Di Riccardo Bonacina su Vita
“Duemila soldati dispiegati, coprifuoco serale, nessuna manifestazione è autorizzata. La prima volta dal 1981, dai tempi del comunismo. Da quando c’era il Muro di Berlino e chi s’ immaginava ne avrebbero costruito un altro qui, poco sopra Lublino. Posano due chilometri di filo spinato al giorno. Calcolano le spaziature. L’avvolgono a triplo giro. Allineano le estremità. Piantano le staffe.” «Lo faremo uguale agli ungheresi», aveva promesso in agosto il ministro dell’Interno, e così è”. Fin qui Francesco Battistini che sul Corriere racconta che cosa accade lungo la linea del confine tra Polonia e Bielorussia.
Un ulteriore muro, quello polacco, che sorge in Europa e che si aggiunge alle barriere già erette in Ungheria, Grecia e Bulgaria, Austria e Croazia.
La sede di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, istituita nel 2004, ha sede proprio a Varsavia. Per la prima volta la sede di Frontex è vicina a una frontiera in emergenza, ma questo non basta a scuotere il torpore dell’Agenzia. Al suo timone dal 2015 Fabrice Leggeri di cui in tanti vorrebbero le dimissioni per le troppe leggerezze (nomen omem) e una gestione non trasparente dei budget e del personale.
Budget che ormai arriva a sfiorare il miliardo di eruro, 900 milioni di euro all’anno: questo è il costo che Frontex avrà per le casse di Bruxelles da qui al 2027, budget che contempla anche il raaggiungimento di 10mila agenti di sicurezza (attualmente sono 6500) con lo scopo di potenziare la sorveglianza dei confini europei. Cifre astronomiche, se si considera (come emerso dal rapporto dei revisori contabili europei) come i ruoli dell’agenzia siano di fatto poco chiari, in quanto poggiano su un mandato eccessivamente generico attribuitegli nel 2016. E soprattutto, in netta e costante crescita rispetto al passato.
La mancanza di risultati e una situazione che ha spinto i revisori a scrivere apertamente di “sperpero” di denaro pubblico potrebbero aprire le porte a una pesante revisione da parte dell’Unione europea. Uno scenario che in particolare mette principalmente sotto accusa il direttore stesso di Frontex, Fabrice Leggeri.
Navi, veicoli, aerei, droni, radar e tecnologie di sorveglianza biometrica sempre più sofisticate. Sono gli strumenti più innovativi con cui l’agenzia Frontex effettua il controllo delle frontiere marittime e terrestri dell’Unione. Le inchieste che la vedono coinvolta negli ultimi mesi ci raccontano anche di respingimenti collettivi e rapporti non chiari con la guardia costiera libica oltre che di una gestione non trasparente del suo budget miliardario, che ha attirato l’attenzione – un’indagine è tutt’ora in corso – dell’Ufficio Antifrode dell’Unione Europea.
Numerose organizzazioni non governative hanno sottolineato che, sebbene prevista dal Regolamento dell’Agenzia, la tutela dei diritti fondamentali non sia al centro dell’azione di Frontex. In vari casi, quest’ultima è stata accusata di non aver monitorato e riportato violazioni dei diritti dei migranti avvenute sia al largo delle acque del Mediterraneo sia nei confini orientali dell’Europa e, talvolta, di aver preso parte direttamente a respingimenti in contrasto con il principio di non-refoulement.
Nell’ultimo anno, Frontex è finita nell’occhio del ciclone in seguito alle critiche provenienti da numerose organizzazioni non governative e organi d’informazioni. Questi hanno accusato l’Agenzia di non rispettare alcuni diritti fondamentali, tra cui il principio di non-refoulement, principio di diritto consuetudinario, sancito nell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ribadito nella legislazione europea agli articoli 18 e 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) ed espresso all’Articolo 4 del Protocollo Addizionale n. 4 alla CEDU. L’articolo 33 della Convenzione recita: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.”
Mar Egeo. Nel Pushback Report 2020, l’associazione Mare Liberum (2020) parla di almeno 9000 persone illegalmente respinte nel Mar Egeo nel 2020. I respingimenti riportati avvengono in vari modi: uomini mascherati che attaccano le barche dei rifugiati, navi della guardia costiera che caricano i migranti per poi scaricarli sulle isole turche, o anche più semplicemente vari tentativi di respingimento (spinte, manovre per dirottare il veicolo, spari) affinché la barca dei rifugiati ritorni nelle acque turche. Una delle azioni più importanti di analisi e raccolta di prove dei respingimenti è stata condotta dalla ONG Border Violence Monitoring Network, che a fine 2020 ha pubblicato un testo da 1500 pagine in due volumi dal titolo “The Black Book of Pushbacks” (2020). Per quanto riguarda la situazione in Grecia, l’ONG stima che più di 3500 persone abbiano subito respingimenti nel 2020.
Rotta balcanica. Le violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica hanno destato la preoccupazione delle ONG, degli organi d’informazione e delle istituzioni. Anche in questo caso si tratta soprattutto di respingimenti illegali o di violenze esercitate dalle forze dell’ordine. Secondo l’UNHCR (2020), nei solo ultimi tre mesi del 2020, si sarebbero verificati 10.000 respingimenti illegali verso la Bosnia dai paesi limitrofi e, di conseguenza, soprattutto dalla Croazia. Ma non si tratta di un fenomeno nuovo. Dal 2016 ad oggi, il già citato Border Violence Moniroting Network (2021) ha raccolto più di 624 testimonianze in Croazia, in base alle quali ci sarebbero stati 6621 respingimenti illegali da quel paese. Tra i 1128 migranti sul confine croatobosniaco intervistati in una ricerca del DanishRefugeeCouncil (2020), il 22 % ha segnalato arresti o detenzione arbitraria, l’80 % furti o distruzione dei propri beni, e il 59 % violenze fisiche da parte dei corpi di sicurezza croati. All’inizio del 2021, la visita di un gruppo di Europarlamentari al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina ha puntato i riflettori sulla tragica situazione nel campo profughi di Lipa, nel cantone dell’Una Sana. Dopo l’incendio del campo originale nella notte del 23 dicembre 2020, è stata montata una tendopoli gestita dalle organizzazioni umanitarie, dove però mancano i servizi fondamentali. Il tentativo di scappare dal campo ed arrivare in Europa, soprannominato “The game”.
Mediterraneo centrale. Per quanto riguarda la complessa situazione libica, le accuse rivolte Frontex non sono di un coinvolgimento diretto nei respingimenti, con navi o mezzi propri, ma piuttosto di una collaborazione indiretta con la Guardia Costiera Libica affinché le imbarcazioni trasportanti i migranti siano riportate in Libia, paese considerato “non sicuro”. Si tratterebbe quindi di respingimenti illegali appaltati a terzi, in cui Frontex giocherebbe un ruolo di coordinamento e sorveglianza, ma senza attività dirette in mare. La questione dei respingimenti in Libia e il ruolo di Frontex sono stati oggetto dell’azione di Amnesty International. Nel rapporto “Malta: Waves of Impunity” (2020) l’ONG ha criticato la politica maltese di respingimento dei migranti, portando come esempio concreto il “respingimento del lunedì di Pasqua”, avvenuto il 15 aprile del 2020. Il 12 maggio, la Ong Sea Watch ha pubblicato un rapporto dal titolo Crimes of the European Border and Coast Guard Agency Frontex in the Central Mediterranean Sea inerente ai presunti crimini commessi da Frontex. Come viene evidenziato dal rapporto, Frontex si serve di aeroplani per il monitoraggio di imbarcazioni in difficoltà nel Mediterraneo per poi contattare le “autorità competenti” affinché si attivino nelle attività di ricerca e soccorso. Tuttavia, l’agenzia contatta unicamente la Guardia Costiera Libica, se l’imbarcazione si trova nella zona SAR libica, senza considerare le altre imbarcazioni che si trovano nelle vicinanze. Frontex si rende quindi responsabile delle intercettazioni e dei respingimenti di persone in difficoltà verso la Libia che, dal canto suo, le riporta nei centri di detenzione.
La violazione di diritti umani nei respingimenti ha anche dato origine alla Campagna internazionale Abolire Frontex.
Frontex è ormai al centro di un tornado di polemiche, non da ultimo, all’interno del Parlamento europeo, i membri della Commissione per il controllo dei bilanci (CONT) hanno recentemente votato a favore della concessione dei fondi del bilancio 2019 alla maggior parte delle istituzioni e delle agenzie dell’UE, ad eccezione di Frontex. Decidendo per il rinvio della decisione solo sui conti dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, si palesa l’attenzione vigile del Parlamento di controllo nel bilancio delle singole istituzioni, specie visti i ritardi nell’attuare le azioni promesse per la tutela dei diritti fondamentali. Il Parlamento vuole chiarimenti e azioni da parte dell’Agenzia e non sembra disposto a mollare la presa, sta ora a Frontex rispondere nella maniera adeguata.
Su Centro Astalli
Il Consiglio Affari Interni dell’UE dedicato alla crisi in Afghanistan si conclude come l’ennesima occasione mancata di dare priorità a dignità e diritti, di scegliere la via della solidarietà nei confronti di scappa da guerra e persecuzione.
P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, sottolinea: “In un tragico gioco degli specchi cui siamo costretti ad assistere da anni, l’Europa si continua a definire in pericolo, sotto attacco e in situazione di perenne emergenza, ritenendo di dover proteggere se stessa da uomini e donne disperati in fuga da guerre e crisi umanitarie“.
Il Centro Astalli spinto dagli esiti deludenti del meeting europeo di ieri non cessa di chiedere:
– la fine di accordi di esternalizzazione, proposti anche per gestire la crisi afgana: il fallimento degli ultimi anni, il costo in termini di vite umane e la condizione di ricattabilità in cui ci si va a porre li rendono da ogni punto di vista inadeguati e deprecabili;
– l’apertura di vie di ingresso legali per i richiedenti protezione internazionale dall’Afghanistan e dalle aree di crisi del Mediterraneo;
– programmi di accoglienza e integrazione per quote significative di rifugiati da gestire con meccanismi di corresponsabilità e ripartizione tra tutti gli Stati UE;
– un cambio radicale in politica estera che consenta di mettere al centro la pace e la sicurezza da perseguire con tutti gli strumenti della diplomazia e del dialogo.
Foto in evidenza di Centro Astalli
Un articolo di Simone Benazzo su Valigia Blu
Il think tank svizzero Global Initiative Against Transnational Organized Crime ha pubblicato a maggio un report dedicato al traffico di persone, droghe e denaro nei Balcani occidentali, curato da Walter Kemp, Kristina Amerhauser e Ruggero Scaturro.
Lo studio è stato uno dei primi a trattare in modo sistemico e diacronico le evoluzioni che la “rotta balcanica” ha esperito nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Quello che era inizialmente un corridoio per stupefacenti è divenuto in seguito, specie a causa delle guerre in ex Jugoslavia, l’El Dorado per i trafficanti di armi e, in tempi recenti, la via obbligata per decine di migliaia di esseri umani in fuga da guerra, povertà, catastrofi ambientali.
Se fin dagli anni ‘70 con “rotta balcanica” si intendeva principalmente la rete di traffico di droga – soprattutto eroina – che si dirama per la penisola balcanica, nel 2015 l’espressione ha infatti assunto un significato inedito. Circa 1,5 milioni di rifugiati e richiedenti asilo, perlopiù in fuga dalla guerra in Siria, si sono messi in marcia attraversando la Turchia, la Grecia e i Balcani occidentali con l’obiettivo di raggiungere l’Europa centro-occidentale.
Inizialmente presi alla sprovvista da numeri così ingenti, i governi dei paesi dell’Unione Europea hanno poi reagito incalzati dalle retoriche che paventavano l’arrivo di “orde” di stranieri.
Nel marzo del 2016 la rotta balcanica è stata quindi ufficialmente chiusa, tramite la costruzione di barriere lungo i confini, l’aumento dei controlli frontalieri, affidati sovente all’agenzia UE Frontex, e la velocizzazione dell’analisi delle richieste di asilo. Oltre naturalmente al noto accordo tra Ue e Turchia, un do ut des da 3 (+ 3) miliardi di euro che ha reso Ankara il secondino di fiducia di Bruxelles.
Se queste azioni hanno effettivamente causato un calo significativo del numero di rifugiati e richiedenti asilo, il flusso non si è comunque arrestato. La gran parte delle motivazioni che avevano spinto le persone a migrare nel 2015 – guerra in Siria, Libia e Afghanistan; instabilità nel Corno d’Africa; disuguaglianza Nord-Sud – non sono svanite. Si sono spesso anzi esacerbate, come mostra il caso dell’Afghanistan dove, dopo l’addio degli USA, il controllo dell’intero territorio da parte dei talebani ha spinto ondate di afgani a fuggire.
L’erezione di muri nel 2016 ha ampliato il mercato dei trafficanti di esseri umani. Alcuni confini un tempo molto porosi, come quello tra Grecia e Macedonia del Nord e quello tra Serbia e Ungheria, sono diventati più difficili da varcare. I migranti hanno quindi dovuto cercare vie alternative per raggiungere i paesi UE – per esempio, dalla Bosnia Erzegovina alla Croazia, dall’Albania all’Italia, dalla Serbia alla Romania e alla Bulgaria.
All’aumento di insidie, difficoltà e pericoli nello spostarsi per ciascun paese della rotta e, soprattutto, nell’attraversare un confine, corrisponde una maggior disponibilità a pagare del migrante, soggetto vulnerabile con solitamente uno spettro molto limitato di opzioni tra cui scegliere. Dunque, più margine di guadagno per i trafficanti.
Che hanno, inoltre, capitalizzato la pandemia da COVID-19. Le dichiarazioni di stato d’emergenza e la chiusura totale dei confini hanno ulteriormente complicato spostamenti e attraversamenti, rendendo l’attività di questi network ormai altamente specializzati ancora più redditizia.
Visti con gli occhi del crimine organizzato, i migranti incarnano il prototipo del cliente ideale. Non hanno diritti da vantare; non posso esporre reclami e proteste; devono necessariamente nascondersi dalle autorità; quasi sempre, sono disposti a tutto pur di approdare nell’UE, anche a sborsare cifre astronomiche per percorrere poche decine di km. Spesso i primi tentativi di attraversamento sono infruttuosi e si è costretti a riprovarci più e più volte. A ogni giro viene richiesto di pagare una quota.
La casella zero per chi prova a intraprendere la rotta balcanica è di norma Salonicco, in Grecia, dove si raduna la gran parte delle persone in arrivo dalla Turchia. La stazione ferroviaria di questo porto greco brulica di adescatori, pronti a offrire ai migranti, più o meno disperati e più o meno ricchi, le proprie prestazioni.
Secondo gli autori del report, i trafficanti possono essere suddivisi in tre categorie.
I “fixer” trasportano i migranti all’interno di un paese. Non richiedendo grandi livelli di organizzazione e formazione, il settore è abbastanza aperto: capita anche che privati cittadini si improvvisino tassisti per condurre le persone da un hub (stazione, aeroporto, porto) al successivo confine internazionale. Le tariffe variano in base alla lunghezza della tratta, al numero dei passeggeri e alla probabilità di essere fermati. Se possono bastare anche solo 20 euro per attraversare il Montenegro da un confine all’altro, per il tratto Gevgelija – Veles, in Macedonia del Nord, le cifre si aggirano tra i 500 e i 700 euro.
I “gatekeeper” si incaricano di far passare i confini: pochi km, spesso percorsi a piedi, ma decisivi. Per riuscire nell’impresa serve un discreto livello di organizzazione e competenze diverse, motivo per cui spesso operano gruppi misti composti da locali che conoscono bene l’area e migranti già in loco da tempo, che fungono da interpreti e mediatori. A fronte di un servizio così delicato e multidimensionale, le tariffe, che non di rado includono mazzette ai doganieri, si alzano: per andare dalla serba Novi Kneževac in Ungheria o Romania servono tra i 200 e i 500 euro, ma il biglietto d’ingresso del tunnel che da Kelebija (Serbia) conduce a Ásotthalom (Ungheria) parte da 800 e può salire fino al triplo.
I “package dealers”, infine, rappresentano il vertice della piramide del traffico di esseri umani nei Balcani Occidentali. Offrono, come suggerisce il nome, un pacchetto completo, agendo come una sorta di agenzia di viaggio per viaggiatori senza biglietto di ritorno. Offrono consulenze, informazioni, alloggio, trasporti. Tramite una rete capillare di sottoposti riescono a individuare i propri clienti, principalmente famiglie, già nei campi rifugiati in Turchia o nelle grandi città al confine greco-turco. I costi, anche in questo caso, dipendono soprattutto da: punto di partenza, punto di arrivo, mezzo di trasporto, pericolosità della tratta. Dalla Repubblica serba (una delle tre entità amministrative in cui è divisa la Bosnia Erzegovina) alla Slovenia si paga sui 1.000 euro a persona, per l’intera rotta – dalla Turchia all’UE via Balcani occidentali – una famiglia di quattro persone può arrivare a spendere tra i 15 e i 20 mila euro.
Per stimare (margine di errore: 20%) a quanto possa ammontare il giro d’affari annuo derivante da questo “business” gli autori del report si sono concentrati sulle tre aree più calde: i confini Grecia-Macedonia del Nord e Grecia – Albania (19,5 – 29 milioni di euro); il confine Bosnia e Croazia (7 – 10,5); e i confini Serbia – Ungheria e Serbia – Romania (8,5 – 10,5).
Complessivamente, allora, il “business” della rotta balcanica frutta ai trafficanti tra i 35 e i 50 milioni di euro all’anno.
Ma i contrabbandieri di uomini non sono gli unici soggetti che prosperano grazie alla politica di securitarizzazione delle migrazioni con cui gli Stati UE provano ad arroccarsi. Si sta formando un comparto tecnologico-industriale che deve il proprio sviluppo a questa politica.
Sebbene non esista ancora un quadro uniforme ed esaustivo, probabilmente a causa della difficoltà a reperire informazioni su un argomento così controverso, vari elementi indicano che l’impiego di tecnologie avanzate di controllo e sorveglianza di ultima generazione stia diventando sempre più diffuso lungo la frontiera comunitaria.
A fine gennaio Border Violence Monitoring Network ha trasmesso un report a Tendayi Achiume, Relatrice Speciale ONU sulle forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia ed intolleranza. Il documento si sofferma sul ruolo della tecnologia nei respingimenti operati dalla polizia di frontiera croata verso Serbia e Bosnia. Si basa sulle testimonianze dirette delle persone respinte e abusate al confine, e contiene una descrizione accurata, anche sotto il profilo tecnico, delle tecnologie adottate (droni, elicotteri, scanner per il riconoscimento di persone dentro a veicoli, visori termici per visione notturna e diurna). La polizia croata dispone inoltre di termocamere capaci di identificare una persona entro un raggio di circa 1.5 km e un veicolo a 3 km di distanza. La tecnologia più avanzata sono però i droni. Quelli in dotazione ai doganieri croati possono individuare una persona distante quasi 10 km durante il giorno e 2 durante la notte. Viaggiano a quasi 130 km/h e raggiungono un’altezza di 3500 metri, senza mai smettere di trasmettere dati in tempo reale.
Come riportato dal Guardian, anche le guardie di confine ungheresi dispongono di tecnologie come visori termici e droni di sorveglianza. Sempre nel 2017, il governo ungherese aveva deciso di rendere ancora più invalicabile la frontiera con la Serbia, installando una rete elettrificata, puntellata di rilevatori di temperatura, telecamere e altoparlanti che diffondono senza interruzioni uno squillo estremamente fastidioso a fini dissuasivi. Anche grazie a queste tecnologie, il paese centroeuropeo ha potuto respingere migliaia di persone (2.824 solo nel mese gennaio) in Serbia, una prassi giudicata contraria al diritto comunitario dalla Corte europea di giustizia e che ha portato alla sospensione delle attività di Frontex nel paese. Un emendamento introdotto nel 2017 sottrae al controllo di quel poco che rimane della società civile magiara gli investimenti che Budapest compie nel campo della gestione della migrazione – una prassi abituale nell’Ungheria di Viktor Orbán, applicata anche nel caso dei progetti infrastrutturali in cui è coinvolta la Cina.
Anche la Romania si è dotata di attrezzatura hi-tech per il controllo della migrazione, come spiegato sul sito della polizia di frontiera romena, che può impiegare più di un centinaio di visori termici e una ventina di veicoli equipaggiati con questa tecnologia, oltre a sensori ideati per rilevare il battito cardiaco a distanza.
Tuttavia, la nuova frontiera, anche in questo campo, riguarda l’uso dell’intelligenza artificiale (IA). Lo scorso giugno il Servizio Ricerca del Parlamento europeo ha pubblicato una dettagliata analisi dal titolo “L’intelligenza artificiale ai confini Ue” in cui la ricercatrice Costica Dumbrava ha elencato le possibili applicazioni dell’IA nel campo della gestione delle migrazioni: identificazione biometrica (presa di impronta digitale automatizzata e riconoscimento facciale); valutazione del rischio tramite algoritmi; monitoraggio, analisi e previsione dei flussi migratori; rilevamento dello stato emozionale.
Alcune di queste tecniche, secondo quanto sostenuto da AP News, sarebbero già utilizzate in Grecia in via sperimentale; sarebbero state installate sfruttando il periodo di relativa quiete imposta dalla pandemia anche in questa zona calda. A cavallo del confine greco-turco si sta così configurando un laboratorio a cielo aperto dove vengono testate le più futuristiche modalità di controllo. Si intravede il profilo di un modello futuro di “border management” completamente automatizzato grazie al massiccio ricorso a IA e altri dispositivi digitali.
Tra le tecnologie adottate dalla polizia di confine greca, non di rado coadiuvata dal personale di Frontex: telecamere a lungo raggio, visori notturni e sensori di varia gamma installati sulle torrette di sorveglianza per raccogliere dati sui movimenti sospetti e inviarli a centri di ricerca dove questi vengono analizzati tramite software di IA; rilevatori di bugie, anch’essi basati su IA, e bot impiegati durante gli interrogatori come “poliziotti virtuali”; scanner palmari per la lettura e la catalogazione dell’intreccio delle vene della mano; tecnologie per la ricostruzione 3D della silhouette del migrante, nel caso si sia, per esempio, mimetizzato nel fogliame.
A finanziare l’acquisto di queste tecnologie, così come l’attività di ricerca necessaria a idearle, è stata spesso la stessa UE. Incalzata dagli Stati membri più oltranzisti sul tema migrazione, la Commissione europea si è mostrata via via più disponibile a convogliare il grosso delle risorse (finanziarie e politiche) di cui dispone allo scopo di sigillare i confini esterni.
Dei quasi 25,7 miliardi di euro (prezzi correnti) che Bruxelles ha stanziato al paragrafo di spesa “Migrazione e controllo dei confini” nel prossimo bilancio pluriennale 2021-2027, 11,1 sono destinati al capitolo “migrazione” e 14,4 a “controllo dei confini”. Per far comprendere quanto lo Zeitgeist politico del continente sia mutato in un tempo relativamente contenuto basti ricordare che nel bilancio precedente non compariva nemmeno una sezione dedicata specificatamente alla gestione dei flussi migratori, ma solo un generico “Fondo per l’asilo, la migrazione e l’integrazione” nella voce di spesa “Sicurezza e cittadinanza”, che si era meritato la cifra esigua di 3,1 milioni.
E la voce di spesa che ha visto l’incremento più vistoso in termini percentuali è stata proprio “agenzie decentralizzate – confini” (+164% rispetto al precedente bilancio pluriennale), ovvero Frontex e, in misura minore, Easo. Come indicato in un report di ASGI, i fondi allocati a Frontex erano già passati dai 6,3 milioni di euro del 2005 ai 333 del 2019. Nello specifico la quota dedicata alle “operazioni di rimpatrio” era aumentata da 80 mila euro (2005) a 63 milioni (2019). Per i prossimi sette anni Frontex potrà contare su una dote da 11 miliardi di euro, di cui 2,2 miliardi per l’acquisizione, la manutenzione e la gestione di risorse per la sorveglianza aerea, marittima e terrestre. È in previsione anche un aumento del personale: dalle attuali 6.500 unità dovrebbe raggiungere quota 10 mila nel 2027. Come ricorda il Cespi, l’evoluzione di Frontex “rientra nella strategia europea di rafforzamento nella governance delle migrazioni e di risposta alle esigenze securitarie interne”.
In breve, l’UE – direttamente o tramite le agenzie che da essa emanano – sembra pronta a spendere tanto per impedire che soggetti indesiderati (o indesiderabili) riescano a valicare le mura del blocco. Soprattutto nel settore più promettente: le nuove tecnologie di controllo e sorveglianza.
Lo ha chiarito, lo scorso 2 giugno, la Commissione europea inviando una comunicazione a Parlamento europeo e Consiglio denominata proprio “Una strategia per un’area Schengen pienamente funzionante e resiliente”. Venticinque pagine che possono essere considerate una sorta di manifesto programmatico comunitario dove vengono enucleati sia i principi da seguire che le azioni da compiere per una “gestione moderna ed efficace dei confini esterni dell’UE” [corsivo dell’autore].
La strategia si prefigge di “trasformare il sistema di gestione del confine esterno in uno dei sistemi più performanti al mondo”. Fare dell’UE una “fortezza digitalizzata”, secondo le ONG che si occupano di migrazione.
Nell’introduzione si spiega che per aumentare la fiducia nella solidità della gestione del confine esterno dell’UE è necessario adottare un “approccio integrato e strategico”, che si traduca in una “sorveglianza sistematica delle attività ai confini” e nell’utilizzo di “tecnologie digitali moderne e interconnesse e procedure sempre più digitalizzate”. Si invitano gli Stati membri ad aggiornare e condividere i database nazionali dove vengono raccolte le informazioni sulle persone che provano ad attraversare la frontiera UE, e si propone di adottare forme di pre-screening per queste persone. Ovvero, schedare le persone accalcate ai confini prima che riescano effettivamente a varcarlo. Questo allo scopo di “accelerare le procedure per identificarne lo status” e, ma questo il documento non lo esplicita, velocizzare le espulsioni.
Al netto dei richiami più o meno vaghi al rispetto dei “diritti fondamentali” che puntellano il documento, lo spirito che lo anima emerge in modo nitido. La “gestione dei confini esterni” è declassata a una semplice questione di sicurezza, bisogna evitare con ogni mezzo che qualcuno riesca ad entrare nell’Ue senza averne i requisiti, il ricorso a tecnologie sempre più sofisticate è il modo più efficace per ottenere questo risultato.
A cura dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni
Secondo un nuovo rapporto pubblicato dall’OIM, sono almeno 1.146 le persone che nei primi 6 mesi del 2021 hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. A oggi, quest’anno le morti lungo queste rotte sono più che raddoppiate rispetto allo stesso periodo del 2020, quando il numero noto dei migranti annegati era 513.
Il rapporto analizza la situazione in corso lungo alcune delle rotte migratorie marittime più pericolose del mondo. Mentre il numero di persone che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo è aumentato del 58% tra gennaio e giugno di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2020, più del doppio delle persone hanno perso la vita.
“L’OIM ribadisce l’invito agli Stati a prendere misure urgenti e proattive per ridurre le morti lungo le rotte migratorie marittime verso l’Europa e rispettare quelli che sono gli obblighi definiti dal diritto internazionale“, afferma il Direttore Generale dell’OIM António Vitorino. “Per raggiungere questo obiettivo occorre aumentare gli sforzi di ricerca e soccorso in mare (SAR), stabilire meccanismi di sbarco prevedibili e garantire l’accesso a canali migratori legali e sicuri.”
L’analisi, realizzata dal “Missing Migrants Project” presso il Global Migration Data Analysis Centre (GMDAC) dell’OIM, mostra come l’aumento dei decessi sia avvenuto in un periodo nel quale da una parte è stato registrato un insufficiente numero di operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e lungo la rotta atlantica, e dall’altro è stato osservato un aumento dei migranti intercettati in mare al largo della costa nordafricana.
La maggior parte degli uomini, donne e bambini che sono morti nel 2021 allo scopo di raggiungere l’Europa stavano tentando di attraversare il Mediterraneo. L’OIM ha registrato un numero totale di 896 morti per queste rotte.
Di queste, almeno 741 persone sono morte sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre 149 persone hanno perso la vita attraversando il Mediterraneo occidentale e 6 sono morte lungo la rotta del Mediterraneo orientale, nel tratto di mare che separala Turchia dalla Grecia.
Nello stesso periodo, circa 250 persone sono annegate tentando di raggiungere le isole Canarie in Spagna Lungo la rotta Atlantica. Tuttavia, queste potrebbero essere tutte stime per difetto. Centinaia di casi di naufragi invisibili sono stati segnalati da ONG che si sono messe in contatto diretto con le persone che lanciavano SOS a bordo dei barconi o con le loro famiglie. Questi casi, che sono estremamente difficili da verificare, indicano che il numero di morti possa essere molto più alte di quanto si pensi.
Un esempio di ciò risale al 24 marzo, quando Sohail Al Sagheer, un rapper algerino di 22 anni, è stato dichiarato disperso dopo essere partito con nove amici da Orano, in Algeria, per raggiungere la Spagna. I suoi famlliari hanno condotto un’affannosa ricerca di informazioni per scoprire cosa fosse successo, sconvolti dalla possibilità che potesse essere stato vittima di un naufragio avvenuto al largo di Almería, in Spagna. Il corpo senza vita del ragazzo è stato poi ritrovato il 5 aprile, al largo della costa di Aïn Témouchent, in Algeria.
Il rapporto dell’OIM mostra anche un aumento, per il secondo anno consecutivo, delle operazioni marittime degli stati nordafricani lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Più di 31.500 persone sono state intercettate o soccorse dalle autorità nordafricane nella prima metà del 2021, rispetto alle 23.117 dei primi sei mesi del 2020.
Le operazioni al largo della Tunisia sono aumentate del 90 per cento nei primi sei mesi del 2021 rispetto al 2020.
Inoltre, oltre 15.300 persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia nei primi sei mesi dell’anno, quasi tre volte di più rispetto allo stesso periodo del 2020 (5.476 persone). Questo è un dato preoccupante visto che i migranti che vengono riportati in Libia sono soggetti a detenzione arbitraria, estorsione, tortura.
Il rapporto evidenzia come ci siano ancora delle lacune nei dati relativi ai flussi migratori marittimi verso l’Europa. Dati migliori possono aiutare gli stati ad affrontare con urgenzagli impegni definiti dall’obiettivo 8 del Global Compact for Migration per “salvare vite e intraprendere sforzi internazionali coordinati sui migranti scomparsi“.
Il report completo qui
Foto in evidenza Organizzazione Internazionale per le migrazioni
di Filippo Miraglia su Domani
La strage nel Mediterraneo continua. Le violenze e le torture in Libia si consumano davanti agli occhi di tutti. Il velo sull’orrore a pochi chilometri dalle nostre coste è stato strappato da tempo oramai, eppure Governo e Parlamento si apprestano a confermare il sostegno finanziario alle attività delle milizie che gestiscono la cosiddetta guardia costiera libica e i lager in cui vengono rinchiusi i migranti.
Nel 2020 le persone costrette ad abbandonare le proprie case per persecuzioni, guerre e violenze, in aumento secondo l’agenzia per i rifugiati dell’ONU, sono state più di 82 milioni, nonostante il covid e le limitazioni ai movimenti. Un numero che aumenta anno dopo anno, dal dopo guerra a oggi.
Le aree ricche del pianeta accolgono sempre meno rifugiati (30 per cento in meno rispetto al 2019) e così la maggior parte di loro sono costretti a cercare protezione in quelle parti del pianeta che hanno maggiori difficoltà.
L’Ue, che è tra le aree del mondo che ne accoglie di meno, non vuole più fare nemmeno quel poco che ha fatto finora, nonostante spesso le cause di guerre, persecuzioni e disastri ambientali, all’origine dell’immigrazione forzata, siano responsabilità anche sue.
Per questo i governi europei stipulano accordi in tema d’immigrazione e diritto d’asilo con il solo obiettivo di aumentare gli ostacoli che impediscono alle persone di muoversi e, soprattutto, di muoversi legalmente, rivolgendosi direttamente agli Stati col proprio passaporto.
L’unica alternativa, in molti casi per tentare di salvare la vita, è affidarsi a chi organizza, lucrandoci e ovviamente senza curarsi della sicurezza di chi si rivolge a loro, l’attraversamento illegale delle frontiere, marittime e terrestri.
In questo quadro davvero tragico, l’Italia ha fatto da apripista nella sperimentazione dell’esternalizzazione delle frontiere, anche attraverso accordi con soggetti che ricorrono senza alcuna remora alla violenza, alle torture e, come tutti hanno potuto vedere, anche a omicidi plurimi.
Le nostre motovedette, la strumentazione e le risorse fornite dall’Italia in seguito al Memoradum firmato con la Libia (2017), ad opera dell’allora titolare del Viminale Marco Minniti – che aumenteranno secondo quanto riportato nella delibera Missioni all’esame in queste ore del nostro Parlamento – hanno consentito alle milizie libiche che si spacciano per guardia costiera, di riportare nei lager più di 60 mila persone.
Esseri umani sfuggiti alle violenze che, con la nostra complicità e in contrasto con le leggi italiane e le convenzioni internazionali, sono state catturate e riportate indietro dai loro stessi aguzzini.
Il fatto che il presidente del Consiglio abbia ringraziato la Libia per aver “salvato” queste persone riconsegnandole alle violenze dei centri di detenzione, è davvero sconcertante, oltre che inaccettabile.
Per questo le associazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione, la coalizione della società civile che promuove e tutela i diritti dei migranti e dei rifugiati, hanno scritto a Draghi, chiedendogli di invertire la rotta. Gli abbiamo chiesto di revocare ogni sostegno alla cosiddetta guardia costiera, per avviare una nuova stagione dei diritti, in Italia e in Europa. Alimentare odio, paure e razzismo, oltre a consolidare la cultura delle destre xenofobe e dei sovranisti, rappresenta davvero un rischio per la tenuta dell’Ue.
Non possiamo più assistere inermi alla strage che ogni giorno si compie sotto i nostri occhi, né si può tollerare che si sostengano con risorse pubbliche gruppi che usano la violenza, fino alla strage, per arricchirsi sulla pelle di migliaia di innocenti.
Sappiamo poi, anche dalle testimonianze di esponenti della società civile libica, che il sostegno alle milizie e gli accordi sul controllo dei flussi migratori sono un fattore di destabilizzazione che impedisce il processo di pace anziché aiutarlo.
Se l’UE e il governo italiano volessero davvero sostenere il dialogo in Libia dovrebbero sottrarre, con una operazione di evacuazione delle persone detenute, la principale arma di ricatto delle milizie.
È urgente fermare la strage attraverso un programma europeo di ricerca e salvataggio, come più volte chiesto dal Commissario ONU per i rifugiati, che ha denunciato il sostegno alla “guardia costiera libica” che il governo si appresta a rinnovare, chiedendo di bloccarlo. È sul fronte del salvataggio delle vite umane che ci piacerebbe veder impegnata l’Italia, non su quello del sostegno alle bande che si contendono il controllo della Libia. Si potrebbe cominciare dal consentire alle navi delle Ong bloccate di poter tornare in mare.
Ci chiediamo, e chiediamo al governo e al Parlamento: quale Europa vogliamo costruire? Quale senso vogliamo dare ad una unione di popoli e di Stati per il nostro comune futuro? Accodarsi all’ideologia oscurantista e razzista di Orban, di Salvini e Meloni, di Le Pen, o tornare allo spirito di Ventotene, ai principi contenuti nel Trattato Europeo? La risposta a questa domanda oggi arriva anche dalle decisioni che prenderanno governo e Parlamento nelle prossime ore. Non siamo ottimisti, ma non vogliamo arrenderci.
Saremo in piazza il prossimo 14 luglio per dire che non si può far finta che le decisioni prese nei palazzi delle istituzioni non abbiano conseguenze sulla vita e sulla morte di migliaia di persone. Non ci si può comportare come se si avesse una benda che impedisce di vedere l’orrore al quale assistiamo quotidianamente. La verità, con le sue pesanti responsabilità, è oramai davanti agli occhi di tutti.
A cura di Oxfam Italia
Per la gran parte dei ragazzi in ogni parte del mondo diventare maggiorenni significa festa, indipendenza, cambiamento. Non è così per i minori non accompagnati arrivati in Europa per i quali il compimento del diciottesimo anno è solo fonte di ansia.
Per dirla con A., 20 anni, fuggito dall’Eritrea e oggi residente in Olanda: “Entrare nell’età adulta non è per noi una transizione ma la fine di tutto il sistema di supporto e protezione su cui possiamo fare affidamento”.
Una situazione fatta di perenne incertezza e ostacoli da affrontare, con cui, presto o tardi, devono confrontarsi migliaia di minori migranti non accompagnati arrivati in Europa. Anche se i flussi si sono ridotti negli ultimi anni, ad oggi sono 6.633 quelli accolti in Italia, e paesi come la Francia, ne contano più di 30.000. Si tratta di ragazzi che spesso hanno alle spalle esperienze terribili. Basti pensare a quanto successo negli ultimi mesi nei Balcani e al confine orientale italiano, dove molti minorenni soli sono stati respinti dalle polizie di frontiera e costretti a un viaggio a ritroso verso la Bosnia. A quanto avviene sulle isole greche, dove centinaia di minori senza famiglia sono bloccati da mesi in campi profughi senza accesso a servizi e istruzione. E non ultima, alla situazione delle nostre coste, dove, negli ultimi 5 mesi sono sbarcati oltre 2.600 ragazzi soli.
È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, Greek Council for Refugees, Dutch Council for Refugees, ACLI Francia in un nuovo rapporto, che denuncia i rischi che comporta compiere 18 anni per i minori arrivati soli in Europa, nella fase in cui dovrebbero invece progettare il loro futuro nei paesi di accoglienza.
Dal report emerge chiaramente che nessuno dei 5 paesi presi in esame – Francia, Grecia, Paesi Bassi, Irlanda e Italia – ha adottato politiche sistemiche in grado sostenere i giovani migranti nel loro percorso di integrazione.
“Uno dei capisaldi della legislazione europea è la protezione dei minori a prescindere dal loro status legale, grazie al quale si garantisce una difesa dal rischio di sfruttamento, abusi, abbandono. – ha detto Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia su migrazione e asilo – Diventare maggiorenni non vuol dire che questi rischi scompaiano dall’oggi al domani. A sparire improvvisamente è ogni forma di protezione, con ragazzi che rischiano in molti casi di ritrovarsi per strada senza nessuno a cui rivolgersi.”
La norma prevede che i minori rifugiati arrivati in Europa siano ospitati in strutture adeguate e affidati a tutori per tutte le questioni amministrative e legali. L’accesso a strutture di accoglienza per i neo-maggiorenni varia però da paese a paese: in Irlanda vengono trasferiti in alloggi per adulti caratterizzati da standard molto bassi, in Grecia possono finire in uno dei campi profughi o per strada, in Italia ci sono diverse opzioni ma anche il rischio, più che concreto, di essere messi semplicemente alla porta.
“A 18 anni non diventi improvvisamente adulto – racconta L. 25 anni – in Irlanda dove vivo, molti ragazzi a quell’età vivono ancora in famiglia.”
Altro muro da affrontare è la burocrazia labirintica in cui questi ragazzi sono costretti a muoversi. Questo sembra valere un po’ ovunque nei paesi considerati, ma è l’Italia a meritare un’analisi a sé stante, proprio a partire a dalla sfida che un diciottenne migrante deve affrontare per ottenere il permesso di soggiorno.
Una delle difficoltà più serie per i ragazzi neomaggiorenni in Italia, riguarda l’ottenimento di un permesso di soggiorno: a 18 anni il diritto di non essere espulsi decade ed è necessario ottenere un documento che garantisca il diritto a restare. Chi ha fatto richiesta di asilo e diventa maggiorenne mentre è ancora in attesa dell’esito può trovarsi in enorme difficoltà, qualora la sua domanda venga rigettata. A quel punto è infatti preclusa la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno di altro tipo, ad esempio per studio o lavoro, e il rischio di cadere nell’irregolarità è altissimo. Anche per chi ha ottenuto un permesso di soggiorno per minore età, la strada è tutt’altro che in discesa. Diventati maggiorenni, i titolari di questo permesso di soggiorno devono dimostrare il possesso di specifici requisiti per ottenerne la modifica, cioè la conversione in permesso per studio, lavoro o attesa occupazione, e poter quindi restare in Italia regolarmente.
“I ragazzi si ritrovano di fronte a procedure farraginose, che non sono in grado di affrontare da soli e che non tengono conto delle loro reali esigenze o delle effettive possibilità che i territori offrono. Esponendoli al rischio di perdere il diritto a restare regolarmente in Italia”, aggiunge Capitani.
Trovare lavoro è infatti complesso per questi giovani, che appena arrivati in Italia devono concentrarsi sull’apprendimento della lingua, e che spesso quindi ritardano l’inizio di percorsi formativi o tirocini che sono, di fatto, l’unico canale per poter essere assunti. La ricerca di una casa è un altro grande problema. Sembrano funzionare le esperienze di “semi-autonomia”, dove ragazzi neomaggiorenni vivono insieme con il sostegno di un peer educator, ma negli altri casi perdere il diritto all’accoglienza è fonte d’ansia, visto anche il carattere fortemente discriminatorio del mercato immobiliare e la necessità di pagarsi un affitto a fronte di lavori spesso saltuari.
“Al Governo italiano chiediamo di affrontare in modo più organico il passaggio dei minori non accompagnati all’età adulta, garantendo il coordinamento di tutti gli attori coinvolti. – conclude Capitani – E di promuovere in particolare il ruolo dei tutori volontari, previsto dalla Legge Zampa, e dei tutori sociali dopo il compimento della maggiore età. All’Europa, di spingere gli Stati Membri verso politiche strutturate e di mettere a disposizione più fondi per l’integrazione.”
Foto in evidenza Oxfam Italia/Alessandro Rota
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