Questa è una sintesi di quanto detto da Vincent Cochetel, inviato speciale dell’UNHCR per la situazione del Mediterraneo occidentale e centrale – a cui il testo citato può essere attribuito – durante il briefing alla stampa tenutosi oggi al Palazzo delle Nazioni di Ginevra.
La mancanza di servizi di protezione sulle principali rotte utilizzate da rifugiati e migranti è allarmante e si è aggravata rispetto agli ultimi anni, secondo un rapporto di mappatura pubblicato oggi dall’UNHCR, l’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati.
Ogni anno, centinaia di migliaia di rifugiati e migranti rischiano la vita per spostarsi sulle rotte che si estendono dall’Africa orientale e dal Corno d’Africa e dall’Africa occidentale verso la costa atlantica del Nord Africa e attraverso il Mar Mediterraneo centrale verso l’Europa. Oltre agli africani, tra coloro che arrivano in Nord Africa ci sono anche molti rifugiati e migranti asiatici e mediorientali, provenienti da Paesi come Bangladesh, Pakistan, Egitto e Siria.
Gli orrori affrontati dai rifugiati e dai migranti lungo queste rotte sono inimmaginabili. Tragicamente, molti di loro muoiono durante l’attraversamento del deserto o in prossimità delle frontiere, e la maggior parte subisce gravi violazioni dei diritti umani durante il viaggio, tra cui violenze sessuali e di genere, rapimenti a scopo di riscatto, torture, abusi fisici, detenzioni arbitrarie, traffico di persone ed espulsioni collettive. Tuttavia, i servizi di protezione che possono aiutare a fornire alternative ai viaggi pericolosi o a mitigare le sofferenze dei rifugiati e dei migranti lungo le rotte che percorrono sono gravemente carenti.
I risultati di questa terza edizione del “Rapporto sulla mappatura dei servizi di protezione (un approccio basato sulle rotte per i servizi di protezione lungo le rotte dei movimenti misti)” dell’UNHCR evidenziano una significativa discrepanza nel livello dei servizi forniti nei diversi segmenti delle rotte che sono state mappate.
I servizi di protezione, come l’assistenza umanitaria immediata, l’alloggio, i meccanismi di rinvio ai servizi dedicati e l’accesso alla giustizia, spesso non sono disponibili negli snodi dei movimenti misti noti e nei punti di transito nelle aree difficili da raggiungere, anche nel deserto del Sahara. Purtroppo, i partner locali che hanno accesso a questi luoghi spesso non vengono presi in considerazione dai donatori o non vengono considerati prioritari per i finanziamenti; e i partenariati operativi con le autorità locali sono quasi inesistenti.
Il rapporto documenta anche l’impatto negativo di nuove crisi, come i conflitti in Sudan e nel Sahel, sulla disponibilità di risorse da dedicare alla fornitura di servizi di protezione. La mancanza di finanziamenti sostenuti minaccia ulteriormente i limitati servizi attualmente disponibili.
L’assenza di servizi essenziali espone i rifugiati e i migranti a un grande rischio di danni e di morte, oltre a innescare pericolosi spostamenti secondari. Alcuni rifugiati e migranti sottovalutano i rischi, mentre molti sono vittime delle informazioni manipolate da contrabbandieri e trafficanti.
Per questo motivo, l’UNHCR chiede ai donatori e alle parti interessate di sostenere gli interventi umanitari e di rinnovare la localizzazione degli sforzi, in cui tutti gli attori umanitari e dello sviluppo e i donatori collaborano per aumentare la disponibilità e le capacità dei servizi in luoghi mirati. Ciò include un migliore accesso ai percorsi legali di sicurezza e il miglioramento dei servizi di protezione per le vittime e per coloro che rischiano di diventarlo lungo le rotte.
È inoltre necessario potenziare i meccanismi di impegno e comunicazione della comunità a livello nazionale e tra le comunità della diaspora per diffondere informazioni sui pericoli dei viaggi, sfatare la falsa narrativa fornita da contrabbandieri e trafficanti e contribuire a trasmettere informazioni sulla disponibilità di percorsi alternativi sicuri e legali, come il ricongiungimento familiare e i servizi di protezione e assistenza.
Nota per gli editori:
Il rapporto “Mapping for Protection Services Report, a routes-based approach to protection services along mixed movement routes” fornisce informazioni personalizzate per rifugiati e migranti sui servizi attualmente disponibili sulle diverse rotte. Serve anche come riferimento per i donatori per indirizzare gli investimenti in risorse dove sono più necessarie e per gli attori più adatti a fornire questi servizi essenziali. La copertura geografica di questa edizione è stata ampliata a 15 Paesi (Algeria, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gibuti, Egitto, Etiopia, Libia, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Somalia e Sudan).
Copyright: © UNHCR/Fabio Bucciarelli
E’ stato presentato a Roma il quinto rapporto “Africa MediaTa“, realizzato dall’Osservatorio di Pavia per Amref Italia. Il rapporto è basato su un’attività di monitoraggio dei media, tesa a definire quanto e come si parla di Africa sui media italiani.
Da un punto di vista quantitativo le notizie sull’Africa sono poche, da un punto di vista qualitativo si può notare che sono spesso incentrate sull’immigrazione, su fatti di cronaca e marginalità, alimentando una narrazione allarmistica e distorta degli africani e degli afrodiscendenti.
L’edizione 2024 è focalizzata in particolare sull’attivismo giovanile e femminile africano nei programmi televisivi e sui social network rispetto ad alcune questioni rilevanti come l’ambiente, la salute, l’arte e la cultura. Anche in questo caso è stato rilevata la scarsa presenza di attiviste e attivisti africani.
Leggi qui il Rapporto
Da quali paesi proviene la maggior parte delle persone rifugiate presenti in Italia? Nei primi 9 mesi del 2023, qual è la percentuale di minori tra coloro che sono costretti a fuggire dalle proprie case? Negli ultimi dieci anni il numero di persone costrette a fuggire da guerre e persecuzioni è aumentato? 10 domande per scoprire quanto conosci l’argomento.
A cura di redazione
Realizzato in collaborazione con
Welcome to your Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
Time's up
Si è chiuso ieri a Ginevra il Forum Globale sui Rifugiati. L’UNHCR evidenzia l’entità dell’onere e della responsabilità a favore delle persone in fuga nel mondo ed i progressi in materia di inclusione, per i quali è necessaria però un’azione più ampia.
In occasione del Forum Globale sui Rifugiati che si è chiuso ieri a Ginevra, l’UNHCR, Agenzia ONU per i rifugiati, evidenzia i dati del Rapporto sugli indicatori del Patto Globale sui Rifugiati 2023 che mostrano i progressi sostenuti su quattro obiettivi chiave: alleggerire la pressione sui Paesi ospitanti, migliorare l’autosufficienza dei rifugiati, ampliare l’accesso alle soluzioni dei Paesi terzi e sostenere le condizioni nei Paesi d’origine. Il documento valuta i progressi compiuti rispetto agli impegni assunti dal 2019 e offre indicazioni per colmare le lacune in materia di istruzione, occupazione e inclusione.
Alla fine di giugno erano 110 milioni le persone costrette alla fuga a livello mondiale, 1,6 milioni in più rispetto alla fine del 2022[1]. L’UNHCR stima che, nel trimestre da giugno a settembre, il numero di persone costrette a fuggire è cresciuto di 4 milioni, portando il totale a 114 milioni. Oltre la metà delle persone in fuga nel mondo non varca mai frontiere internazionali. A metà del 2023, erano 36,4 milioni i rifugiati. L’87% proviene da soli 10 Paesi: Siria (6.5 milioni), Afghanistan (6.1M), Ucraina (5.9M), Venezuela (5.6M), Sud Sudan (2.2M), Myanmar (1.3M), Sudan (1M), Repubblica Democratica del Congo (948.400), Somalia (814.600), Repubblica Centrafricana (750.900). Poco più della metà dei rifugiati nel mondo sono oggi afghani, siriani o ucraini. Il numero dei rifugiati nel mondo è più che raddoppiato dal 2016. In soli due anni, la proporzione sulla popolazione mondiale è cresciuta da 1 rifugiato ogni 400 persone a 1 ogni 200.
La condivisione delle responsabilità rimane altamente iniqua: il 55% dei rifugiati è ospitato in soli 10 Paesi: Iran (3.4 milioni), Turchia (3.4M), Germania (2.5M), Colombia (2.5M), Pakistan (2.1M), Uganda (1.5M), Federazione Russa (1.2M), Polonia (989.900), Perù (987.200), Bangladesh (961.800). La maggior parte (il 69%) delle persone in fuga da conflitti e persecuzioni rimane nei pressi del proprio Paese d’origine. I numeri confermano altresì che, sia in base a misure economiche che in rapporto alla popolazione, sono sempre i paesi a medio e basso reddito ad ospitare la maggior parte delle persone in fuga (75%). I 46 paesi meno sviluppati rappresentano meno dell’1,3% del prodotto interno lordo globale, eppure ospitano più del 20% di tutti i rifugiati.
I bisogni delle persone costrette alla fuga continuano a superare le soluzioni, anche per quanto riguarda i ritorni volontari e i finanziamenti disponibili. Dal 2016 al 2022 per ogni rifugiato che ha trovato una soluzione duratura alla propria situazione – ad esempio attraverso il reinsediamento, il ritorno volontario nel paese d’origine o l’integrazione nel paese dove ha trovato protezione – altre cinque persone in media sono state costrette a fuggire “Oggi i bisogni dei rifugiati nel mondo superano ampiamente le risorse finanziarie a disposizione. Le conseguenze di questo gap sono gravi e riguardano non solo le persone in fuga ma anche le comunità e i paesi che li ospitano”. Ha dichiarato Chiara Cardoletti, Rappresentante dell’UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino.
“Questa carenza di fondi ci costringe a fare scelte impossibili sulle diverse crisi da affrontare. Oggi molte più persone sono costrette alla fuga a causa di conflitti e di violenze in Sudan, Sahel, Sud America e Asia, e sono spinte ad affrontare viaggi pericolosi in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo, dove quest’anno si è raggiunto un nuovo record di sbarchi, o la regione di Darien a Panama, dove nel 2023, 250 mila tra uomini, donne e bambini hanno attraversato la giungla.
Nel Golfo del Bengala, nel 2022, abbiamo registrato un incremento del 260% di Rohingya che rischiano la vita in fuga in mare per fuggire dal Myanmar e Bangladesh principalmente. E il nuovo conflitto in Sudan ha generato poco meno di 2 milioni di rifugiati”.
“Il Forum Globale sui Rifugiati è un’occasione per trovare soluzioni concrete al fine di gestire in maniera efficace e umana questo flusso di persone in fuga. Per affrontare questa sfida non esistono ricette magiche, ma serve uno sforzo comune che coinvolga tutti gli attori in campo e che porti un alleggerimento della pressione sui Paesi ospitanti; un aumento delle opportunità di autosufficienza dei Rifugiati; più possibilità di reinsediamento in Paesi terzi, per chi non può tornare a casa; e un più forte impegno per permettere un ritorno sicuro e dignitoso nei Paesi di origine”. Ha concluso Chiara Cardoletti.
Ma non mancano alcuni segnali positivi, seppur timidi. Nel primo semestre del 2023, sono poco più di 404.000 i rifugiati che hanno fatto ritorno nel paese d’origine, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2022. Quasi 2,7 milioni di sfollati interni hanno fatto ritorno alle proprie case nello stesso periodo, più del doppio di quanto registrato nella prima metà del 2022. Il numero di rifugiati reinsediati è aumentato, sebbene i casi di reinsediamento nella prima metà del 2023 abbiano rappresentato solo il 3% dei 2 milioni di persone che, secondo le stime dell’UNHCR, hanno bisogno di essere reinsediate a livello globale.
Negli ultimi quattro anni il mondo ha comunque compiuto progressi tangibili nel fornire risposte condivise e allineate per gettare le basi per migliorare la vita dei rifugiati, ma questi progressi devono accelerare per far fronte al continuo aumento degli sfollamenti forzati a livello globale.
Il Rapporto sugli indicatori del Patto Globale sui Rifugiati 2023 ha rilevato che L’inclusione dei rifugiati nelle economie dei paesi che li ospitano dipende in larga misura dalla loro capacità di muoversi liberamente. Le informazioni disponibili per 109 Paesi, che includono 29 milioni di rifugiati, indicano che 6 rifugiati su 10 godono di libertà di movimento legale. Inoltre, 7 rifugiati su 10 avevano accesso legale al lavoro, ma solo la metà aveva accesso nella pratica a un impiego formale.
Il contesto politico per l’accesso dei rifugiati all’istruzione è stato giudicato generalmente positivo: la maggior parte dei paesi dispone di leggi per garantire ai bambini rifugiati l’accesso all’istruzione formale (il 73% dei Paesi garantisce esplicitamente ai bambini rifugiati l’accesso all’istruzione primaria, il 67% dei Paesi a quella secondaria).
Inoltre, dal 2016 sono aumentati il numero e la gamma di partner coinvolti nelle risposte ai rifugiati, tra cui un maggior numero di ONG locali, organizzazioni religiose, organizzazioni guidate da rifugiati e da donne.
Il Forum Globale sui Rifugiati, che ha visto la partecipazione di oltre 4.200 persone da 168 Paesi, si è chiuso con l’impegno da parte dei governi e del settore privato di stanziare 2,2 miliardi di dollari. Gli Stati si sono inoltre impegnati per il reinsediamento di 1 milione di rifugiati entro il 2030.
“I partecipanti hanno dimostrato leadership, visione e creatività nella ricerca di soluzioni a un fenomeno molto complesso”, ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi. “Soprattutto, hanno preso un impegno a continuare a lavorare insieme per migliorare la vita di milioni di persone in fuga da guerre e violenze nel mondo”.
Il rapporto e il Forum Globale sui Rifugiati:
Il rapporto sugli indicatori, il secondo del suo genere da quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha lanciato il patto Globale sui rifugiati nel 2018, contribuisce a focalizzare e guidare la discussione al Forum Globale sui Rifugiati che si chiude oggi a tiene a Ginevra.
L’incontro ha offerto ai governi, al settore privato, ai gruppi religiosi, alle fondazioni caritatevoli, alle istituzioni finanziarie, alle organizzazioni di rifugiati, agli attori umanitari e dello sviluppo e a una vasta gamma di altri partecipanti l’opportunità di impegnarsi in azioni concrete a sostegno dei rifugiati e dei principi del patto Globale sui Rifugiati.
Il rapporto mostra che dal Forum Globale sui Rifugiati RF sono state annunciate 1.700 promesse di impegno, coinvolgendo 133 Stati e oltre 550 attori non statali. Un terzo degli impegni per i quali sono stati riportati i progressi sono stati rispettati.
foto: ©UNHCR/Agnese Morganti
Di Francesca Spinelli su Internazionale
La morte di una persona è più grave se avviene in Spagna invece che in Marocco? E se invece avviene mezzo metro prima di varcare quel confine? Sono alcune delle domande sollevate dall’inchiesta Reconstructing the Melilla massacre, coordinata dalla redazione di giornalismo investigativo Lighthouse Reports e uscita lo scorso 29 novembre.
In collaborazione con alcune testate europee e con il sito d’informazione marocchino Enass, Lighthouse Reports ha ricostruito meticolosamente i fatti accaduti il 24 giugno 2022 nell’enclave spagnola in territorio marocchino.
Quel giorno di giugno, nel tentativo di entrare a Melilla per chiedere la protezione internazionale, centinaia di persone sono rimaste intrappolate tra uno spiegamento di agenti marocchini e le recinzioni oltre le quali erano schierati gli agenti spagnoli. Sotto una pioggia di lacrimogeni, manganellate e proiettili di gomma, sono morte nella calca almeno 37 persone. Di altre settantasette non si hanno più notizie. Chi era riuscito a superare la linea del confine è stato respinto. Nessuna assistenza medica è stata fornita ai feriti, nonostante la presenza di ambulanze da entrambi i lati della frontiera.
Nella regione non era la prima volta che si verificava una simile strage (non una “tragedia”, non un “incidente”, termini prediletti dalle autorità spagnole e da gran parte dei mezzi d’informazione locali). Il 6 febbraio 2014 circa duecento persone erano partite dalla costa marocchina per cercare di raggiungere a nuoto l’altra enclave spagnola nel nord del Marocco, Ceuta. La guardia civíl aveva risposto sparando lacrimogeni e proiettili di gomma e causando la morte di almeno 14 persone. Di tredici ne conosciamo il nome (Yves, Samba, Daouda, Armand, Luc, Roger Chimie, Larios, Youssouf, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blaise), una vittima è rimasta anonima. Ma i dispersi sono molti di più. È il “masacre del Tarajal”, dal nome di una spiaggia di Ceuta, commemorato ogni anno da una marcia per la dignità.
Quel giorno del 2014 gli spagnoli hanno imparato una lezione: e così nel giugno scorso a Melilla non si sono sporcati le mani, lasciando che gli agenti marocchini entrassero in territorio spagnolo per riprendere chi era riuscito a passare il confine. “Persone raccolte e gettate via come carcasse, persone con le mani legate dietro la schiena lasciate al sole a morire per le ferite riportate”, dice Daniel Howden, fondatore di Lighthouse Reports. “I vivi e i morti accatastati gli uni sugli altri”.
Dal primo giorno il ministro dell’interno spagnolo Fernando Grande-Marlaska ha dichiarato che non c’era stato “nessun morto sul suolo spagnolo”. Mentiva, come hanno sostenuto i sopravvissuti e come hanno dimostrato inchieste e rapporti, l’ultimo dei quali pubblicato da Amnesty international il 13 dicembre. Howden definisce Reconstructing the Melilla massacre un esempio di accountability journalism: per far sì che qualcuno in Spagna debba rendere conto di quello che è successo “abbiamo cercato di tracciare una linea di demarcazione netta lungo il confine per stabilire se le persone erano state schiacciate e picchiate a morte dal lato marocchino o da quello spagnolo”.
Tra le vittime c’era Anwar, 27 anni, che aveva lasciato il Sudan nella speranza di “migliorare le condizioni di vita” della sua famiglia, come ha raccontato sua nipote ad Amnesty international, e di aiutare la madre malata. Anwar è morto in territorio spagnolo.
Ma a prescindere dall’impatto politico che questa e altre inchieste avranno in Spagna, e a prescindere anche dalle gravissime responsabilità delle forze marocchine, Howden ci tiene a sottolineare una cosa: “Anwar è morto per colpa di un sistema creato a beneficio della Spagna. Il dispiegamento e le azioni delle forze marocchine di quel giorno sono il prodotto di negoziati con le autorità spagnole. I marocchini non hanno nessun interesse a impedire ai richiedenti asilo africani di entrare a Melilla. E la Spagna riceve fondi dall’Unione europea per finanziare le sue operazioni alla frontiera. Melilla è una frontiera europea, le persone cercano una protezione nell’Ue, quindi questa è una vicenda europea, indipendentemente dal fatto che le persone siano morte o meno un metro oltre quella che di fatto è una linea arbitraria” (nonché un retaggio del passato coloniale della Spagna, che rifiuta di restituire le due enclave al Marocco).
C’è un’altra bugia di Grande-Marlaska su cui occorre soffermarsi, perché riflette uno slittamento linguistico e politico preoccupante a livello europeo. Grande-Marlaska ha dichiarato a più riprese che a Melilla la guardia civíl si è dovuta difendere da un “attacco violento”, versione smentita da un rapportopubblicato già a luglio dall’Association marocaine des droits humains. Dopo la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia nel 2021, i discorsi di governi e istituzioni europee sui migranti si sono ulteriormente induriti attraverso la scelta deliberata di presentarli come “assalitori”, manipolati o meno da stati terzi. Dopo i trafficanti e le ong, ora i governi europei includono tra i nemici da combattere anche i profughi, e non lo fanno solo a parole. Nella proposta di regolamento sulla fantomatica “strumentalizzazione della migrazione”, elaborata dopo la crisi con la Bielorussia, la migrazione è stata associata – per la prima volta in un testo legislativo – al termine “attacco”.
Se approvato, il regolamento permetterebbe di derogare al diritto d’asilo in determinate circostanze e questo, per riprendere il titolo di un comunicato firmato da oltre ottanta organizzazioni, sarebbe “il colpo di grazia per il sistema europeo comune di asilo”. L’8 dicembre i ministri dell’interno europei riuniti a Bruxelles non sono riusciti a trovare un accordo sulla proposta, che la presidenza ceca sperava di far approvare entro la fine dell’anno. In un commento, l’European council on refugees and exiles (Ecre) auspica che la proposta sia ritirata, ma dipenderà dalle priorità della Svezia, prossimo stato a esercitare la presidenza del consiglio.
Mentre “attacco” si fa strada nel lessico istituzionale, c’è una parola che non si troverà mai nei discorsi e nei testi ufficiali sulle politiche migratorie e d’asilo europee. Ma è la parola che collega l’uccisione di Anwar al regolamento sulla strumentalizzazione, le bugie di Grande-Marlaska ai centri di detenzione segreti in Bulgaria, Croazia e Ungheria al centro dell’ultima inchiesta coordinata da Lighthouse Reports (in Italia è uscita su Domani). È la parola razzismo.
Come osserva la rete Picum (Platform for cooperation on undocumented people), l’impegno espresso dall’Unione europea attraverso il suo Piano di azione contro il razzismo, lanciato nel 2020, si ferma dove cominciano le sue politiche migratorie e d’asilo. I controlli esercitati sulla circolazione delle persone, spiega il ricercatore Luke de Noronha, citato nell’analisi di Picum, infatti “producono e riconfigurano distinzioni e gerarchie razziali (anche se non formulate in termini razziali)”. In un recente commento pubblicato su OpenDemocracy, la ricercatrice Iriann Freemantle parla di “terrorismo razziale contemporaneo, volto a dissuadere i migranti non solo dal muoversi fisicamente, ma anche dal desiderare una vita migliore”.
Se le sue radici affondano nel passato coloniale europeo, il razzismo che oggi si esprime nella violenza con cui l’Ue tratta persone originarie di alcuni paesi va inquadrato nel suo contesto storico. Secondo il ricercatore Fabian Georgi, “l’attuale recrudescenza del razzismo in Europa può essere interpretata come una controreazione a una serie di sconfitte politiche” subite dalla destra conservatrice. La prima è la diversificazione delle società europee “sul piano etnico e culturale” rispetto agli anni novanta, diversificazione che è andata di pari passo con l’affermarsi delle lotte antirazziste e la messa al bando quasi unanime del razzismo “vecchio stile e diretto” degli anni ottanta. La seconda sconfitta è stata la scelta – vissuta come un tradimento dalla destra – di alcuni attori neoliberali di promuovere “una retorica nuova e meritocratica sulla diversità e il multiculturalismo, sottolineando i benefici economici e altri effetti positivi legati alla migrazione”.
La “lunga estate della migrazione”, come alcuni studiosi chiamano la “crisi dei rifugiati” del 2015, ha accelerato questa controreazione e oggi, in un contesto di crisi sociale ed economica, una parte sempre più ampia della popolazione europea si riconosce nei programmi populisti della destra e dell’estrema destra, in cui s’intersecano razzismo, autoritarismo e nazionalismo ultraconservatore.
Eppure, diversamente da quanto succede negli Stati Uniti, “in Europa parlare di razza e di uguaglianza spesso è considerato inopportuno”, osserva Howden. A molti europei non piace ammetterlo, ma se a Melilla le persone sono picchiate e uccise “e le loro storie ricevono così poca attenzione è per via della loro provenienza e del colore della loro pelle”. Se il diritto d’asilo cade a pezzi e il rispetto dei diritti fondamentali è diventato facoltativo agli occhi di gran parte dei governi europei, è perché molti di quei leader si considerano superiori ad Anwar. E ora che i profughi hanno la pelle più scura considerano superato un quadro giuridico nato per proteggere dei profughi bianchi nel secondo dopoguerra.
Il 14 dicembre, in un’intervista al settimanale belga Knack, la ministra dell’ambiente delle Fiandre, Zuhal Demir, ha messo sullo stesso piano richiedenti asilo e suini, dichiarando che nelle Fiandre non c’è posto né per i primi né per i secondi. Da mesi il suo partito, la formazione nazionalista N-Va, si contende il primo posto nei sondaggi con il partito di estrema Vlaams Belang. Insieme raccolgono quasi il 48 per cento delle preferenze nelle Fiandre.
È un esempio tra tanti dello sdoganamento di discorsi, pratiche e politiche razziste in tutta l’Unione europea. Ma i movimenti di denuncia si moltiplicano e sempre più spesso si alleano su scala transnazionale, come dimostra la campagna “Unfair. The Un refusal agency”, che il 9 e il 10 dicembre ha portato fino a Ginevra le rivendicazioni di chi è intrappolato in Libia e negli altri paesi ai quali l’Ue appalta le sue politiche di respingimento. Alle persone presenti alla conferenza stampa, David Yambio, portavoce di Refugees in Libya, si è rivolto con queste parole: “Siamo pieni di storie da raccontare, pieni di incubi da scrollare via dai nostri corpi. Ma voi, siete pronti ad accoglierli? Siete pronti a lottare per un mondo migliore?”.
Foto in evidenza Javier Bernardo, Ap/LaPresse (su Internazionale)
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Una lunga distesa di tetti in lamiera, casette di terra, tende sorrette da pezzi di legno, impilati uno sull’altro. Per 13 anni il campo profughi Zam Zam è stato la casa di Said*. Nato in Darfur, una delle regioni più povere del Sudan, dove gli sfollati interni sono migliaia, il ragazzo ha passato l’infanzia in questo luogo sospeso, tra precarietà e insicurezza. Gli unici momenti felici erano i giochi con gli altri bambini e i giorni in cui il vicino di tenda, un medico, lo portava con sé mostrandogli il suo lavoro. “Un giorno anch’io diventerò un dottore” pensava, ma la sua istruzione è sempre stata irregolare. Ma a cambiargli la vita da un giorno all’altro è stata la violenza: poco più che bambino ha dovuto assistere alla ferocia brutale delle milizie janjaweed, che una volta entrate nel campo hanno ucciso e torturato alcuni membri della sua famiglia. Said è riuscito a nascondersi e, messosi miracolosamente in salvo, ha capito che l’unica speranza erala fuga: a fatica è riuscito ad arrivare in Libia dove è stato portato subito in un centro di detenzione per migranti. Qui è stato trattenuto per 5 mesi, tra gli abusi e le vessazioni degli aguzzini che volevano far pagare un riscatto ai suoi familiari. Così, per la seconda volta, Said si è dato alla fuga: nel 2020, è fuggito in Niger e lì ha chiesto asilo. Per due anni la sua casa è stata di nuovo un campo per rifugiati, stavolta ad Agadez. Qui ha incontrato Abdoul* anche lui diciassettenne, nato in Darfur e scappato dai janjaweed. Insieme hanno iniziato a immaginare una nuova vita lontano, dove poter ricominciare a vivere come gli altri ragazzi della loro età.
Nel 2021 sono arrivati in Italia con il programma “Pagella in tasca”, realizzato da Intersos insieme a Unhcr. Il nome è un omaggio alla storia di un bambino maliano di soli 14 anni, morto nel Mediterraneo centrale, che viaggiava con un unico documento addosso: una pagella scolastica, arrotolata nella tasca del giubbotto, con voti altissimi. Nella pratica, si tratta di uno speciale corridoio umanitario riservato ai minori non accompagnati. Un progetto unico a livello mondiale che l’Italia per prima sta sperimentando proprio a partire dal campo di Agadez.
Il Niger è uno snodo cruciale dei flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo Centrale soprattutto a partire dal 2015, quando le politiche di esternalizzazione dell’Unione europea finalizzate a bloccare i flussi migratori hanno determinato la sostanziale chiusura delle frontiere verso Nord. Questo ha aumentato fortemente i rischi per chi tenta di attraversare il deserto e raggiungere la Libia. Contestualmente negli ultimi anni proprio dal Niger sono stati attivati programmi di resettlement e complementary pathways per realizzare l’arrivo sicuro di un piccolo numero di rifugiati dai campi di Agadez verso l’Europa, gli Stati Uniti e il Canada.
Paradossalmente, tuttavia, i minori non accompagnati (cioè che viaggiano da soli) sono esclusi dalla maggior parte di questi programmi. Non possono, infatti, essere inseriti nei corridoi umanitari verso l’Italia. E non si tratta di una specificità italiana: a livello internazionale, non risulta che minori non accompagnati siano mai stati inseriti nell’ambito di complementary pathways, neanche verso Paesi con una consolidata esperienza in questo ambito come il Canada o la Gran Bretagna. Molti Stati, infine, non accettano questi minori nei propri programmi di resettlement.
I più vulnerabili tra i rifugiati sono dunque esclusi a priori dalle vie legali più sicure. “Uno dei problemi è costituito dalla complessità delle procedure per il trasferimento e l’accoglienza dei minori non accompagnati – spiega Elena Rozzi, responsabile del programma “Pagella in tasca” per Intersos -: Gli adulti possono decidere autonomamente, per i minorenni invece serve qualcuno che possa valutare se il trasferimento in un altro Paese risponda o meno al ‘superiore interesse del minore’. Può sembrare scontato che per un ragazzo non accompagnato rifugiato sia meglio andare in Italia anziché restare in un campo profughi, ma serve comunque una procedura formale per stabilirlo”.
Per trasferire un minore da un paese all’altro è necessario, poi, il consenso dei genitori che vanno rintracciati nel Paese d’origine o in un Paese terzo. “Se ciò non è possibile bisogna almeno dimostrare di avere svolto tutti gli sforzi possibili per trovare i familiari- aggiunge Rozzi -. L’altra questione riguarda poi l’accoglienza perché un minore non accompagnato può essere accolto solo in un centro autorizzato o accreditato come struttura idonea ai sensi della legge, oppure si può ricorrere all’affidamento familiare. E non è facile trovare posti disponibili nelle strutture per minori così come famiglie disponibili e valutate idonee”.
Infine ci sono gli ostacoli legati alla gestione delle procedure amministrative: ogni minore non accompagnato deve essere segnalato al Tribunale per i minorenni, che deve nominare un tutore. Ma la nomina spesso arriva dopo mesi. E fino a quel momento chi gestisce l’accoglienza del minore spesso incontra problemi per iscriverlo a scuola o al Servizio Sanitario Nazionale o ad avviare la procedura per la domanda d’asilo. “Tutti questi elementi rendono il trasferimento e l’accoglienza in Italia dei minori non accompagnati particolarmente complessi. Si spiega perché sia così difficile inserirli in programmi di resettlement e, soprattutto, nei complementary pathways – spiega ancora la responsabile di Intersos -. Questo paradosso lo vediamo bene nei due campi in Niger, ad Hamdallaye e Agadez. In questi campi, infatti, sono accolte alcune centinaia di minori non accompagnati, prevalentemente originari del Darfur, nati durante la guerra che ha insanguinato la loro terra d’origine provocando centinaia di migliaia di morti. Molti di questi ragazzi sono fuggiti da soli dal Sudan in Libia, dove hanno subito maltrattamenti, sfruttamento e torture, e spesso sono stati detenuti in centri di detenzione. Ma una volta accolti in Niger hanno poche possibilità soprattutto dal punto di vista educativo e formativo”.
Così la maggior parte degli adulti e dei nuclei familiari accolti nel centro Etm (Emergency Transit Mechanism) sono inseriti in programmi di resettlement e in complementary pathways come i corridoi umanitari verso l’Italia. I minori non accompagnati no. Alcuni in questi anni, colti dalla disperazione, sono nuovamente partiti per la Libia. Il progetto “Pagella in tasca” è nato proprio per provare a superare questo paradosso.
L’organizzazione umanitaria Intersos, che lavora dal 2018 in Niger, ha avviato nel 2020 il progetto pilota per la sperimentazione a livello internazionale di un complementary pathway per minori non accompagnati. Prevede l’ingresso in Italia di 35 minori rifugiati in Niger, con un visto per studio e la loro accoglienza in affidamento familiare. Il progetto è innovativo anche perché finalizzato alla promozione del diritto allo studio ed è fondato sul rilascio di un visto d’ingresso per studio non universitario, previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione per minorenni tra i 15 e i 17 anni, ma ad oggi mai utilizzato per promuovere l’ingresso di minori rifugiati: a differenza dei corridoi umanitari, dunque, questo canale di ingresso si fonda non su una “concessione” da parte dello Stato relativa a una specifica quota di ingressi, ma su una norma ordinaria che prevede il rilascio del visto per studio a fronte di determinati requisiti oggettivi e senza quote. Inoltre “Pagella in tasca” è basato sulla community sponsorship con il supporto delle famiglie affidatarie, dei tutori volontari e delle organizzazioni del privato sociale, e sul ruolo centrale dei Comuni e delle scuole. Il progetto è realizzato in partenariato con UNHCR, il Comune di Torino, l’Ufficio Pastorale Migranti della Diocesi di Torino, la Rete CPIA Piemonte, la cooperativa Terremondo, le associazioni ASAI, Mosaico – Azioni per i rifugiati e Frantz Fanon, e con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana, della Fondazione Migrantes, di Acri e della Fondazione Compagnia di San Paolo.
Ad agosto 2021, dopo quasi un anno di negoziazione, è stato firmato un Protocollo d’intesa nazionale che vede tra i firmatari, oltre ai partner del progetto, anche il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Ministero dell’Interno, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e la Fondazione Migrantes. “Il primo gruppo di 5 minori è entrato in Italia a ottobre 2021, mentre il secondo gruppo è arrivato a ottobre 2022. Per poter far arrivare in Italia attraverso questo canale altri minori non accompagnati rifugiati, stiamo cercando nuove famiglie affidatarie disponibili ad accoglierli e altri Comuni interessati a partecipare al progetto – aggiunge Rozzi -. Naturalmente, “Pagella in tasca” è solo una goccia nel mare: si tratta di 35 minori che entreranno in Italia con un canale regolare e sicuro, a fronte di più di 10.000 persone morte o disperse nel Mediterraneo negli ultimi 5 anni e oltre 85.000 persone intercettate e riportate forzatamente in Libia mentre cercavano di fuggire dalla guerra, dalle violenze e dalle torture, con il supporto delle autorità italiane e dell’Unione Europea – conclude Rozzi -. Ma bisogna ricordare che i complementary pathways non devono essere usati mai per legittimare le politiche di esternalizzazione e di chiusura delle frontiere”.
Anche secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) il progetto “Pagella in Tasca” è innovativo sotto vari punti di vista. “In primo luogo, ha come focus specifico la tutela dei minori. In secondo luogo, si basa sull’idea di garantire l’accesso al diritto fondamentale allo studio dei minori rifugiati, un diritto negato nella stragrande maggioranza dei casi. Infatti, i minori vengono selezionati per il progetto tenendo in considerazione non solo le loro necessità ma anche la loro propensione a proseguire il percorso di studio – spiega la rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, Chiara Cardoletti -. In terzo luogo, il progetto prevede, attraverso la sinergia tra il terzo settore, enti locali e comunità di accoglienza, la possibilità che i ragazzi inclusi nel progetto, una volta giunti in Italia, vengano accolti presso famiglie affidatarie e non in centri per minori”.
* I cognomi dei soggetti coinvolti, minori non accompagnati, non vengono indicati per tutelarne l’identità. UNA VIA SICURA è un reportage in dieci puntate realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Il lavoro giornalistico, curato da Eleonora Camilli con il supporto grafico di Diego Marsicano e la supervisione di Stefano Caredda, affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Foto in evidenza di Redattore Sociale
Di Anna Spena su Vita.it
Siamo a Trieste, in Piazza della Libertà, una delle più importanti della città, dove si trova la stazione ferroviaria. Ogni giorno, tra il tardo pomeriggio e la sera, qui arrivano più di 100 persone: i migranti della Rotta Balcanica, in molti partiranno subito per il Nord Europa. Il flusso aumenta o diminuisce a seconda dei mesi e a seconda di quanto la polizia croata – al confine con la Bosnia Erzegovina – li respinge indietro in modo che non possano arrivare in Europa. E in queste settimane il numero di ingressi è aumentato. L’ultimo rapporto di Frontex ha rilevato che, nei primi dieci mesi del 2022, gli arrivi ai confini esterni dell’Unione Europea sono stati circa 275mila, con un aumento del 73% rispetto ai primi dieci mesi dell’anno precedente. La rotta più attiva rimane quella dei Balcani Occidentali, dove si sono registrati 128.438 attraversamenti, un aumento del 168%. E Infatti «in Bosnia Erzegovina, in modo particolare nel Cantone di Una – Sana», dice Silvia Maraone, project Manager dell’Ipsia, ong delle Acli, «oggi ci sono poco meno di 4mila migranti. Ma il numero delle persone ancora bloccate qui, inferiore agli anni passati, non dice tutto su quello che sta accadendo. Il dato interessante è un altro: il numero delle persone che superano il “game” – espressione utilizzata dai migranti per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello croato – ad oggi è circa il 170% più alto dello scorso anno». Mentre il neo Governo si è lanciato contro una nuova crociata verso le ong che soccorrono i migranti in mare e urla ad un’emergenza che in Italia non esiste, è solo il sistema dell’accoglienza a operare in maniera emergenziale dato che 7 migranti su 10 sono accolti in centri straordinari, erroneamente si continua a non guardare alle rotte terrestri.
Non tutti i migranti che passano i confini terrestri vengono registrati. L’unico dato ufficiale che esiste in Italia, pubblicato dal Ministero dell’Interno, tiene conto solo del numero dei migranti arrivati via mare, quindi degli sbarchi. Dal primo gennaio al 16 novembre 2022 in Italia sono arrivati 93.241 migranti, tra loro 11.172 (dato aggiornato al 14 novembre ndr) sono minori stranieri non accompagnati. E allora alla domanda: “quanti sono i migranti che ogni anno passano per l’Italia?”, la risposta è “non lo sappiamo”. Quello che possiamo fare è avere delle stime e confrontare le voci delle organizzazioni umanitarie e dei volontari che presidiano i punti nevralgici delle rotte di terra per dare prima assistenza ai migranti che arrivano. Tre i luoghi principali da considerare: il Friuli Venezia Giulia, nello specifico la città di Trieste, perché il punto d’arrivo delle Rotta Balcanica, quindi l’ingresso in Italia e le due frontiere d’uscita, Oulx in Val di Susa, e i comuni di Ventimiglia e Mentone, dove i migranti provano a passare il confine con la Francia, ma più e più volte vengono respinti dalla parte Italiana del confine.
«Dallo scorso agosto», spiega Gian Andrea Franchi, vice presidente dell’associazione Linea d’Ombra odv, organizzazione di volontari che presta cure mediche, dà indumenti puliti a chi passa in transito per la città di Trieste e organizza viaggi in Bosnia per portare aiuti concreti ai migranti e agli attivisti presenti sul posto, «il flusso dei migranti che arrivano dalla Rotta Balcanica è aumentato notevolmente. Parliamo di una media di almeno 80 persone al giorno, con picchi fino a 200. Questo dipende anche dal fatto che la polizia croata – che da anni ormai effettua respingimenti illegali e usa lo strumento della violenza contro i migranti – sta facendo passare più persone, questo per loro significa anche un impiego minore di forze di polizia ai confini». A Trieste stanno arrivando anche molte famiglie con minori. «Diverse famiglie curde», continua Franchi. «Stanno arrivando persone anche dall’Africa subsahariana, che prima non vedevamo, e poi sempre pakistani, afghani, nepalesi».
Per avere un’idea, o almeno per provare a ricostruire, quante persone passano per il territorio italiano dobbiamo guardare oltre agli sbarchi via mare, alle stime di Frontex, alle domande d’asilo che ci dicono chi si ferma qui, anche ad un altro dato: quello dei respingimenti. Un flusso di persone maggiori in ingressi significa che ad Oulx, in Val di Susa, ma ancora di più a Ventimiglia e Mentone, le persone si bloccano perché vengono rispedite indietro dalla polizia francese. Guardando i dati del Prefetto del Dipartimento PACA (Provence-Alpes Maritimes-Cote d’Azur) e del Ministero dell’Interno Italiano nel 2016 ce ne sono stati 31mila, nel 2017 è stato registrato un picco di 50mila, per poi tornare a 29.600 nel 2018. Nel 2019 il numero è calato ancora, con poco più di 18mila respingimenti. E il 2020 non è stato da meno: nonostante la pandemia abbia bloccato quasi totalmente i flussi durante la primavera, il numero delle persone respinte è pari a 22.616. «Nel 2021», spiega Jacopo Colomba, project Manager di WeWorld a Ventimiglia, «al confine con la Francia sono state respinte 22mila persone. Quest’anno i respingimenti saranno superiori ai 30mila».
Per la stragrande maggioranza delle persone che arrivano dalla Rotta Balcanica, l’Italia non è il Paese di destinazione. Ma anche se lo fosse, non è così scontato risalire al numero di migranti che decide di fare domanda d’asilo nel Paese: «Il ministero dell’Interno», spiega Gianfranco Schiavone dell’Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, «non pubblica mai i dati complessivi sulle domande d’asilo presentate dalla persone che non arrivano via mare. È una volontaria omissione, come se queste persone non esistessero anche quando poi di fatto fanno domanda d’asilo in Italia e rientrano nel nostro sistema di accoglienza. Solo in Friuli Venezia Giulia, lo scorso anno, sono state presentate circa 10mila domande».
WeWorld ha aperto 2 anni fa a Ventimiglia una struttura di accoglienza insieme a Caritas Intemelia e Diaconia Valdese, pensata per famiglie e donne che cercano di attraversare il confine con la Francia e che hanno bisogno di un riparo per la notte. Dal novembre 2020 ha ospitato 787 nuclei familiari per un totale di 2.278 persone in fuga da 37 paesi diversi. La struttura è stata aperta per sopperire alla chiusura del Campo Roja, il presidio della Croce Rossa italiana dove venivano accolti i migranti di passaggio. «Le stime sono sempre imprecise», continua Jacopo Colomba, «ma tra agosto e fine ottobre ci sono stati circa 150 respingenti al giorno. Dall’inizio di novembre i respingimenti si sono attestati sui cento. Il 10% delle persone che intercettiamo sono minori stranieri non accompagnati, in prevalenza afghani, anche molto piccoli. La maggior parte delle persone sono originarie dell’Africa sub-sahariana, soprattutto da Eritrea, Costa d’Avorio, Nigeria, Guinea ed Etiopia, sono arrivate dalla rotta mediterranea, o già nel nostro paese ma uscite dal sistema di accoglienza italiano. Poi c’è un’altra parte proveniente dai Paesi del Nord Africa – Tunisia e Libia- dal Medio Oriente, principalmente da Afghanistan, Siria, Iran e Iraq/Kurdistan. Loro arrivano principalmente seguendo la rotta balcanica o quella del Mediterraneo orientale. Ventimiglia è diventata la “Lampedusa del nord” dal 2015. Quando la Francia ha letteralmente chiuso ogni punto di passaggio abbiamo visto la militarizzazione dei valichi per fermare e scoraggiare i flussi migratori».
Prima la maggior parte dei migranti provava ad attraversare la frontiera in treno: di solito alla prima stazione francese, quella di Menton Garavan, li aspettava la polizia francese, che perquisiva tutte le carrozze. Alcuni provavano a nascondersi nei bagni, altri nei vani elettrici. Lo scenario è cambiato a partire da marzo 2021, ovvero da quando sono stati introdotti i controlli sui documenti da parte di pattuglie miste italo-francesi direttamente sul binario del treno diretto in Francia alla stazione di Ventimiglia, sulla base di un nuovo accordo bilaterale fra i Ministeri dell’Interno dei due paesi. Ciò ha determinato che provare il passaggio tramite treno è diventato estremamente più difficile, di conseguenza vengono attualmente preferiti altri metodi. «Molti provano ad attraversare rivolgendosi a un passeur, pagando per nascondersi in una macchina o nel retro di un camion. Altrimenti c’è chi tenta camminando sulla ferrovia, o in autostrada, o ancora per i sentieri del crinale: il più famoso è il cosiddetto “passo della morte”, alla fine del quale la polizia francese ha installato telecamere e droni per controllare la montagna dall’alto».
Foto in evidenza di Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire.it
Italia e Francia si rinfacciano, dunque, accuse di disumanità e di irresponsabilità sul dossier sbarchi e rifugiati, offrendo un deprimente spettacolo di discordia e di contrapposizione in un momento in cui l’Europa dei diritti e dei valori universali dovrebbe essere più che mai unita.Ma che cosa c’è di vero nell’idea dell’Italia «lasciata sola» a fronteggiare gli afflussi di profughi? Non molto, in verità, se si allarga lo sguardo dagli approdi via mare (e dalla parte minima di essi derivanti dai salvataggi in mare operati da Ong internazionali) all’accoglienza delle persone in cerca di protezione internazionale: quelle in definitiva che comportano oneri di ospitalità e presa in carico da parte degli Stati riceventi.
Secondo Eurostat, nel 2021, sono arrivate ai governi della Ue 537mila prime richieste di asilo, aumentate del 28% rispetto al 2020, anno della pandemia. E ad accoglierne di più è stata come sempre la Germania (148.000), seguita proprio dalla Francia (104.000), poi dalla Spagna (62.000). L’Italia si è collocata al quarto posto, con 45.000 richieste di asilo: meno della metà dei cugini transalpini. Se guardiamo al rapporto con la numerosità della popolazione, la Svezia (25 richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti), l’Austria (15), o la stessa Francia (6), sono più ospitali dell’Italia (3,5), collocata sotto la media dell’Europa Occidentale.Ci sono poi i cosiddetti “movimenti secondari” dei rifugiati che, arrivati sul territorio di uno Stato, si spostano in un altro e ripresentano una domanda di asilo: la Francia nel 2021 ne ha ricevuti 30.000, molti dei quali passati attraverso l’Italia. Il punto è che i profughi non arrivano solo dal mare, ma anche via terra, a piedi, in auto, con trasporti pubblici, oppure in aereo, come i venezuelani che sbarcano in Spagna. Gli sbarchi sono più drammatici e visibili, ma non prevalenti. È uno sguardo ristretto, disinformato o volutamente distorto, quello che vede soltanto i profughi che approdano sotto casa sua.
Parigi ha poi accettato volontariamente la ricollocazione di 3.500 persone sbarcate in Italia: impegno appunto volontario, attuato con lentezza e presumibile riluttanza, ma pur sempre gesto di buona volontà. La provocazione italiana, che ha rivendicato come una vittoria l’accoglienza della Ocean Viking in un porto francese («L’aria è cambiata»: il ministro Salvini su facebook), ha scatenato la contro-provocazione francese: niente più accoglienza volontaria. Chiedere solidarietà ai vicini per storia e geografia e poi bastonarli o irriderli non è mai una buona mossa, così come far finta di non vedere le frontiere ermeticamente chiuse e la solidarietà sistematicamente negata dai vicini ideologici (i Paesi con governi nazional-sovranisti).
Dove la Francia si muove su un terreno discusso e discutibile è il controllo dei confini terrestri: qui la libera circolazione attraverso le frontiere interne della Ue è stata di fatto ristretta, sono state introdotte forme di profilazione razziale, sono stati perseguitati gli attivisti, è stata messa a repentaglio la vita dei profughi in transito per un principio di difesa dei confini non meno assolutizzato, e disumano, di quello che l’Italia si è tornati a inalberare. Nessuno in Europa d’altronde ha la coscienza pulita, se si pensa alle discusse imprese di Frontex ai confini esterni, o agli accordi con Paesi di transito come Libia, Turchia, Marocco.Viviamo un tempo fosco in cui le persone in fuga diventano «armi di una guerra ibrida», ai confini della Polonia, «carico residuale» sulle coste italiane, «animali» nel linguaggio di Donald Trump. Si cercano e ottengono voti respingendo le persone, oppure deportandole da un’altra parte. Basti pensare al tentativo di Danimarca e Regno Unito di trasferire i richiedenti asilo in altri continenti.
Ma anche Ron DeSantis è diventato una celebrità trasportando sull’isola di Martha’s Vineyard 50 migranti senza documenti validi, perlopiù venezuelani, convinti di andare a Boston. Gli esseri umani bisognosi di protezione diventano strumento cinico e crudele di cattura del consenso politico. Vogliamo tenacemente sperare in un Occidente e in un’Europa migliori, di cui l’accoglienza ai profughi ucraini ha dato un esempio: non sia un’eccezione, ma un’anticipazione profetica di un mondo migliore e più umano.
Di Nello Scavo su Avvenire.it
Si dice che le parole plasmano il mondo. Non sempre in meglio. Specie se sono parole infarcite di menzogna, di tornaconto, usate per scavare fossati e tenere a distanza i morsi della coscienza.A chi verrebbe in mente di definire degli esseri umani «carico residuale»? Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un «carico residuale» fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano. «Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico.
Con le parole un uomo può renderne felice un altro o spingerlo alla disperazione». Chissà se i nuovi governanti e legislatori hanno mai letto Freud. O hanno ascoltato almeno un po’ papa Francesco, che a certe parole ha restituito il peso che fingiamo di non sentire più: «La cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura».
È «il carico residuale», in fondo non è che un altro nome dato agli «scartati». La neolingua orwelliana si arricchisce così di nuove allocuzioni. Con l’obiettivo non dichiarato di confondere la realtà rimescolando proprio le parole e il loro senso. Ma le parole sono anche rivelatrici. Diversi decenni dopo, quando ancora una volta in Europa risuonano le sirene antiaeree e il disprezzo dell’altro è di nuovo elevato ad arma di guerra con cui giustificare i colpi di fucile e le peggiori depravazioni, in quel Mediterraneo culla delle civiltà da chissà quale abisso vengono a galla editti ministeriali che sembrano vergati da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia.
Intervistato da Rtl 102.5 , ieri Matteo Salvini ha detto: «Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga». Esattamente ciò che “Avvenire” denuncia da anni, con nomi, cognomi, rivelando connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi con un pied-à-terre nei palazzi del potere e coinvolti nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana. Prove passate al vaglio della magistratura nazionale e internazionale. Quel “Libyagate” che continua ad essere alimentato dalla “trattativa” tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per due volte dai nostri governi.
Anche quello attuale, che appena cinque giorni fa ha lasciato che “il patto della vergogna” si rinnovasse d’inerzia. Nessuna parola, ancora una volta, viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle autorità del Paese e denunciati (se non bastassero anni di inchieste giornalistiche) da una ventina di rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e da 23 dossier della Procura internazionale dell’Aja. Ma del resto, se si tratta di «carico residuale», che senso ha sprecare anche una sola parola per loro?
Il Garante nazionale, nell’urgenza di salvaguardare l’incolumità fisica e psichica delle persone soccorse in mare da alcune navi battenti bandiera norvegese e tedesca, ribadisce fermamente la necessità che i diritti fondamentali delle persone prevalgano sulle controversie tra Stati.
Come già in passato e quale proprio dovere in quanto Meccanismo nazionale di prevenzione di trattamenti inumani o degradanti in virtù di un trattato ONU ratificato dall’Italia, ricorda a tutte le parti coinvolte i rischi che un mancato celere sbarco in un porto sicuro comporta, non solo per la salute delle persone ma anche sul piano della responsabilità in sede internazionale. A bordo delle navi in attesa si trovano centinaia di minori non accompagnati e persone vulnerabili provate da una lunga e travagliata permanenza in mare. Una situazione che deve terminare.
Se, in base ai trattati internazionali, gli Stati di bandiera delle navi in attesa di sbarco non hanno un obbligo di coordinamento delle operazioni di soccorso, è però vero che lascia stupiti la generale indisponibilità degli Stati membri a partecipare alla redistribuzione delle persone soccorse, una volta terminata la fase di salvataggio. Ancora una volta viene a mancare lo spirito che è alla base dei valori fondanti dell’Unione Europea.
Il Garante nazionale riafferma la propria censura di ogni tentativo di leggere primariamente con le lenti della contrapposizione politica il tema della salvaguardia dei diritti umani, trasformando le persone, comprese quelle più vulnerabili, in strumenti per affermare una propria visione della realtà, anche se astrattamente legittima.
Foto in evidenza di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Ricevi aggiornamenti iscrivendoti qui:
Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.
Controlla la tua casella di posta o la cartella spam per confermare la tua iscrizione
Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
Le migrazioni nel 2021, il nuovo fact-checking di Ispi
© 2014 Carta di Roma developed by Orange Pixel srlAutorizzazione del Tribunale di Roma n° 148/2015 del 24 luglio 2015. - Sede legale: Corso Vittorio Emanuele II 349, 00186, Roma. - Direttore responsabile: Domenica Canchano.