Di Fatou Diako su Articolo 21
Nel clima mediatico (e purtroppo pienamente giustificato) della paura collettiva generata dalla crisi ucraina, sembra andare sempre di più diversificandosi il concetto della diaspora, derivante da un significato etimologico comune di fuga o dispersione di un “popolo” o delle sue istituzioni nel mondo.
Se è vero che i conflitti, soprattutto se di violenza indiscriminata, e vicino casa nostra, come quello odierno, stimolano i più atavici timori e si stemperano tiepidamente soltanto nel conforto dell’accoglienza suggerita dalla “pietas” per i più deboli e dall’empatia per le sofferenze umane, è altrettanto vero che fino a poco tempo, nella nostra generale ottusa ignoranza, se si comprendeva in qualche modo che le migrazioni hanno (e hanno avuto nel tempo) origini e natura diversa, corrispondentemente alle differenti situazioni geopolitiche di provenienza, apparivano comunque tendenzialmente univoci il sentimento e l’espressione di quella pietas, che vuole abbracciare il più debole, come concetto o categoria generale, per non farne più distinzione con il sè e con gli altri. Non si è trattato in questo di una banalizzazione dei concetti e delle categorie, ma di una esternazione autentica di un antico senso di compassione umana, che appunto trae origine dalla consapevolezza e ricognizione di sofferenze e debolezze che appartengono indistintamente all’uomo come individuo. Da tale consapevolezza si è sviluppata l’esternazione dell’empatia, nel riconoscimento di una dignità che mai deve essere negata.
Ora, la crisi ucraina con la fuga di massa dei disperati ci sta mettendo di fronte ad uno stravolgimento di quanto sopra indicato e dello stesso concetto di umana compassione. L’empatia nostra non sembra più muoversi indistintamente verso i profughi, o il profugo inteso come individuo destinato alla dispersione, sua, di una collettività originaria, o identitaria, ma comunque degna di attenzione, ascolto e tutela, ma pare perseguire un assurdo ondeggiare suggerito da criteri discriminatori. La guerra che strazia un territorio, non è più la guerra di quel territorio, in grado di ospitare, fino a un certo momento, non un popolo, ma le popolazioni che lo abitano anche se non necessariamente autoctone. È, o sembra essere, la guerra contro i diritti degli ucraini, cui giustamente si volge il nostro sguardo affettuoso, ma solo verso questi appare muoversi l’attenzione, nella generale commozione collettiva, sprezzante degli altri. Ma che ne è di quei profughi, già profughi in terra ucraina e oggi straniti, smarriti e disconosciuti dal mondo? Come non ammettere che la migrazione della migrazione “non è ammessa” o non sempre tollerata? Forse le nostre limitazioni mentali, che ci fanno tendere alle eccessive semplificazioni non sono in grado di cogliere le sfumature delle migrazioni, dei loro caratteri. Nella nostra semplificazione eccessiva, e banalizzazione, del concetto di diaspora, non solo non vediamo le diaspore, ma le discriminiamo, addirittura, lasciandole fuori dall’accoglienza, bloccandole ai confini, facendo differenze che offendono l’uomo vulnerato, non riconoscendolo più come tale, destinandolo all’oblio, mediatico e sociale.
Questa lunga osservazione gira sull’idea di fondo che l’accoglienza è di tutti e per tutti; certamente sarà più facile la via della salvezza per la middle class munita di passaporto, ma come tale categoria non deve essere discriminata perchè in qualche modo già privilegiata, non deve discriminarsi nemmeno il povero o il profugo dell’Ucraina o il passeggero di turno, l’uomo del transito. L’accoglienza, si diceva, è per tutti; è la nota che accorda e consente l’uguaglianza, sociale e sostanziale, che si fa portavoce e portatrice di diritti e di tutele… In fondo, è questione di pietas…
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Su Avvenire
Accuse di discriminazione razziale. Sugli autobus al confine tra Ucraina e Polonia, nelle stazioni dei treni, dentro i campi improvvisati per l’accoglienza. Nei giorni dell’apertura delle frontiere da parte dei Paesi di Visegrad, per lasciar spazio all’ondata di profughi in arrivo dall’ex repubblica sovietica, arrivano pesanti imputazioni a carico in particolare delle autorità polacche. Le voci sono state raccolte dalla stampa internazionale e dai social media e puntuale è arrivata la smentita di Varsavia.
«Ci hanno detto “No Blacks“, e ci hanno fatto scendere dal bus che stava attraversando la frontiera con la Polonia. A me, alla mia famiglia e ad altri immigrati» ha raccontato un attivista nigeriano, padre di tre figli, all’Indipendent. «Mio nipote, cittadino del Marocco, è stato respinto alla frontiera tra Ucraina e Polonia. Dopo varie peripezie, con tutta la documentazione, stava tentando di fuggire dall’Ucraina ed entrare in Polonia per prendere un aereo e tornare a casa» ha denunciato una donna italiana su Twitter.
Quanto stanno documentando alcuni inviati, al momento, è soprattutto un diverso trattamento, a seconda del colore della pelle. Razzismo a tutto tondo, in parole povere.
L’ambasciatrice polacca in Nigeria, Joanna Tarnawska, ha però smentito gli atti discriminatori. «Tutti ricevono uguale trattamento. Posso assicurare che ho rapporti sul fatto che alcuni nigeriani hanno già attraversato il confine della Polonia», ha spiegato ai media locali.
Le denunce di razzismo si stanno però diffondendo di ora in ora su Twitter e sugli altri social sotto l’hashtag #AfricansinUkraine. A pesare sarebbe soprattutto il limbo, fisico e giuridico, in cui verrebbero collocati i migranti originari dell’Africa rispetto alle persone nate nell’Est Europa. «Stanno dividendo profughi di serie A e di serie B. È una vergogna».
Nel territorio che separa l’Ucraina dalla Polonia, si stanno riversando dall’inizio del conflitto centinaia di migliaia di cittadini in fuga dalle esplosioni e dai bombardamenti. I primi post e video di denuncia sono comparsi settimana scorsa sul profilo Twitter della dottoressa Ayoade Alakija, inviata speciale dell’Oms per l’emergenza Covid. Nelle immagini dei video si vedono africani, in fuga insieme a centinaia di migliaia di ucraini, davanti ai fucili puntati della polizia di confine che decide chi far entrare e chi no in Polonia, e quindi in Unione Europea.
Sul tema, smentito come detto dall’ambasciatrice polacca in Nigeria, le autorità del Paese africano hanno sollecitato i funzionari governativi polacchi al confine a trattare in modo uguale tutti i profughi e i richiedenti asilo provenienti dalle città ucraine.
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Di Simone Alliva su L’Espresso
Il mese è quello di maggio 2021, primi segni di “ritorno alla normalità”. Fine dei lockdown e locali che riaprono. Zaihra, ragazza trans di 21 anni, aspetta una sua amica in piazza Currò, centro di ritrovo per i giovani catanesi. Un ragazzo la fissa mentre lei parla al telefono. Poi le si avvicina e le sferra un pugno in faccia. Sviene e nessuno interviene. Occhio gonfio e mascella rotta.
Nel mese di ottobre a Roma il quartiere di San Lorenzo ritorna a pulsare tra bar e discoteche, Jamilton, romano di 26 anni con origini brasiliane esce da un locale verso le 2 di notte, saluta gli amici e si avvia verso la macchina. Prima gli insulti: «Guarda se sto negro de merda m’ha rubato er cellulare, mo lo pisto». Poi un branco di quattro uomini lo circondano, gli spaccano una bottiglia in testa e lo massacrano intonando in coro: «Brutto negro».
Omotransfobia, razzismo, abilismo, antisemitismo le voci che si uniscono per denunciare il clima di violenza montante vengono raccolte dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio). Da 913 episodi di discriminazione del 2020, si è passati a 1.379. Con un dettaglio non da poco conto: i dati visionati e pubblicati in anteprima da L’Espresso registrano un balzo di aggressioni fisiche rispetto all’anno precedente.
Con le “riaperture” si preferiscono calci e pugni all’offesa: l’odio virtuale scende dal 34% al 17%, mentre salgono le aggressioni fisiche: nel 2020 erano il 65 per cento (soprattutto tra le mura domestiche), nel fanno un balzo e toccano l’82 per cento.
La discriminazione abbandona il virtuale e torna a sommergere la vita reale delle persone, nelle loro relazioni familiari e di vicinato, nei luoghi che frequentano o dai quali vengono allontanati o preclusi. Figli buttati fuori casa per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere, cittadini insultati e picchiati per strada per il colore della pelle. E ancora manifesti, striscioni, cartelli, scritte sui muri che illuminano la guerra invisibile alle minoranze.
La piramide dell’odio tracciata dall’UNAR mette al primo posto le persone aggredite per motivi etnico-razziali: il 2021 ha registrato 709 casi rispetto ai 545 del 2020. Di queste 499 vittime sono straniere. Seguono poi le persone aggredite per il “colore della pelle” (137), a cui vengono rivolti insulti che ricalcano un copione rigido e caro al vocabolario razzista: «negro di merda», «marocchino di merda», «clandestino», «vattene», «ritorna da dove sei venuto». Parole manifesto del sentimento di odio e pregiudizio di inferiorità basato sulla “razza”.
Sono invece 241 i casi denunciati di discriminazioni per “Religione o convinzioni personali”, rispetto ai 183 del 2020. In Italia è l’antisemitismo a crescere a dismisura. Si contano 170 casi rispetto agli 89 del 2020. Una recrudescenza del pregiudizio antisemita, oggi come in passato, che si esprime in forme cospiratorie, additando nelle persone di religione ebraica qualsiasi colpa. Già il rapporto della Wzo, l’Organizzazione sionista mondiale, e dell’Agenzia ebraica per Israele, aveva sottolineato come il 2021 fosse stato l’anno più antisemita dell’ultimo decennio.
Per l’Italia la conferma della tendenza arriva dall’UNAR. L’anno iniziato con insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre è proseguito con la diffusione di teorie complottiste sulla pandemia e vaccini dalle pagine social. Si è arrivati alle manifestazioni no-vax, con cartelli antisemiti. Ci sono poi le testimonianze delle aggressioni fisiche che sembrano far fare marcia indietro nel tempo: in una importante città dell’Italia centrale, nel tardo pomeriggio, un ragazzo con indosso la kippah viene colpito da dietro con un pugno e poi uno sputo. Mentre in una scuola primaria due studenti, venuti a conoscenza delle origini ebraiche di un compagno, lo sottopongono ad una serie di molestie: facendogli il saluto fascista, tentando di disegnargli svastiche sul corpo ed aggredendolo fisicamente con calci e pugni.
Non vengono risparmiate dall’odio le persone Lgbt che, come fanno notare dall’Ufficio Antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio: scontano un’ondata di visibilità prodotta dal dibattito pubblico consumatosi nel 2021 sul ddl Zan, dentro e fuori dal Parlamento. Fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi che si sono tradotti, nel tessuto sociale, in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Si registra un caso di omotransfobia ogni due giorni. Dai 93 episodi denunciati nel 2020, si è passati ai 238. Persone trans inseguite e aggredite per strada, ragazzi e ragazze costrette a terapie riparative, macchine distrutte e aggressioni fisiche a coppie colpevoli di tenersi per mano o scambiarsi un bacio pubblicamente.
È stato anche l’anno dell’abilismo, parola che rinchiude dentro tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Il 2020 aveva registrato una flessione delle aggressioni pari a 49 casi, con il “ritorno alla normalità” i casi di abilismo toccano la punta di 141 aggressioni. Sono dati parziali, sottolineano dall’Unar, poiché fanno riferimento solo a casi denunciati oppure segnalati dalla stampa. Lo scenario, dunque, potrebbe essere peggiore.
«I dati ci dicono che l’anno trascorso sconta la rabbia accumulata e la paura dell’anno precedente. Con le maggiori aperture c’è stata una ripresa della circolazione delle persone e un aumento delle aggressioni fisiche» spiega Triantafillos Loukarelis, direttore Ufficio nazionale anti-discriminazione razziale. «Come Unar abbiamo due difficoltà: siamo poco conosciuti e poi c’è una rassegnazione, quasi una sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace oppure addirittura controproducente».
Il metodo dell’UNAR sui casi di discriminazione è preciso: una volta ricevuta la segnalazione del caso, si attiva un lavoro di verifica ed eventualmente di supporto della vittima. Non tutte le segnalazioni, dunque, vengono registrate. «Molte persone nell’ultimo ci hanno contattato perché si sentivano discriminati in quanto non vaccinati. Semplicemente temevano gli effetti dei vaccini – spiega Loukarelis – Spesso sono persone che hanno paura perché non hanno le giuste informazioni. C’è questa idea che i no-vax siano solo radicali ma non è così. Così li abbiamo indirizzati verso i servizi regionali che potevano dare tutte le informazioni necessarie per comprendere».
Fornire informazioni, supporto e orientamento è il compito dell’ufficio che nell’ultimo anno si è fatto carico di qualsiasi tipo di denuncia: «I nostri operatori specializzati si prendono carico delle segnalazioni. Spesso si può agire anche sulla base di moral suasion parlando con le istituzioni locali, ad esempio. Quando ci sono questioni che possono aver, per così dire, un riflesso giudiziario, abbiamo pronto una squadra legale pronta a trasmettere un parere».
L’Unar ci prova, in sinergia con le associazioni che lottano contro l’odio. Intanto dal Parlamento arrivano nuove rassicurazioni per una ripresa del testo di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Potrebbero ripresentare un testo ad aprile sia Alessandro Zan del Partito Democratico alla Camera, sia Alessandra Maiorino del M5s al Senato. Fuori dai palazzi però ritorna la paura, alcuni temono più di prima e tacciono, altri dicono basta e trovano la forza di denunciare cercando sostegno. In attesa di uno scatto della politica, i cittadini fanno da sé mentre la lacerazione sociale cresce.
Di Laetitia Leunkeu su Valigia Blu
Emerge il video di una violenza avvenuta la notte di Capodanno, nel quale si vede l’espressione più stomachevole del machismo in azione. Abbiamo una ragazza (in realtà poi si scopre che sono molte di più) accerchiata da un branco di uomini e ragazzini che la strattonano, la denudano e la molestano. Il tutto in una piazza affollata, quella del Duomo a Milano, nella complice indifferenza generale.
Il video gira e indigna tutti per quello che è: il riflesso di una mentalità violenta, che vede nella forza e nell’umiliazione il filo che tesse i rapporti tra uomo e donna, la quale, qui, diventa oggetto di libero uso e possesso del branco. Nel giro di pochi giorni abbiamo degli indagati. Sono stati fermati una decina di ragazzi e tra questi spiccano due figure, Abdallah Bouguedra e Abdelrahman Ahmed Mahmoud Ibrahim. Per nome e origine, in pochi giorni diventano l’emblema di un degrado culturale, poco importa che i 12 indagati, tra italiani e stranieri, provengano da tre gruppi diversi.
All’improvviso quel problema di machismo, sessismo e patriarcato di cui si è parlato nei giorni precedenti sparisce come d’incanto, o meglio non è più un nostro problema. Il viceministro delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili, Alessandro Morelli (Lega), sui suoi social scrive: “Fanno arrivare qui decine di migliaia di persone senza alcun controllo né preoccupazioni su come possano integrarsi, poi però se succede qualcosa è colpa della ‘nostra società’ e del ‘patriarcato’. Ma per favore!”
La minaccia sessista che l’altro, uno straniero, incarna, è sufficiente quindi per spiegare la violenza di gruppo avvenuta in quella piazza. Sarebbe a causa della loro cultura intrinsecamente sessista, associata alla loro origine (che siano cresciuti o meno in Italia), e a causa della loro mancanza di volontà di integrazione, che gli aggressori dimostrerebbero un sessismo specifico; un sessismo straordinario, che in nulla assomiglierebbe alla violenza o al sessismo mostrato dagli uomini italiani.
Basta una semplice analisi dei sociotipi messi in prima linea nei discorsi politici e mediatici nel nostro paese per rendersi conto dell’impressionante processo di razzializzazione del sessismo nella sfera pubblica. Le origini precedono i nomi, così le identità di vittime, colpevoli e complici, svuotati di ogni connotazione soggettiva, viaggiano sull’onda di una pluralità collettiva che diventa il luogo di scontro di fazioni politiche. Le donne in tutto questo fanno da accessorio, strumenti nelle mani di chi utilizza l’escamotage del barbaro straniero per posizionarsi come figura salvifica – sia di donne straniere oppresse, che di donne bianche potenziali vittime di questa oppressione – mentre costruisce intorno a sé il muro di deresponsabilizzazione entro il quale confinare i vari “gigante buono”, i “vulcanici imprenditori”, i “raptus” e l’esasperazione dell’uomo bianco.
Questo processo di iper-individualizzazione della violenza di genere, svuotata della sua natura strutturale, per proteggersi da qualunque critica, elude che la società italiana, nel suo complesso (le sue istituzioni, i suoi cittadini), è strutturata in rapporti sociali di genere diseguali. Dimentica la socializzazione differenziale dei sessi a scuola, guarda la donna africana incatenata, dimentica i “vestita così un po’ se l’è cercata”, guarda il velo, dimentica la violenza domestica, guarda i matrimoni forzati, dimentica Agitu Gudeta, guarda Saman Abbas, dimentica i Family Day, guarda l’Islam. L’ipervisibilità del sessismo degli uomini non bianchi è la culla dell’invisibilizzazione del sessismo dell’italiano prototipo.
Percepita come un valore intrinseco al modello occidentale dominante, e non come un progetto che anche l’Occidente deve ancora costruire e portare a punto, l’uguaglianza di genere diventa lo strumento di una doppia discriminazione. Non solo verso le persone di origine straniera (estraneità effettiva o presunta che sia), ma verso tutte le donne. Attribuendo più sessismo ai gruppi razzializzati e accusando l’altro di un sessismo più forte e serio, si rafforza tanto il razzismo quanto il sessismo ordinario, eclissato da questa continua negazione dei membri del noi come partecipanti attivi a questi meccanismi. È il mito dell’uguaglianza già acquisita.
Lungi da me voler illudere che il patriarcato nelle sue modalità sia universale. Il sessismo è costruito secondo le strutture delle società in cui si svolge, non può perciò essere staccato dalla storia e dai rapporti economici che le governano. Se la denuncia della violenza di genere è legittima e necessaria, è importante anche scovare e sradicare i mezzi impiegati per lavarsi le mani dalla responsabilità sociale, di cui tutti dobbiamo farci carico per trovare soluzioni concrete a questo tipo di problema.
L’attenzione sproporzionata dei media sulla violenza contro le donne a opera degli “stranieri” porta a una stigmatizzazione di tutti gli uomini immigrati e dei loro figli. Ciò non solo rafforza il razzismo, ma produce anche un complesso sistema di vincoli per le donne immigrate e le loro figlie, sottoponendole a ingiunzioni paradossali: da un lato difendere gli uomini delle loro comunità dal razzismo, dall’altro combattere contro il maschilismo e la sopraffazione a cui sono soggette da tutti i fronti.
Così facendo diventa ancora più difficile riuscire a denunciare e rendere legittime le lotte di cui siamo portavoce. D’altronde, in quanto interne a questa cultura (subalterna), è la nostra norma. Anzi quante volte, proprio per questo, ci si aspetta che siamo più accondiscendenti con l’autorità maschile? Al lavoro permettendo al padrone di sfruttarci senza fiatare, oppure per strada, quando senza troppi giochi di parole ci viene proposto un servizietto in cambio di un “50” o perché “ti faccio avere il permesso di soggiorno”?
Il confronto tra il sessismo in Italia e quello dell’altro, quando si traduce nell’attribuirlo a priori a quest’ultimo, porta anche alla differenziazione di altri sistemi gerarchici: classe e sessualità. “Abusi di Capodanno: quei giovani di periferia a caccia di una notte da padroni”: così titola Repubblica, sottintendendo una tendenza degli uomini di classe bassa a commettere atti di violenza, come per ottenere un riscatto. La democrazia sessuale definirebbe il confine tra centri urbani e periferie. E così prendono forma e vengono legittimati i discorsi securitari come quello dello stesso sindaco di Milano Giuseppe Sala, che prima ha sottolineato che “Gran parte del branco arriva da fuori Milano”, poi ha affermato: “Porterò in Giunta nei prossimi giorni una delibera per assumere 500 vigili, lo avevo promesso in campagna elettorale. E spero che lo stesso faccia la polizia di Stato. Serve più gente sul territorio”.
I media hanno colto l’immagine dell’uomo straniero svantaggiato, che vive in condizioni precarie, per costruire la sua etno-rappresentazione, non di uno strato sociale, ma di una “razza”. La mancanza di copertura mediatica delle classi medie di famiglie con background migratorio, le cui condizioni di vita sono uguali a quelle delle famiglie di bianchi italiani di classi equivalenti, ne è la prova. Nella costruzione dell’immagine del bianco italiano i media applicano il processo opposto: i poveri sono accuratamente nascosti all’occhio della telecamera. È attraverso questo gioco diseguale e asimmetrico che le rappresentazioni così costruite rendono i bianchi una “razza dei signori” e gli altri una “razza di emarginati e selvaggi”. Il dramma dell’immigrato, specialmente se africano, e della sua stirpe è quello di un soggetto che soffre la fatalità dell’immagine, confezionato in rappresentazioni già stabilite, che consentono di non affrontare mai la propria realtà.
L’“uguaglianza” può essere proclamata come il valore centrale e inevitabile del modello occidentale, ma è più un auspicio che una realtà. L’attribuzione del sessismo all’altro consente di distogliere un occhio da questa realtà, intrisa di ingiustizie. Inoltre, definendo gli immigrati più sessisti e le loro mogli o figlie come più sottomesse dei nativi, a causa della “loro” cultura patriarcale — una seconda natura di cui non possono più liberarsi — otteniamo un vero tour de force: gli uomini italiani sarebbero egualitari, le donne italiane sarebbero libere. Attraverso questa strumentalizzazione delle problematiche di genere, queste rappresentazioni sviluppate al crocevia tra razza e relazioni sessuali, il “modello occidentale” può affermarsi come modello di uguaglianza, pretendere di essere universale e imporsi agli altri. Ma, in ultimo, l’illusione dell’uguaglianza non ha che un solo obiettivo: giustificare e mantenere il dominio reciproco.
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Di Marina Nasi su Valigia Blu
Tra le varie forme di discriminazione, quella su base linguistica non ha avuto finora molta risonanza, penalizzata tanto dalla difficoltà di isolarla da altre istanze, quanto dai diversi modi in cui può presentarsi. Negli ultimi tempi però il dibattito è aumentato esponenzialmente, e sempre più si parla di “linguistic discrimination” e delle sue varie sfumature e accezioni: linguistic profiling, slam ban, glottofobia, accent discrimination, accentism, ethnic accent bullying, linguistic stereotyping, razzismo linguistico.
La discriminazione linguistica consiste nel giudicare e trattare negativamente qualcuno sulla sola base dell’uso del suo linguaggio, che si tratti di accento, pronuncia o anche uso di vocabolario e sintassi. In pratica, si tratta degli stereotipi e dei bias che associamo, spesso inconsapevolmente, al modo di parlare di una persona. E per le molte persone che si esprimono in modo dissonante da quella che è percepita, spesso arbitrariamente e sulla base di una serie di privilegi, come la norma, questi possono avere un impatto forte sul lavoro, all’università, nella vita sociale, addirittura nel cercare casa. Per esempio, uno studio inglese riporta una candida evidenza: nei colloqui di lavoro, chi parla con un accento regionale e/o working class ha meno possibilità di essere considerato. Lo studio evidenzia anche questo tipo di pregiudizio è più comune da parte degli over 40.
La lingua che parliamo è inevitabilmente legata alla nostra identità ed esposta a interpretazioni, in quanto riflesso di provenienza, cultura, livello di scolarizzazione, origine geografica. Il problema è che queste interpretazioni possono essere tanto rapide quanto pregiudizievoli, e incidere pesantemente sul modo in cui è percepita e trattata una persona. Questo è particolarmente vero, per esempio, nel caso dell’Inglese, lingua dominante per eccellenza, e piuttosto dibattuto nel Regno Unito, dove è forte il collegamento fra lingua e status sociale, e dove la cosiddetta Received Pronunciation (RP) è tuttora percepita da molti come la pronuncia ideale della classe dirigente, o comunque come l’accento a cui aspirare. Un vero e proprio accento sociale.
La definizione di Received Pronunciation è stata codificata nel 1926 dal fonetologo Daniel Jones, nella seconda edizione dell’English Pronouncing Dictionary. Ma il concetto era già stato introdotto nell’edizione originale del 1917, che lo definiva “Public School Pronunciation”: è infatti nelle scuole private (che in Inghilterra sono chiamate Public Schools) che viene appreso questo accento. E nonostante abbia assonanze soprattutto con le pronunce del Sud e in particolare con quelle di Londra, Oxford e Cambridge, è considerato una sorta di accento neutro e non regionale, il frutto dell’innalzamento culturale e sociale offerto dalle migliori scuole. Anche se non si tratta esattamente di sinonimi, la RP è spesso associata al cosiddetto “Queen’s English”, ovvero l’inglese parlato dal membro “più alto” della società.
Inserendo “Received Pronunciation” su un motore di ricerca, tra le prime immagini compare quella di Lucy Bella Simkins, influencer ed edutuber da oltre sei milioni di follower con il suo canale English with Lucy, attraverso i cui popolarissimi video insegna, affina e allena il “Beautiful British English”. L’anno scorso, l’insegnante ventisettenne è stata al centro di un’aspra polemica social esplosa dopo la pubblicazione di un video (poi rimosso) in cui elencava dieci termini usati in contesti accademici o lavorativi, spiegando come non andassero pronunciati se si voleva “suonare intelligenti e professionali”. Già in precedenza, un’altra video-lezione dell’insegnante del Cambridgeshire, entusiasticamente ripresa dal Daily Mail, spiegava gli errori linguistici da evitare per “non sembrare stupidi”. Dopo i commenti negativi di diversi linguisti, tra cui Rob Drummond dell’Università di Manchester, Simkins ha prodotto un video di scuse e si è presa una pausa prima di riprendere a pubblicare, in cui oggi è più attenta a mostrarsi aperta alle varietà regionali.
Oggi nella popolosa comunità dei docenti di inglese per stranieri (ELS, English as a Second Language) si discute molto di come evitare di identificare la lingua ideale al privilegio bianco, e di trovare un compromesso tra l’insegnamento di una lingua standard e l’inclusione tanto degli accenti regionali quando del contributo dato al “global english” da parlanti indiani o nigeriani (sia in India sia in Nigeria l’Inglese è lingua ufficiale). E in rete spuntano progetti come The accentism project, archivio aperto digitale di episodi di discriminazione linguistica, o articoli come questo di Refinery 29, in cui la “equality reporter” Jasmine Andersson racconta di come il suo accento dello Yorkshire l’abbia fatta sentire mortificata e sminuita all’Università.
L’ultimo episodio però è arrivato sulle pagine del Guardian, che ha reso pubblica una lista di parole proibite circolata in una scuola media di Londra Sud, la Ark All Saints Academy. Nella lista nera di cosa non pronunciare in classe, comparivano quasi soltanto modi di dire collegabili al cosiddetto British Black English, o patois, cioè l’inglese parlato dalla foltissima comunità afrocaraibica. Incidentalmente, la Ark All Saints si trova a Clarkenwell, quartiere multietnico con una lieve prevalenza di abitanti afrodiscendenti. La preside della scuola si è giustificata dicendo che le espressioni bandite erano state selezionate perché trovate in molti compiti dei ragazzi, e che l’idea era quella di incoraggiare gli studenti a esprimersi in modo più chiaro e accurato. Ma secondo il senior lecturer Marcello Giovanelli del ClaRA (Centre for Language Research at Aston) di Birmingham, si tratta di un episodio indicativo di un problema più complesso:
“Anche in questo periodo in cui c’è tanta attenzione a non discriminare, troviamo ancora stranamente accettabile l’idea di discriminare base alla lingua. Se dici che c’è un inglese buono e uno cattivo, implicitamente affermi che alcune persone vanno bene e altre no. Questa forma di limitazione linguistica, questa sorta di ‘slang ban’ (la messa al bando dello slang, ndr), crea problemi alle persone riguardo il modo in cui si percepiscono, impatta sul loro senso di sicurezza, sul pensarsi all’altezza di qualcosa. Di fatto è un tentativo di controllare il linguaggio, di buttare via quello che sembra poco utile.”
Non è la prima volta che in Inghilterra viene promosso un certo tipo di inglese percepito come norma, come l’ideale da perseguire per raggiungere innalzamento sociale e successo accademico. Un famoso ministro conservatore degli anni ’80, Norman Tebbit, è rimasto celebre per avere associato il presunto declino dell’inglese corretto al proliferare del crimine. Prosegue Giovanelli:
“È un fenomeno che va a cicli, che si ripete, e guarda caso sempre in presenza di governi conservatori. Norman Tebbit incoraggiava a parlare in un certo modo, a riprendere le gare di grammatica. Apparentemente sembra un modo di aiutare tutti gli studenti ad innalzare il loro livello, ma di fatto è una forma di controllo: la si incasella come tentativo di migliorare tutti, ma in realtà sposta la responsabilità sociale dal governo alla lingua, al modo in cui una persona parla. Come dire: «Non vivi in un contesto svantaggiato per via delle scelte politiche, ma per come pronunci l’inglese»”.
Se la scuola e la società sembrano ancora legate a un’idea rigida e normativa, per quanto in evoluzione e ora anche in discussione, di quella che dovrebbe essere la lingua corretta da usare, la letteratura va in un’altra direzione, come dimostra il successo di scrittrici come Bernardine Evaristo. Evaristo ha vinto il Booker Prize per Ragazza, donna, altro, storia di 12 personaggi quasi tutti femminili e afrodiscendenti, e la ricchezza espressiva dei suoi registri stilistici mescola poesia, slang e tradizione orale. Anche nel precedente romanzo Mr Loverman, ambientato nella comunità creola di Londra, l’autrice inglese di origine nigeriana si era immersa nello studio del modo di parlare e degli “errori grammaticali” del patois anglo-caraibico. Usando molte di quelle espressioni che probabilmente figurerebbero nella lista nera della Ark All Saints.
Negli Stati Uniti la situazione non è troppo diversa: sono frequenti gli annunci di lavoro che richiedono un “accento neutrale” e a fare le spese della discriminazione linguistica sono soprattutto gli appartenenti a minoranze etniche. Il problema non è nuovo: ha fatto scuola lo studio del 2000 di John Baugh della Stanford University, in cui Baugh individuava la profilazione razziale su base dell’accento tanto nelle telefonate ad agenti immobiliari quanto nelle aule di tribunale.
Vittime di commenti tra parodia e bullismo sono anche gli accenti degli Stati del Sud. E addirittura a Hollywood si discute di come gli attori con un accento, specie se straniero, siano sempre limitati dal typecasting.
Sempre in ambito cinematografico, la commedia nera del 2018 Sorry to bother you ha come protagonista (interpretato da Lakeith Stanfield) l’addetto di un call center di telemarketing che scopre il modo migliore per smettere di essere respinto dai clienti e iniziare a fare affari: suonare bianco. Il concetto di “voce da bianco”, del resto, era già stato esplorato dal protagonista di Blackkklansman di Spike Lee. E non c’è troppo da ridere: il cosiddetto “code switching”, ovvero la necessità di rimodulare il proprio codice espressivo e comunicativo per farsi accettare dal gruppo dominante, è un fenomeno presente soprattutto tra gli african american ed è stato associato a problemi di stress e salute mentale.
A testimonianza del fatto che il fenomeno è globale, alcune settimane fa in India è bastato pubblicare su Twitter il commento inopportuno di un addetto al call center di Zomato (la più importante app di delivery del subcontinente, presente anche in Italia ma solo a Roma e Milano) per fare esplodere un caso nazionale. I fatti: un cliente del Tamil Nadu contatta l’assistenza di Zomato per un problema di consegna, l’addetto chiama il ristorante ma non riesce a interagire con nessuno del personale perché tutti parlano solo in lingua Tamil; a questo punto l’assistente liquida la faccenda dicendo al cliente che tutti in India dovrebbero parlare almeno un po’ della «lingua nazionale», l’Hindi. In realtà l’India ha 28 lingue ufficiali, né l’Inglese né l’Hindi sono obbligatori, e dopo la pubblicazione su Twitter di questo piccolo scambio moltissimi utenti hanno protestato, con tanto di hashtag #boycottZomato. L’azienda ha già pubblicato le sue scuse, in Hindi e in Tamil.
Quello che dall’esterno potrebbe essere superficialmente liquidato come l’incidente da poco che causa una reazione sproporzionata, però, va contestualizzato nell’attuale situazione politica indiana, in cui la discriminazione su base linguistica ha un posto rilevante. Come spiega Rita Cenni, corrispondente per l’Ansa sull’India:
«L’episodio di Zomato si inserisce all’interno di un problema molto serio. L’attuale governo, così estremista sull’induizzazione del Paese, fa di tutto per imporre religione e cultura Indu, così come la lingua Hindi. Quindi è vero che esiste una grande discriminazione nei confronti delle minoranze. L’Indi è parlato solo nel Centro-Nord, ma tutti gli altri stati rivendicano con orgoglio le proprie lingue nazionali. Il partito attualmente al governo sta cercando di portare l’India, che era sempre stata un melting pot di lingue, etnie e religioni, tutta di un solo colore, tutti Indu, cosa che in questo paese non è mai esistita».
E in Italia? Da noi ci sono diversi ordini di problemi. C’è la profilazione linguistica, che porta molte persone con accenti stranieri a venire respinte alla prima telefonata da agenti immobiliari, senza neanche avere la possibilità di vedere una casa o di farsi conoscere. E ci sono le difficoltà di inserimento scolastico per alcuni studenti di origine estera, anche se nati qui. Ne parla uno dei pochi studi nostrani sul tema, che ha preso in esame alcuni istituti scolastici toscani e l’atteggiamento nei confronti degli studenti che parlano un Italiano “non nativo”, in particolare quelli appartenenti alla comunità sino-italiana. Lo studio evidenzia la presenza significativa di pregiudizi nei confronti di chi parla italiano con accento cinese, da parte tanto di professori quanto di allievi. Inutile dire che se da noi il problema non è ancora sotto i riflettori è soltanto perché siamo più indietro dei paesi citati in termini di multilinguismo e multiculturalismo. Nel frattempo, però, vale la pena di domandarsi se prendere in giro una persona per come parla l’italiano, o anche l’inglese, sia una cosa sana da fare.
Gli europei di calcio sono stati, tra le altre cose, una fiera di simboli. Tra questi si è diffusa un’immagine che parla più delle parole che si vorrebbero forzare sulla pelle del suo soggetto: un bambino, nero, immortalato mentre in un momento di gioia sbandiera il tricolore per festeggiare insieme agli altri la vittoria sudata contro gli inglesi. Il suo corpo in breve diventa simbolo politico. Sui profili su cui gira la sua immagine si parla di prova di integrazione, di inclusione, di appartenenza. “Questa è l’Italia!” gridano.
Paradossale l’uso strumentale di un bambino, che nel quadro in cui è ritratto e per come viene raccontata l’immagine appare come una anomalia, una irregolarità di un ordine costituito, un vessillo per rivendicare una famigerata normalità. Paradossale quanto esplicativo di una realtà piuttosto deludente.
Sì l’Italia è questa. È quella tendenza all’”io non vedo i colori”, detto sbrigativamente per liquidare qualsiasi discorso cerchi di sviscerare i meccanismi attraverso cui il razzismo si manifesta, per evitare di veder messi in discussione i propri a priori. È quel paese in cui, sia a destra che a sinistra, i corpi neri e migranti diventano mezzi, strumenti utili talvolta a sanare questa e quella crisi economica (le famose “risorse”), talvolta per guadagnare consensi elettorali su promesse vuote, per poi decidere di rifinanziare chi partecipa in primo luogo alle loro sofferenze.
Quella foto è esemplificativa di come il dibattito pubblico attorno al razzismo in Italia abbia ancora forme elementari in cui, spesso, la lotta contro le discriminazioni si riduce a una constatazione passiva delle realtà più clamorose. Una performance sociale attorno alla quale gravita un alone di deresponsabilizzazione costante.
Qualsiasi tentativo di analisi che cerchi di andare alla radice del problema, che affianchi al piano istituzionale (come ad esempio la legge Bossi-Fini e le sue problematiche) anche una critica delle dinamiche individuali, una denuncia delle micro-aggressioni quotidiane e delle insidie del linguaggio politico-mediatico attorno all’immigrazione, viene visto come un’estremizzazione “inutile” del dibattito, specialmente se fatto dalle minoranze etniche stesse.
“L’Italia non è un paese razzista”
“Siamo il paese meno razzista d’Europa”
“Gli italiani non sono razzisti, sono solo stanchi”
A ripetercelo nelle tv, sui giornali, sui social, alle conferenze, sono italiani bianchi di sangue ai quali cittadinanza, uguaglianza, costruzione identitaria e appartenenza sono date per scontate, coloro per cui le battaglie (degli altri) rimangono teoriche, questioni filosofiche su cui dibattere ponendo la propria voce e le proprie prospettive al centro della discussione.
Lo storico e ricercatore Angelo del Boca, massimo studioso del colonialismo italiano, analizzò il processo di mitizzazione dell’italiano, che per secoli ha usato il sotterfugio della clemenza, il mito dell’italiano buono, per ripulirsi la coscienza dalle atrocità che ha compiuto e che continua a compiere, scriveva nel suo saggio Italiani brava gente?:
“Il mito degli «italiani brava gente», che ha coperto tante infamie, […] appare in realtà, all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico”
“Anziché essere turbati per l’universo disumano che avevano creato, ne erano palesemente fieri. Ciò emerge chiaramente dai documenti ufficiali come dalla corrispondenza privata. Questa fierezza era associata alla convinzione che soltanto gli italiani, per il loro carattere aperto, bonario, tollerante, erano in grado di portare gli indigeni a un grado superiore di civiltà. Riaffiorava dunque anche in Africa, e si imponeva subito con vigore, il mito dell’italiano «buono», «bene accetto», «non razzista», «accomodante»”
Il negazionismo odierno, quindi, dipenderebbe da un mancato processo di decolonizzazione, di analisi e decostruzione dei retaggi storici di quelle pagine di storia che ancora si fatica a riconoscere.
Possiamo vederlo all’opera nelle frasi di chi, da tipico salvatore bianco, invita gli “stranieri” a essere grati all’Italia per la sua accoglienza e a non lamentarsi della propria condizione; di chi afferma che in Italia il razzismo,“quello vero”, non esiste perché “ci sono solo alcuni ignoranti”; di chi, infine, pur riconoscendo in alcune persone atteggiamenti discriminatori, rifiuta di mettere in discussione i propri preconcetti e analizzare i modi in cui egli stesso potrebbe contribuire a quel sistema al quale vorrebbe essere contrapposto.
Ne risulta una miopia selettiva caratteristica non solo nelle destre, che si nascondono dietro ai nazionalismi per fare le loro uscite palesemente xenofobe, ma anche del benaltrismo di chi da “sinistra” vorrebbe farsi portavoce dei diritti degli ultimi.
Analizzare le diverse modalità in cui i fenomeni sociali si manifestano nel contesto specifico del proprio paese, evitando l’assimilazione acritica delle battaglie altrui, è quanto di più corretto per trovare soluzioni coerenti e dunque efficaci. Vivere nella negazione, estraniandosi da una realtà evidente, non aggiunge nulla alla discussione, ma dà ancora più spazio alla discriminazione, che viene allora percepita come normalità, rendendo chi preferisce la cecità esso stesso parte integrante del problema.
Il razzismo in Italia dilaga da anni: traspare nel modo in cui si percepisce, rappresenta e racconta l’altro, sia egli effettivamente straniero nella terra in cui abita o italianissimo.
Le storie di Jerry Boakye, 34 anni morto l’anno scorso dopo aver passato gli ultimi tre anni della sua vita paralizzato in seguito ad un’aggressione razzista su un autobus, quella di Musa Balde suicida nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Torino, di Edith picchiata da 6 donne e poi discreditata dall’infermiera che l’ha soccorsa o ancora Soumaila Sacko ucciso dai caporali per aver denunciato le condizioni di schiavitù in cui vertevano lui, i suoi compagni e molti altri come loro in Italia, sfruttati nella loro situazione di precarietà per portarci i pomodori a basso costo in tavola, sono solo la parte più evidente di un sistema ben radicato.
Il razzismo si manifesta quotidianamente, quando la gente non si fa problemi a perpetrare ignoranza e xenofobia davanti a te perché non si stanno riferendo a te, perché tu sei diversa, tu “non sembri africana”, perché non incarni lo stereotipo di persona africana che hanno dipinto nella mente. Quando entri in un ufficio e la prima cosa che ti chiedono è “parli italiano?”, anche qualora tu in Italia ci fossi nato, perché il nero — sempre rappresentativo di una pluralità — è ovviamente solo l’immigrato, non “integrato”, che non può avere una conoscenza adeguata della lingua. Quando una ragazza con il velo viene additata di essere terrorista per strada, tra le risate di chi ascolta.
Il razzismo è istituzionalizzato quando i bandi per posti di lavoro nel settore pubblico sono quasi tutti riservati ai soli titolari della cittadinanza italiana e, per legge, nessun cittadino non italiano può esercitare mansioni che necessitino di qualifica dirigenziale, quei lavori che “implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri”.
Il razzismo è culturale quando modi di dire come “lavorare come un ne*ro” fanno parte del nostro linguaggio quotidiano.
In quelle televisioni, dove sfilano con fierezza politici e opinionisti a dirci che in Italia non vi è un grosso problema di iniquità sociale legato all’etnia dei suoi cittadini (o meglio residenti perché il titolo di “cittadino” è un lusso ancora per pochi), quanti giornalisti non bianchi conoscete? Conduttori? Meteorologi? Comici?
Il velo di Maya che ognuno si crea per deresponsabilizzarsi non cancella la realtà a cui devono far fronte gli immigrati e i loro figli, perfettamente allineata alla loro perenne condizione di “diversi”, alieni in una narrazione sempre in terza persona. Chi emigra resta per tutta la vita sotto processo. E in questo processo, spesso ad andare a giudizio sono le colpe dei padri e delle madri trasferite su figli innocenti. Il peccato originario è eterno. È il colore della tua pelle, i tuoi capelli, i tuoi tratti che ti tradiscono.
Ciò che si perde a volte anche nell’attivismo antirazzista in Italia è la critica strutturale del razzismo, che non riguarda solo i leader populisti e le loro esternazioni esplicitamente discriminatorie.
Viviamo in un paradosso in cui risulta più scomodo parlare di razzismo che essere razzisti. La metà delle volte in cui parlo della mia esperienza in quanto donna nera in un contesto sociale in cui l’etnia ha ancora valore predominante nei rapporti interpersonali e non, mi sento rispondere “non tutti gli italiani” e per l’altra metà “ma questo succede a tutti, non solo ai neri/immigrati”.
La difficoltà di molti nel capire che ci siano esperienze statisticamente più comuni tra un gruppo di persone, perché questi soggetti hanno delle caratteristiche che spingono gli altri a quei comportamenti nei loro confronti, rappresenta la nostra difficoltà nell’arginare i problemi che ne derivano.
Ciò che emerge da questa tendenza a difendere, contestare, minimizzare o ignorare le esperienze dei diretti interessati è una sorta di fragilità razziale (ovvero la tendenza a sentirsi minacciati ogni volta in cui vengono messi in discussione i propri preconcetti su razza e razzismo) estremamente dannosa, a partire dal fatto che ogni critica al sistema viene percepita come attacco personale.
Cercare di mettere in discussione gli atteggiamenti razzisti considerati rilevanti — sempre da altri e mai dai diretti interessati — nella retorica politica mainstream è lecito, ma far sentire a disagio il tuo interlocutore, implicando una sua responsabilità nel sistema dominante in cui si inserisce e di cui assimila il punto di vista, è inammissibile.
La lotta per i tuoi diritti va bene fintanto che è cauta, poco fastidiosa e magari anche silenziosa.
Questa tendenza a vedere le rivendicazioni odierne come inutili o troppo estreme parte dalla convinzione piuttosto diffusa che oramai le lotte “vere e proprie”, quelle d’altri tempi, siano ormai superate e che ciò che permane siano solo degli echi di una realtà non più attuale e quasi superata, che non necessitano della stessa ferocia e degli stessi mezzi.
Ogni secolo ha i suoi moderati, i suoi “veri combattenti”, quelli che sanno meglio di te come portare avanti le tue battaglie, poiché imparziali e razionali.
Ogni secolo ha, quindi, il suo “moderato bianco” colui che “ha a cuore l’ordine più della giustizia; che preferisce la pace negativa, ossia l’assenza di tensioni, a una pace positiva, ossia la presenza della giustizia; che dice sempre: «Sono d’accordo con voi per quanto riguarda gli obiettivi che vi prefiggete, ma non sono d’accordo con i vostri metodi di azione diretta»; che crede, nel suo paternalismo, di poter essere lui a determinare le scadenze della libertà di un altro; che vive secondo un concetto mitico del tempo e continua a consigliare ai neri di attendere un momento più propizio”.
Il moderato bianco qui descritto da Martin Luther King nella lettera aperta scritta durante i suoi giorni di prigionia a Birmingham nel 1963, è colui che oggi parla di polarizzazione politica come causa di fratture nella società, delle lotte delle minoranze come temi divisivi, chi dice “giusto battersi per questo, ma forse ci sono temi più importanti di cui occuparsi ora” oppure chi, di fronte alle accuse di razzismo nei confronti di un soggetto (pubblico), invita alla cautela, ad analizzare le intenzioni del soggetto in questione piuttosto che il gesto stesso e le sue conseguenze.
Quando si tratta di razzismo o di qualsiasi altra forma di oppressione, la tendenza a voler giustificare le sue manifestazioni con argomenti inerenti alla moralità è piuttosto comune.
«Non era fatto con cattiveria!»
«Non è per niente razzista, non voleva offendere!”
Invocare un’intenzione mal compresa è in realtà un processo comune che scredita la rabbia di chi viene costantemente sottoposto alle conseguenze di queste azioni.
Perché, quando parliamo di razzismo e dei suoi soggetti correlati, diamo tanta importanza all’intento che si nasconderebbe dietro all’atto razzista? Perché l’accusa di razzismo è quasi sistematicamente percepita come un difetto inconfessabile.
Dire a qualcuno che sta mettendo in atto comportamenti razzisti o pregiudizievoli e sottintendere una qualche sua responsabilità diretta in queste dinamiche, si configura come una dichiarazione di guerra, un requisito sufficiente perché chi subisce passi dalla parte del torto.
Tuttavia, il razzismo è raramente circoscritto entro i limiti rappresentati da individui fondamentalmente malvagi (e infatti, poche sono le persone che ancora credono alle teorie gerarchiche della razza del XXI secolo).
“L’intenzione” ha poca importanza in questo contesto: quello che interessa è chiedersi cosa rende le nostre società così permissive riguardo al razzismo, è capire perché nonostante quasi tutti si dicono pronti a condannarlo, questo continui ad affermarsi attraverso politiche razziste, e a condizionare i nostri rapporti sociali.
Focalizzarsi sull’intenzione cancella le interconnessioni sistemiche all’interno dei processi individuali e collettivi che determinano il razzismo. Così facendo non ci interroghiamo sulle condizioni di produzione ed esistenza del razzismo. Allo stesso modo dichiararsi “non razzista” serve a poco. Non è altro che una dichiarazione di neutralità che maschera la deresponsabilizzazione verso queste questioni e, soprattutto, permette di liquidare tutti gli interrogativi riguardo ai rapporti di forza in gioco.
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