazione dell’urgenza di soluzioni comuni, con l’occhio rivolto al Patto sulla migrazione proposto dalla Commissione Europea e per ora bloccato soprattutto sul fronte proprio della solidarietà e della ridistribuzione dei migranti. «Posso dire – ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel – che questa volta ho avuto l’impressione che vi fosse una convergenza sempre più ampia».
Di Antonella Sinopoli su Voci Globali
I cittadini dei Paesi del Sud del mondo, quelli aggrovigliati in conflitti che sembrano non aver fine, quelli dove povertà, effetti della crisi climatica, autoritarismi e guerre intestine stanno incidendo sull’aumento costante di sfollati e rifugiati interni. Tutti questi cittadini, che sono milioni e milioni, sono anche le principali vittime del deterioramento di un diritto fondamentale, quello alla mobilità.
Attenzione, non ho detto diritto alla fuga ma diritto alla mobilità. Quello che trova riconoscimento nella nostra Costituzione (e in quella degli altri Paesi Occidentali) ma anche nella Carta dei Diritti dell’Unione Europea e nella stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Quel diritto universale, dunque, che però consente solo ai cittadini dei Paesi ricchi, per lo più nell’emisfero occidentale del pianeta, di viaggiare, prendere aerei, decidere qualsiasi meta. Qualsiasi meta il suo passaporto gli garantisca.
A mostrare, nuovamente, e in tutta la sua evidenza il gap del diritto al movimento tra i Paesi ricchi e quelli cosiddetti in via di sviluppo – divario che in periodo di pandemia non ha fatto altro che allargarsi – è l’Henley Passport Index. Uno strumento che classifica i passaporti e identifica quelli “più potenti” e quelli che valgono poco o nulla.
Non si tratta semplicemente di cittadini di serie A e cittadini di serie B. Il discrimine, piuttosto, è tra cittadini/individui liberi e cittadini/individui perennemente tenuti in catene. E per i quali, spesso, l’unico modo per liberarsi dal giogo è tentare la sorte, tirando a dadi lungo la strada del deserto, quella del Mediterraneo, quella dei confini armati, murati, spinati. È un giogo istituzionale quello che li tiene oppressi e li vuole fermi lì dove sono.
Complici sono gli Stati, i loro accordi “privati”, interi continenti (Europa, America del Nord, Australia…). Nazioni culle del diritto (così tutti abbiamo imparato) ma che quei diritti li manovra come un bene (e un beneficio) personale, ristretto ad alcuni ma non a tutti. Nella politica dei passaporti, diciamolo chiaro, non vale il meccanismo della reciprocità tra gli Stati (anche se così dovrebbe essere). Ecco perché l’uso della parola “complicità” non è esagerato né usato a caso.
Dal nuovo rapporto emerge che, mentre cresce il “valore” di alcuni passaporti, quello degli Emirati Arabi Uniti, per esempio, e si conferma la “forza” di quello per la nazionalità giapponese, tedesca, della Corea del Sud o di Singapore, dal 2011 si è registrato invece un continuo calo del valore dei passaporti rilasciati in Siria, Yemen, Nigeria, Bangladesh, Gambia, Sierra Leone (questi sono solo quelli il cui posizionamento nell’index continua a scendere). Ma anche se possiedi un passaporto afghano, sudanese, somalo o congolese non te la passi bene.
Cosa vuol dire in termini concreti? Vuol dire che chi possiede un passaporto potente può viaggiare nella maggior parte dei Paesi al mondo senza visto – esempi: Giappone, 192 Paesi; Germania, 190; Italia, 189 – ma per chi ha passaporti che sono quasi carta straccia questo beneficio (visa free) si riduce a 26 Paesi per l’Afghanistan, 29 per la Siria, 33 per lo Yemen, 34 per la Somalia. E così via. E pensare che questo indice non ha tenuto conto delle attuali restrizioni relative al Covid 19 che hanno finito per isolare aree del mondo dove invece ci sarebbe bisogno di occhi aperti per testimoniare violazioni e limitazioni dei diritti (oltre alla violazione di cui stiamo parlando ora).
Ma la ricerca – si legge sulla pagina di Henley & Partners – indica anche che il divario potrebbe ampliarsi ulteriormente poiché le nazioni con i passaporti più solidi hanno posto in essere rigide barriere per i viaggiatori di altre nazioni.
Molti Paesi del Sud del mondo, inoltre – ammettono ancora gli esperti – hanno allentato i loro confini in uno sforzo concertato per rilanciare le loro economie, ma c’è stata pochissima reciprocità (e torniamo su questo termine) da parte dei Paesi del Nord del mondo, che hanno imposto alcune delle più rigorose restrizioni di viaggio in entrata legate al Covid-19.
Il paradosso, che in realtà lascia poco spazio allo stupore, è che nonostante l’evidenza di un mondo spaccato, ineguale, disomogeneo l’attenzione rimane rivolta ai ricchi, ai danarosi, agli imprenditori. A loro, che possono salvarsi dalla crisi e anzi accrescere il loro volume di affari. Sia chiaro, non c’è disvalore nella ricchezza in generale (tranne in quella generata a danno di altri). Ma la ricchezza non può essere il discrimine per il godimento o meno dei diritti. Inoltre, ciò che turba è che ci siano vie d’uscita per alcuni e non per altri e che queste vie d’uscita siano sempre collegate alla disponibilità finanziaria e alla provenienza geografica.
Esistono, infatti, programmi di migrazioni con opzioni complementari di cittadinanza e residenza. Ad imprenditori – che siano cittadini europei – e alle loro famiglie vengono offerte opportunità di ricollocamento assistito in altre nazioni investendo un certo ammontare di capitale – che va da un minimo di 100.000 dollari per alcuni Paesi dei Caraibi, a un massimo di 3 milioni di euro per l’Austria. Un modo per rifarsi una vita con le dovute rassicurazioni – da parte dei mediatori che operano in questo campo – di accedere ad una sanità adeguata e alla possibilità di condurre affari, studiare, investire.
Alcuni di questi programmi non includono solo la ricollocazione, ma anche il libero movimento in aree limitrofe al territorio scelto o che a questo territorio siano legate per ragioni economiche, politiche o di trattati. Insomma, viviamo in un mondo che insiste nell’agevolare la ricchezza e il potere, nell’alzare barriere di ogni tipo, nell’operare divisioni, e nel trascurare gli effetti di queste politiche: disuguaglianza, disturbi mentali, disagio sociale, conflitti. E migrazioni, migrazioni folli, spesso senza meta. Migrazioni forzate, migrazioni dolorose, migrazioni pericolose.
Oggi più che mai bisogna uscire da questa abulia, da questa assuefazione che ci fa accogliere qualunque cosa storta (come quella che ho raccontato qui) come normale, inevitabile. Bisogna farsi forza, prendere coraggio, raccogliere le energie e creare un movimento di opinione che dica “No, non è giusto! Bisogna cambiare!”.
Non è giusto che milioni di persone siano prigioniere nei loro Paesi, che non abbiano diritto a viaggiare, a cambiare la propria vita a cercare altre strade. Proprio così come fanno tutti quegli altri a cui questo diritto è concesso. Tutti quelli a cui questo diritto, il diritto alla mobilità, sembra normale, scontato. Perché per loro, per noi, sì che è normale e scontato.
Di Nello Scavo su Avvenire
La guerra sui tre confini si combatte anche a colpi di ansiolitici somministrati dall’esercito bielorusso ai bambini migranti. Nella terra di nessuno tra Lituania, Polonia e Bielorussia capita che i militari di Vilnius debbano affidare ai rianimatori qualche piccolo profugo. «Hanno dato a noi e ai nostri figli delle pillole», raccontano nell’ospedale di Kabeliai i genitori iracheni. Non erano vitamine per sopportare il freddo. Anche se di freddo si muore: almeno 5 le vittime accertate finora, ma di decine di persone disperse nei boschi non si sa più nulla. Distribuiti dai militari bielorussi in dosi sconsiderate per grandi e piccoli, i tranquillanti assicurano che gli stranieri spinti armi in spalla dai corpi speciali non comincino a piangere nel bel mezzo del bosco, di notte, dove la Lituania sorveglia la frontiera con droni e sensori nascosti tra gli alberi. Quando colti sul fatto, comincia la sceneggiata: le forze bielorusse accendono le videocamere e spingono i migranti verso le pattuglie lituane disposte per impedirne il passaggio. Al resto pensa la propaganda di regime, che mostrerà il volto spietato dei Paesi Ue, senza cuore nemmeno davanti ai bimbi. Anche con queste “munizioni” il dittatore bielorusso Lukashenko sta tentando di far saltare i nervi a Polonia e Lituania come rappresaglia per le sanzioni dell’Unione Europea al regime di Minsk.
Bisogna attraversare più volte i tre confini per farsi un’idea delle rispettive parti in tragedia. Vilnius parla di “aggressione ibrida“. «Abbiamo a che fare con un’azione di massa organizzata e ben diretta da Minsk e Mosca», rincara il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki. Secondo Varsavia, a partire dal mese di agosto oltre 7mila migranti e profughi hanno tentato di varcare il confine. Oltre 4mila nella sola Lituania. Fatte le debite proporzioni (38 milioni sono gli abitanti in Polonia, meno di 2,8 i lituani) si capisce come questi numeri possano essere usati per suscitare allarme. Nell’Europa che teme l’arrivo di una massiccia ondata di rifugiati afghani, vengono piantati altri pali d’acciaio per chilometri, issando barriere anti-migranti che stanno trasformando i confini esterni in una trappola di aculei. Il “muro polacco” è alto fino a 4 metri, una recinzione simile a quella eretta dall’Ungheria di Orbán nel 2015. Varsavia schiera circa mille uomini in appoggio alle guardie di frontiera lungo i 400 chilometri, in gran parte foresta, che separano i due Paesi. La linea di demarcazione tra Lituania e Bielorussia è una continua serie di tornanti, colline, fossati, campi arati per 678 chilometri. Anche qui è in costruzione una barriera, mentre 258 chilometri vengono monitorati elettronicamente.
Con l’invio di migranti «Lukashenko sta cercando di destabilizzare l’Ue, usando gli esseri umani in un atto di aggressione», va ripetendo la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson. Venerdì sono arrivati nella capitale lituana 29,6 milioni di euro sui 37 stanziati dalla Commissione europea per aiutare il Paese ad affrontare l’arrivo di profughi. In gran parte si tratta di iracheni e siriani, ma stanno aumentando le domande d’asilo di afghani e perfino indiani e srilankesi. Dal Baltico a Kabul o Karthum sono oltre 5mila chilometri di odissea. Eppure sudanesi e afghani arrivano fino a qui. Le testimonianze raccolte dalle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite confermano come negli ultimi mesi siano stati agevolati, qualche volta anche in aereo, i viaggi dall’Oriente verso la Bielorussia. Una volta finiti nel limbo di Minsk, i profughi riappaiono lungo i sentieri che s’infrangono contro le reti metalliche finanziate da Bruxelles. Chi riesce a guadagnare il suolo della Ue dovrà affrontare altri disagi, e il rischio di una deportazione con volo diretto verso il Paese d’origine.
Non tutti vogliono fermarsi dalle parti di Vilnius e c’è chi teme di restare prigioniero del regolamento di Dublino, che non offre scelta: o si presenta domanda d’asilo e si rimane in attesa obbligatoriamente nel Paese Ue di primo ingresso, oppure si è condannati alla clandestinità. I due iracheni Mohamad Wasim Hamid e Hamza Hayek Mahmud erano arrivati in Lituania dalla Bielorussia nella serata del 29 luglio, ma non hanno chiesto protezione internazionale. Avevano in mente di raggiungere la Germania o la Scandinavia. Pochi giorni fa sono stati condannati a 45 giorni di detenzione e verranno avviate le procedure per il rimpatrio. Dovranno attendere in un centro di accoglienza. In realtà, si tratta di accampamenti per la detenzione sorvegliati da militari incappucciati che perlustrano i dintorni con la mano sulla fondina. A Vilnius hanno riaperto un vecchio edificio abbandonato sulla collina dietro la linea ferroviaria. Il muro di cinta impedisce di vedere all’interno, ma chi riesce a visitarlo non ne è uscito contento. Lo stesso nelle tendopoli militari dove i profughi già fanno i conti con l’anticipo del sottozero invernale.
L’ufficio statale del Difensore civico lituano non l’ha presa bene. Giovedì ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di vita «disumane e degradanti» affrontate dai migranti irregolari. Le persone dormono in stanze umide, fredde e affollate. Mancano di cibo adeguato, acqua calda a sufficienza e farmaci. Il ministero dell’Interno ha rilasciato un commento, spiegando di non aver ancora letto il rapporto, ma «alcuni estratti pubblicati dai media portano alla conclusione che le informazioni contenute siano obsolete». Per il Difensore civico, «le condizioni di detenzione dei migranti irregolari in Lituania» sono un «trattamento disumano proibito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti».
Il 22 settembre quattro profughi sono morti di freddo e stenti sul confine tra Bielorussia e Polonia. Una quinta persona è deceduta poco più a Nord, dopo essere riuscita a raggiungere la Lituania. Ma per la fondazione umanitaria polacca Ocalenje le vittime potrebbero essere di più. Nella foresta di Usnarz Górny da quasi due mesi una trentina di persone vivono nascoste. Ma da diversi giorni si è perso ogni contatto con le persone incastrate tra la boscaglia sul lato di Minsk e il reticolato polacco. Altri 8 migranti oramai incapaci di muovere un solo passo sono stati soccorsi dopo essere sbucati in una zona paludosa e 7 sono stati portati in un ospedale polacco oramai in gravi condizioni. «Da tempo avevamo avvertito le autorità – ricorda Piotr Bystrianin, di Ocalenje – che se le guardie di frontiera non avessero smesso di respingere le persone senza neanche ascoltare la loro richiesta di protezione umanitaria, presto avremmo dovuto affrontare delle tragedie». E l’inverno non è ancora iniziato.
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Su Redattore Sociale
“I confini non esistono in natura. Sono convenzioni che quando diventano frontiere invalicabili generano ingiustizie, violenze e guerre”. Don Luigi Ciotti, presidente Libera e Gruppo Abele, in un’ intervista a Famiglia Cristiana commenta la richiesta di dodici membri dell’Unione europea alla Commissione di Bruxelles, di finanziare la costruzione di “protezioni” alle frontiere per respingere i migranti. “Lo aveva già denunciato don Tonino Bello nel 1992, – commenta Ciotti – la politica rischia di ridursi a regolatrice di interessi, affermò allora, temendo che l’Europa crescesse sempre più come ‘cassa’ e non come ‘casa’ comune, e che il Vecchio Continente da terra di fratelli si trasformasse in terra di mercanti senza cuore. È bene sapere che la Terra misura 13 mila chilometri di diametro, ma ne conta già oggi circa 16 mila di barriere, muri, fili spinati. Vogliamo continuare a creare divisioni? Oggi i confini si manifestano da un lato come distanza e come diseguaglianza, dall’altro come processi di esclusione e come atti di respingimento. I ‘confini’ lasciano passare le merci ma spesso sbattono la porta in faccia a persone che scappano da conflitti, miseria, drammatiche conseguenze dei cambiamenti climatici”.
Per Foad Aodi presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) e dell’Unione medica Euro-mediterranea (Umem) la proposta rappresenta “un precedente e una conferma dall’Europa molto preoccupante”: la “mancanza di volontà di governare il fenomeno migratorio in modo unitario”. E nello stesso tempo va contro i principi europei e il rispetto dei diritti umani e della solidarietà. “Non possiamo dividere il mondo in paesi ricchi e paesi poveri, fortezze e cimiteri all’aperto nel mare, paesi che si scordano la sofferenza in cui sono passati nella loro storia recente e remota si chiudono nei confronti di chi ha bisogno di aiuto e scappa dalle guerre”, sottolinea Foad Aodi.
“Urge una legge d’immigrazione europea con il principio “Diritti e Doveri” e con solidarietà e il rispetto degli accordi bilaterali, responsabilizzando tutti i paesi europei e non europei e aiutare i migranti sia nei loro paesi di origine che in Europa, con politiche chiare e decise per combattere il mercato degli esseri umani e la violenza contro i migranti, donne e bambini”. Dall’altra parte, prosegue, occorre “promuovere politiche d’accoglienza condivise da tutti i paesi europei, in particolare in questo momento molto critico per colpa della pandemia, durante il quale servono vaccini, tamponi, controlli ai confini e aiuti sanitari e umanitari per i paesi in difficoltà e in guerre e in conflitti dimenticati”, conclude Aodi che si appella al governo italiano perché sulla questione prenda una posizione netta e costruttiva.
Su ARD Wien/Sudosteuropa
ARD-Studio Wien, insieme ai media partner di Lighthouse Reports, ARD Magazin Monitor, SRF-Rundschau, Spiegel, Novosti e RTL dalla Croazia, e il quotidiano Libération hanno indagato sui respingimenti al confine croato-bosniaco per quasi nove mesi. I giornalisti sono rimasti in agguato, si sono travestiti da pescatori, si sono seduti tra i cespugli in abiti da cacciatore, hanno utilizzato droni, hanno analizzato immagini satellitari e centinaia di account sui social media di proprietà di agenti di polizia croati e hanno parlato con una dozzina di fonti. Tra maggio e settembre 2021, hanno filmato un totale di 11 respingimenti in cinque diverse località al confine bosniaco-croato. Si possono vedere 38 agenti di polizia – tra cui due donne – che deportano illegalmente 148 persone attraverso il confine verde.
Finora, le autorità croate hanno sempre negato tutte le accuse secondo cui stanno rimandando illegalmente persone attraverso il “confine verde” in Bosnia-Erzegovina e che gli agenti di polizia usano la forza per farlo. Sebbene numerose dichiarazioni delle persone colpite lo riportino e organizzazioni per i diritti umani come Border Violence Monitoring o Amnesty International abbiano documentato meticolosamente la violenza di respingimento.
Ora non si può negare. Nel giugno 2021, il team è riuscito a catturare per la prima volta in video la violenza sul confine croato-bosniaco.
Gli uomini mascherati non hanno distintivi sulle loro uniformi, ma le indagini e sei agenti di polizia confermano che gli uomini mascherati indossano l’equipaggiamento ufficiale della polizia d’intervento croata (giacca, cintura, pistola di servizio, fondina, porta manette, manganello).
La polizia è subordinata al Ministero dell’Interno di Zagabria. I comandi per i pushback provengono da lì? Lo confermano tre fonti indipendenti tra i ranghi della polizia croata. Vogliono rimanere anonimi per paura di rappresaglie. “Sapete che è illegale, ma chi può dire di no a un’istruzione dall’alto – dal governo e dal ministro dell’Interno Božinović. Quindi sono loro che sono ‘fregati’ perché noi lavoriamo solo secondo le indicazioni del governo”.
Il ministero dell’Interno croato ha annunciato che indagherà sull’incidente. Un team di esperti sarà inviato rapidamente al confine. Se si scopre che sono funzionari croati, saranno ritenuti responsabili, ha detto una portavoce.
Il video è disponibile qui
Immagine in evidenza di ARD Wien/Lighthouse Reports+Medienpartner
Di Isabella De Silvestro su Domani
Bassirou è arrivato dal Senegal nel 2013 e per otto anni ha vissuto da irregolare. Dopo un lungo periodo passato in una baracca di lamiera condivisa con altri braccianti nel gran ghetto di Rignano, tra Foggia, Rignano Garganico e San Severo, senza acqua corrente, in balìa dell’afa estiva e del gelo invernale, ha iniziato a vagare per la provincia di Foggia. Inseguiva lavori a breve termine nelle campagne e dormiva ovunque la sua paga da tre euro all’ora gli permettesse di poggiare il corpo provato da dieci ore di lavoro quotidiano. A luglio di quest’anno ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno per lavoro subordinato grazie alla sanatoria promossa dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova con il governo giallorosso di Giuseppe Conte. Ma solo grazie a un amico sindacalista che l’ha aiutato a presentare la domanda, dopo un anno di attesa Bassirou è uscito dalla clandestinità.
«Sono fortunato», dice sapendo di essere stato uno dei pochi richiedenti a farcela. «Senza documenti non vali niente, ti usano come vogliono. Se un capo non ti vuole pagare quello che ti spetta non puoi denunciare perché hai paura della polizia. Sei in terra d’altri, completamente solo».
La Capitanata, il nord della Puglia, è il binario morto delle politiche migratorie italiane, dove ogni retorica sul nostro modello di accoglienza rivela la sua inconsistenza. Durante l’estate nei ghetti della campagna foggiana affluiscono migliaia di lavoratori per la raccolta di frutta e verdura che vanno ad aggiungersi agli stanziali, uomini e donne approdati in Italia anche molti anni fa e ormai rassegnati a viverne solo i meandri sudici a cui li relega la mancanza di un permesso di soggiorno.
Non si tratta di centinaia, ma di migliaia di persone, ed è il risultato di una gestione dell’immigrazione che ha progressivamente smantellato i canali di accesso regolare creando grandi sacche di irregolarità. Ne trae profitto il settore della grande distribuzione che porta sugli scaffali dei supermercati prodotti a basso costo il cui prezzo è pagato dai braccianti.
A maggio 2020 erano state riposte molte speranze nel provvedimento di emersione dall’irregolarità che ambiva a sanare fino a 220mila lavoratori impiegati nei settori dell’agricoltura, dei servizi domestici e dell’assistenza alla persona: braccianti, colf e badanti. Presentata insieme alle lacrime dell’allora ministra Bellanova come “traguardo storico” in grado di rendere visibili gli invisibili, l’operazione si rivela oggi un fallimento burocratico e politico.
Secondo l’ultimo dossier della campagna Ero straniero, pubblicato il 29 luglio scorso, sono circa 60mila i permessi di soggiorno rilasciati dal ministero dell’Interno a fronte delle 220mila domande presentate: solo il 27 per cento del totale. Inoltre, nonostante la misura sia stata presentata principalmente per gli irregolari delle campagne, le domande di emersione provenienti dal settore agricolo non sono che il 15 per cento del totale (30mila), tutte le altre riguardano colf e badanti. Si può quindi stimare che i braccianti ad oggi regolarizzati si aggirino intorno agli 8mila in tutta la penisola. Un numero irrisorio se si pensa che nella sola provincia di Foggia, secondo le stime della Flai Cgil – il sindacato dei lavoratori agricoli e dell’industria alimentare – gli irregolari impiegati nei campi sono anche 45mila, nei periodi di punta. La sanatoria è un’occasione mancata e la condizione dei braccianti è rimasta invariata, se non addirittura peggiorata.
«Non mi sono mai illuso su questa sanatoria», afferma Raffaele Falcone, il sindacalista della Flai Cgil di Foggia che ha aiutato Bassirou. «È una misura estremamente complessa, scritta male, modificata tramite infinite circolari ministeriali spesso difficili da interpretare anche per chi lavora nel settore. Gli unici che hanno la speranza di sanare la propria situazione grazie a questa misura sono quelli che avevano già un rapporto di lavoro stabile. Io ho personalmente portato a termine un centinaio di emersioni con esito positivo facendo pressione sulla prefettura, che registrava ritardi imbarazzanti. Si trattava però di lavoratori che conoscevo e seguivo da anni e che aspettavano solo un provvedimento per regolarizzare un rapporto di lavoro già consolidato, anche se irregolare. I veri marginali ne rimangono totalmente esclusi».
Non solo, infatti, la misura esclude gli altri settori dove la manodopera irregolare è largamente impiegata, come logistica, edilizia o ristorazione, ma impone requisiti tanto specifici e difficili da dimostrare che rende impossibile presentare la richiesta a chi versa in condizioni di grande marginalità. Su 45mila irregolari stimati nel foggiano per il settore agricolo, solo 1.200 hanno potuto presentare la domanda. Tanto nelle città, quanto negli insediamenti abusivi, infatti, c’è chi lavora nei campi e chi lavora per chi lavora nei campi. I ghetti ospitano moltissime attività commerciali del tutto informali ma consolidate, fonte di sussistenza più o meno stabile per molti. «Chi gestisce uno dei tanti esercizi commerciali del ghetto», continua Falcone, «come può pensare di trovare un datore di lavoro che lo regolarizzi? Chi lavora nei campi ma risponde ai comandi di un caporale e non sa nemmeno chi sia e che faccia abbia il proprietario dell’azienda agricola, a chi chiederà di presentare la domanda di emersione?».
Una delle più grandi fragilità della sanatoria risiede nell’enorme potere che la misura lascia al datore di lavoro. La norma prevede che sia questo ad autodenunciarsi e a pagare un contributo forfettario di 500 euro per l’emersione del lavoratore. Non solo è improbabile che un datore di lavoro che impiega da anni forza lavoro in nero – o più comunemente “in grigio”, registrando poche ore di lavoro rispetto a quelle realmente lavorate dal bracciante – abbia interesse a regolarizzare i lavoratori, ma altrettanto improbabile è che sia disposto a pagare il prezzo della regolarizzazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, i 500 euro vengono pagati dai lavoratori stessi, che non hanno però alcuna certezza che la loro pratica porti, dopo peripezie burocratiche insensate e psicologicamente sfiancanti, a un permesso di soggiorno per lavoro. Chi riesce a compiere la trafila assume così un’aura eroica, un fatto tanto desolante quanto più rende evidente che la regolarizzazione in Italia richiede una combinazione di fortuna, tenacia, particolare intelligenza e rapporti consolidati con italiani disposti a fare da mediatori e garanti. Pochissimi dunque i regolarizzati. Sotto di loro, una larga schiera di illusi e delusi, lavoratori irregolari esasperati e facilmente manipolabili che cadono nelle maglie di datori di lavoro che li ricattano o faccendieri e truffatori che hanno trovato nella sanatoria una fonte di denaro facile. Molti i casi di compravendita di finti contratti di lavoro, che arrivano a costare anche più di duemila euro e non portano alla regolarizzazione. Le truffe rimangono impunite, al massimo si insabbiano in una denuncia contro ignoti.
Poi ci sono le difficoltà legate alla natura stagionale del lavoro agricolo, che avrebbe dovuto essere messa in conto dai promotori della misura di emersione. La forte mobilità richiesta dal settore agricolo raramente permette un rapporto di lavoro stabile e continuativo che copra l’intero anno.
«C’è una netta disconnessione tra una certa politica e il mondo reale», afferma Aboubakar Soumahoro, sindacalista e attivista da anni in lotta per i diritti dei braccianti. «È una misura scritta senza conoscere l’àmbito di intervento. Nessuno si è curato di indossare gli stivali e visitare le campagne, entrando nei tuguri dove vivono i diretti interessati a cui viene negato ogni diritto. Il migrante serve fintanto che è funzionale, fintanto che lavora fino allo sfinimento senza avanzare pretese».
La sanatoria è stata varata come misura emergenziale durante il primo lockdown, quando si registrava una mancanza di lavoratori stagionali nelle campagne e il governo avvertiva l’urgenza di assicurare la frutta e la verdura negli scaffali dei supermercati. Mentre tutto si fermava, ai braccianti veniva richiesto di continuare a lavorare senza che venissero forniti dispositivi di protezione individuale o garantite condizioni igieniche di base per lavorare e vivere in sicurezza. Daniela Zitarosa, operatrice dell’organizzazione umanitaria Intersos che opera nei ghetti delle campagne foggiane, mette l’accento sulle gravi condizioni igieniche in cui versano uomini e donne: «Non solo era impossibile chiedere di rispettare il distanziamento, ma era anche ridicolo pretendere certe precauzioni per noi scontate. Mentre spiegavo ad una bracciante l’importanza di lavarsi le mani di frequente, lei scaldava un ferro da stiro per gettarlo in un secchio d’acqua: era l’unico modo che aveva per lavarsi con acqua calda».
La pandemia ha acuito le disuguaglianze. I lavoratori senza documenti sono finiti in fondo alla coda nella campagna vaccinale e l’introduzione del green pass ha creato problemi agli stagionali costretti a spostarsi da una regione all’altra per cercare lavoro.
Se la sanatoria prometteva di porre rimedio alla marginalità anche in ambito sanitario, la situazione non è rosea neppure per chi ha fatto richiesta di emersione. I richiedenti, al momento della presentazione dell’istanza, venivano forniti di una tessera sanitaria provvisoria con un codice numerico – e non alfanumerico, come per le normali tessere dei cittadini regolari – che non permetteva di registrarsi sui sistemi digitali della sanità pubblica.
Un’impasse burocratica che non è formale. Determina l’ennesima esclusione di centinaia di migliaia di persone dai diritti basilari che dovrebbero essere garantiti a chiunque risieda nel nostro paese.
Ritardi, inadempienze, leggerezze sembrano il frutto della mancanza di interesse reale. Per il governo la regolarizzazione degli invisibili non è una priorità.
Immagine in evidenza di Domani
In occasione del convegno Rimpatri forzati e tutela dei diritti fondamentali, organizzato a Palazzo Merulana dal Garante nazionale, è stato pubblicato il “Rapporto tematico sull’attività di monitoraggio di rimpatrio forzato di cittadini stranieri tra gennaio 2019 e giugno 2021” e diffusi i dati dei rimpatri forzati effettuati da gennaio a settembre 2021.
Dall’inizio del 2021 al 15 settembre sono state rimpatriate 2226 persone, più della metà verso la Tunisia (1159). Gli altri principali Paesi di destinazione sono l’Albania (462) e l’Egitto (252). Il 61,2% dei rimpatri sono stati operati tramite voli charter con scorta a bordo, il 12,3% con voli commerciali con scorta e il 26,5% con voli commerciali senza scorta (al 58% verso l’Albania).Per quanto riguarda i 71 voli charter, su 1362 persone 1105 sono state quelle rimpatriate in Tunisia, 227 in Egitto, e 30 in Georgia. Rispetto agli anni scorsi è abbastanza chiara una flessione sui voli di rimpatrio a causa della pandemia: 6398 le persone rimpatriate nel 2018, 6531 nel 2019, 3351 nel 2020 e 2226 nel periodo da primo gennaio al 15 settembre 2021.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al quale è affidato per legge il compito di monitorare i voli di rimpatrio forzato, nel periodo dal gennaio 2019 – giugno 2021 ha monitorato 56 operazioni di rimpatrio forzato verso Tunisia, Nigeria, Egitto, Albania, Marocco, Algeria, Gambia, Georgia, Kosovo, Pakistan, Perù e Romania.Rispetto alle carenze riscontrate, queste alcune delle raccomandazioni espresse dal Garante nazionale:– Garantire il controllo parlamentare sugli accordi di riammissione;– Introdurre una banca dati per gli eventi critici o altri accadimenti particolari (atti di contenimento, interventi sanitari, proteste, fughe, episodi di autolesionismo, reclami…) come strumento di trasparenza e tutela;– Investire nella formazione di tutte le Forze di polizia impiegate nelle operazioni di rimpatrio forzato;– Prevedere nuove professionalità nei voli di rimpatrio per la mediazione culturale e il supporto socio-psicologico;– Garantire al cittadino straniero interessato un congruo preavviso a tutela del diritto di difesa e nel rispetto della dignità della persona;– Un deciso allineamento dell’uso delle misure coercitive agli standard internazionali;– Migliorare l’assistenza sanitaria garantendo valutazioni preventive di idoneità effettive e la continuità di trattamenti e programmi terapeutici;– Un deciso e urgente adeguamento dei locali utilizzati negli scali aeroportuali.
Foto in evidenza del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Piera Francesca Mastantuono
Un articolo di Lorenzo Tondo su The Guardian
Gaspare, un pescatore di Sciacca in Sicilia, aveva salvato decine di migranti che tentavano di raggiungere l’Italia in barca dalla Libia quando le autorità italiane hanno minacciato di arrestare lui e il suo equipaggio per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
“Mi chiedo se anche uno dei nostri politici abbia mai sentito le grida disperate di aiuto in alto mare nel buio della notte”, ha detto nel 2019. “Mi chiedo cosa avrebbero fatto. Nessun essere umano – marinaio o no – si sarebbe allontanato”.
Le sue parole risuonano di nuovo nel momento in cui il ministro degli Interni del Regno Unito, Priti Patel, intensifica la sua campagna per rimandare indietro le barche che trasportano migranti attraverso la Manica.
Per leggere l’articolo completo clicca qui
Immagine in evidenza di Gareth Fuller/PA
Di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Tutti si interrogano se il ritorno del governo dei talebani in Afghanistan produrrà o meno una grave crisi migratoria in Europa; per l’Afghanistan questo ritorno dei talebani avvenuto dopo 20 anni di conflitto interno è un cambiamento profondo e probabilmente di lunga durata. Se nell’ultimo decennio larga parte degli afgani che sono fuggiti dal Paese lo hanno fatto per sottrarsi a una situazione di conflitto e violenza generalizzata, d’ora in poi chi lascerà il Paese lo farà prevalentemente per il fondato timore di subire persecuzioni per ragioni politiche, etniche, religiose o di appartenenza a un dato gruppo sociale, rientrando a pieno titolo nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra del 1951.
I Paesi europei, salvo eccezioni positive tra cui l’Italia, dove il tasso di riconoscimento di una forma di protezione ai cittadini afghani ha sempre superato il 90%, nell’ultimo decennio hanno escogitato ogni stratagemma possibile per evitare di riconoscere protezione (anche quella sussidiaria) agli afghani fingendo che il Paese fosse pacificato o applicando in modo distorto il criterio dell’area interna sicura, dichiarando appunto sicure zone dell’Afghanistan che non lo erano affatto. Come ha ben evidenziato l’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi), nei 12 anni compresi tra il 2008 e il 2020, in Europa sono state presentate solo 600mila domande di asilo da parte dei cittadini afghani; poco meno della metà sono state rigettate con circa 70mila persone rimpatriate, tra cui non meno di 15mila donne.
In alcuni Paesi europei della rotta balcanica, come Croazia e Bulgaria, il tasso medio di riconoscimento di uno status di protezione agli afghani è inferiore al 10% mentre è di poco più del 25% in Slovenia e del 55% in Grecia. Con l’arrivo al potere dei talebani un elevato numero di cittadini afghani, non vedendo alcuna prospettiva di vita, deciderà di lasciare il Paese in tutti i modi possibili. Nel farlo incontreranno però ostacoli insormontabili in quanto molti sono i Paesi che si frappongono sulla loro strada prima di arrivare in Europa, ragione per cui la previsione di una seria crisi di arrivi in Europa pare almeno al momento piuttosto azzardata.
I confinanti Pakistan e Iran, che già complessivamente ospitano più di 2,5 milioni di rifugiati afghani, ostacoleranno altri ingressi e comprimeranno ulteriormente il livello, già minimo, di protezione concesso. La Turchia, a sua volta, aumenterà il ricatto verso l’Ue mentre in parallelo completerà la costruzione del muro con l’Iran (oggi di 160 chilometri) ed è probabile un’escalationdella tensione con la Grecia che ha appena completato il suo muro lungo il confine turco. Non si intravedono per ora segnali che l’Europa voglia tornare a rispettare il diritto di chiedere asilo alle proprie frontiere o attuare un programma pluriennale di reinsediamento dei rifugiati afghani di ampie dimensioni, fermando la propria folle corsa alla delega/esternalizzazione a Stati terzi dei propri obblighi di protezione solennemente proclamati ma pervicacemente violati.
Molto più probabilmente, i cittadini afghani (il gruppo più numeroso di rifugiati al mondo insieme ai siriani) rimarranno senza protezione ancor più di quest’ultimi, intrappolati nel loro Paese ed esposti ad ogni genere di persecuzione da parte di un regime atroce o verranno chiusi nei Paesi confinanti, privi di una reale protezione giuridica e senza prospettive per il futuro. Se così dovesse accadere, poco rimarrà di quel diritto, sancito dalla Convenzione di Ginevra, che nacque 70 anni fa sulle macerie della seconda guerra mondiale, insieme alle attuali democrazie, tra cui la nostra. La posta in gioco non è solo il futuro dell’Afghanistan.
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