Di Giorgia Serughetti su Domani
Con le immagini di corpi e volti nascosti dal burqa, le donne afghane tornano a rappresentare il simbolo dell’oppressione fondamentalista islamica. Non solo: dopo il collasso delle istituzioni di Kabul di fronte al ritorno dei talebani, il destino di quelle giovani donne, cresciute nella faticosa conquista di libertà, istruzione, lavoro, evoca la fragilità del modello democratico e dei diritti umani nel mondo.
Per questo, per l’opinione pubblica occidentale, “salvare” le donne e le bambine afghane appare come una priorità unanime. Persino Matteo Salvini sposa l’ipotesi di corridoi umanitari dedicati – beninteso, solo a loro: «Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no».
Di contro, voci critiche come quella della scrittrice Igiaba Scego mettono in guardia verso il “white saviorism”, cioè la retorica paternalista dell’occidente bianco: «le donne afgane», ha scritto su Facebook, «non vogliono essere salvate, vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione. Non cercano salvatori/salvatrici, ma alleate e alleati».
Naturalmente, come hanno mostrato le immagini di persone fuga all’aeroporto di Kabul, tante donne e tanti uomini vogliono letteralmente essere messi in salvo fuori dai confini del paese. Ciò rende particolarmente urgente l’apertura di corridoi umanitari. Tuttavia, le critiche alla retorica umanitaria colgono un aspetto cruciale: passata l’onda emotiva, queste risposte rischiano di lasciare immutata la realtà, esonerando le democrazie occidentali dal volgere lo sguardo al proprio interno, alle proprie politiche in materia di frontiere, migrazioni e asilo, con speciale riguardo proprio alle donne.
L’Afghanistan è la seconda nazionalità per numero di domande d’asilo nell’Unione Europea e, secondo i calcoli dell’Ispi, sono almeno 310.000 le persone di questo gruppo oggi prive di protezione, di cui circa 60.000 sono donne, quasi la metà minorenni.
Al di sotto delle accorate denunce dei diritti conculcati in altre parti del mondo, la realtà è che le nostre procedure d’asilo stentano a riconoscere come forme di persecuzione la violenze che hanno luogo nel “privato”, le violazioni della libertà, della salute, dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne – anche per l’assenza di riferimenti al “genere” nel diritto internazionale dei rifugiati.
Nel nostro libro Donne senza Stato, Ilaria Boiano ed io sosteniamo che per rispondere alla richiesta di protezione di donne che subiscono violenze di genere nel proprio paese occorrerebbe «un sistema rivisitato sotto il profilo dei presupposti e che potrebbe trovare ispirazione dal diritto di asilo previsto all’articolo 10 della Costituzione italiana», secondo cui l’asilo va accordato allo «straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche».
Si tratta di una proposta radicale e senz’altro ambiziosa per la vastità dei gruppi umani, in particolare di donne, che potrebbe interessare. Ma come essere all’altezza altrimenti dei principi che professiamo?
Foto in evidenza di Dire
Su Federazione Nazionale Stampa Italiana
Sono tanti i giornalisti afgani, soprattutto quelli che nel corso degli ultimi vent’anni hanno collaborato con i media occidentali, che in queste ore rischiano, insieme con le loro famiglie, di restare vittime di vendette, ritorsioni ed esecuzioni sommarie da parte dei talebani. La Federazione nazionale della Stampa italiana ha chiesto al governo italiano di valutare, nell’ambito delle ricollocazioni a scopi umanitari di cittadini afgani, la possibilità di accogliere in Italia i giornalisti, e le loro famiglie, che sono stati punti di riferimento importanti per i giornalisti e i media italiani.
Un primo elenco è stato già inviato al ministero della Difesa, che ha mostrato grande disponibilità e sensibilità. Nei prossimi giorni la Fnsi continuerà a raccogliere le segnalazioni sulla situazione dei giornalisti in Afghanistan e, facendo riferimento alla Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), si adopererà per far sì che tutti i governi dell’Unione europea e dell’Occidente si facciano carico di offrire accoglienza ai giornalisti afgani.
«Abbiamo il dovere – afferma Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi e componente del Comitato esecutivo della Ifj – di aiutare, nei limiti delle nostre possibilità, i colleghi afgani e le loro famiglie. Nei confronti di molti di loro è già partita una spietata caccia all’uomo. A dispetto delle dichiarazioni falsamente rassicuranti dei giorni scorsi, il regime dei talebani intende regolare i conti con tutti coloro che negli anni passati hanno collaborato con i media occidentali. Non meno preoccupante è la situazione delle giornaliste e dei giornalisti che lavorano nei media afgani, considerata l’avversione del nuovo regime alle libertà e ai diritti civili. I giornalisti e i media europei e occidentali non possono restare indifferenti».
Foto in evidenza di John MacDougall/Afp via @IFJGlobal
Un articolo di Europa Today
L’intenzione della Danimarca di espellere i rifugiati siriani, ritenendo ormai la Siria un Paese sicuro, “creerà un pericoloso precedente” per tutti i richiedenti asilo anche di altre nazioni. Per questo un’associazione ha deciso di portare il governo di Copenaghen alla Corte europea dei diritti umani (Cedu). La premier socialdemocratica Mette Frederiksen ha deciso da tempo di abbracciare la linea dura sull’immigrazione, e ha promesso di arrivare a “zero” richiedenti asilo ammessi nella nazione. La stretta ha colpito anche le migliaia di persone provenienti dal Paese governato da Bashar al-Assad, con il governo che sostiene che nella regione, dilaniata da una tremenda guerra civile iniziata nel 2011, la situazione sia “migliorata in modo significativo”.
Come racconta il Guardian, il gruppo Guernica 37, che ha sede a Londra e che fornisce assistenza pro-bono e a prezzi accessibili nei casi di giustizia transnazionale e diritti umani, sta lavorando con avvocati in materia di asilo e famiglie colpite in Danimarca per lanciare una sfida alla politica del governo in base al principio della convenzione di Ginevra di “non respingimento”, visto che né l’Onu né altri Paesi considerano Damasco sicura. “La situazione è profondamente preoccupante. Mentre il rischio di violenza diretta correlata al conflitto potrebbe essere diminuito in alcune parti della Siria, il rischio di violenza politica rimane più alto che mai e i rifugiati di ritorno dall’Europa sono presi di mira dalle forze di sicurezza del regime”, si legge in una nota di Guernica 37. “Se gli sforzi del governo danese per rimpatriare forzatamente i rifugiati in Siria avranno successo, si creerà un pericoloso precedente, che è probabile che molti altri Stati europei seguiranno”.
Uno dei maggiori problemi della decisione di Copenaghen è che poiché le autorità danesi riconoscono che gli uomini corrono il rischio di essere arruolati nell’esercito o puniti per aver evaso la coscrizione, la maggior parte delle persone dai decreti di espulsione sembrano essere donne e anziani, molti dei quali rischiano di essere separati dalle loro famiglie. Ghalia, una 27enne che si è riunita con i suoi genitori e fratelli quando è arrivata in Danimarca nel 2015, ha avuto il permesso di soggiorno revocato a marzo. È l’unico membro della sua famiglia ad essere colpito. “Ho paura all’idea di entrare da sola nel centro per immigrati, lì non puoi lavorare, non puoi studiare. È come una prigione”, ha detto aggiungendo anche di non poter “tornare in Siria”, perché “se torno verrò arrestata”.
Il tempo per bloccare le espulsioni stringe e Carl Buckley, l’avvocato che guida la causa, sa che quello della Cedu è un “sistema lento”, per questo ha annunciato che farà domanda per avere subito “misure provvisorie, che implicherebbero l’ordine alla Danimarca di smettere di revocare le residenze fino a quando non sarà stata presa in considerazione dal tribunale di Strasburgo la denuncia di merito”. In Danimarca vivono 5,8 milioni di persone, di cui circa 500mila nati all’estero e 35mila sono siriani. Negli ultimi anni, tuttavia, la reputazione di tolleranza e apertura del Paese scandinavo è stata influenzata dall’ascesa del partito popolare danese di estrema destra che ha condizionato anche le politiche del centro sinistra.
Foto in evidenza di Europa Today
Un articolo di Rosita Rijtano su lavialibera
Decine di persone in fila per un tozzo di pane, con una coperta sulle spalle e ai piedi, affondati nella neve, delle infradito. Le abbiamo viste lo scorso febbraio nelle foto scattate all’interno di Lipa: il campo profughi al confine tra la Bosnia e la Croazia che alla vigilia di Natale 2020 è stato incendiato ed è diventato il simbolo dell’abbandono in cui vivono migliaia di migranti in transito ogni anno sulla rotta balcanica. Lipa, oggi in ricostruzione, è uno dei mega-centri in cui le autorità bosniache hanno scelto di confinare i profughi che arrivano nel Paese per lo più da Pakistan, Afghanistan, Siria, Iran, Algeria e Palestina. Una politica di “non gestione” del fenomeno migratorio che, come evidenzia il rapporto “Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza” curato dalla rete RiVolti ai Balcani, gode del sostegno morale e materiale dell’Unione europea. Strategia che si affianca ai respingimenti portati avanti dalla Croazia, con il coinvolgimento delle forze dell’ordine italiane impegnate al confine italo-sloveno nelle cosiddette riammissioni: una pratica, temporaneamente sospesa, che consente alla polizia triestina di rispedire in Slovenia parte dei migranti intercettati alla frontiera, su cui sono stati sollevati dubbi di legittimità e su cui lavialibera ha chiesto spiegazioni alle forze dell’ordine, ma non ha ricevuto risposte.
È stata proprio l’Europa a finanziare questi centri, spendendo negli ultimi anni oltre 100 milioni di euro per aiutare il Paese dei Balcani a far fronte all’arrivo di migranti. Circa 13,8 sono stati stanziati attraverso uno specifico meccanismo per le emergenze, mentre altri 88 sono stati assegnati dall’Ue alla Bosnia ed Erzegovina nel periodo 2018-2021 per “la gestione delle migrazioni, l’implementazione del sistema di asilo e accoglienza, nonché la gestione delle frontiere”. Buona parte di questi fondi è stata destinata alla costruzione di campi che Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), definisce “campi di confinamento”: grandi strutture, spesso fatiscenti e degradate, lontane dai centri abitati e altamente sorvegliate, in cui gli standard di vita sono molto bassi. “Una strategia scellerata che vede responsabilità della Bosnia ma soprattutto delle istituzioni europee – ha detto Schiavone durante la conferenza di presentazione del dossier –. Non è possibile che con soldi dei cittadini dell’Unione vengano finanziate strutture di questo tipo, in cui vengono sistematicamente violati i diritti umani”.
Da notare che il numero dei posti disponibili all’interno dei centri non solo è sempre rimasto di alcune migliaia, ma è persino diminuito nell’ultimo periodo: agli inizi del 2021 la capienza era di circa 4.700 persone a fronte delle 8.200 dell’anno precedente. Un numero ridotto se si pensa che, secondo l’ultimo report dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), nel mese di maggio 2021 sono stati registrati dalle autorità bosniache 1.937 nuovi migranti e richiedenti asilo. Il numero di arrivi è così salito a 5.920 persone nel 2021 per un totale di 75.333 da gennaio 2018 a oggi. Dati che rendono chiara la strategia della Bosnia, portata avanti grazie ai finanziamenti europei. Da una parte, concentrare i profughi in grandi campi. Dall’altra, limitare i posti di accoglienza e favorire una politica dell’abbandono di chi sceglie o è costretto, per mancanza di alternative, a vivere al di fuori di queste strutture.
La linea è evidente in uno dei dieci cantoni di cui si compone la Bosnia ed Erzegovina: il cantone Una Sana, al confine con la Croazia, dove sia l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) sia il Servizio affari esteri bosniaco hanno segnalato che nell’inverno 2020/21 il numero di migranti nei boschi, in aree pericolose e edifici abbandonati è cresciuto molto, superando anche quota tremila. Una diretta conseguenza non solo dell’aumento degli arrivi, ma anche della chiusura di molti centri cui fa da contraltare il proseguimento dei lavori per il nuovo campo di Lipa che entro l’inverno dovrà poter accogliere mille persone, di cui 200 minori non accompagnati. Lipa, nato nell’aprile 2020 grazie ai soldi dell’Unione europea e dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale (Usaid), sorge su un altipiano isolato e privo di servizi, a 25 chilometri dalla città più vicina, Bihac. Quando il 23 febbraio del 2020 un incendio lo rase al suolo, il mondo scoprì le condizioni inumane in cui erano stati costretti a vivere i migranti: a circa nove mesi dalla sua apertura, il campo non aveva ancora né le fogne né l’allaccio alla corrente elettrica.
L’attenzione è durata poco, ha evidenziato Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica, aggiungendo che “per l’Ue, oggi Lipa è diventato un modello da finanziare e replicare nonostante sia uno strumento di segregazione e confinamento delle persone”. Significativo è che l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dopo aver gestito il campo per mesi, si sia tirata indietro quando è diventato inagibile per poi tornare ad aver un ruolo a partire dal 30 dicembre 2020, quando il Consiglio dei ministri bosniaco ha deciso che nell’arco di quattro mesi Lipa sarebbe stato riconvertito a centro di accoglienza ufficiale, a diretta gestione governativa con finanziamenti provenienti dall’Unione europea e con un ruolo di supporto tecnico proprio da parte dell’Oim. “Da quel momento – si legge nel report – la stessa Oim ha trasformato la propria narrazione del campo, da luogo deprecabile e inumano a possibile luogo di accoglienza sul quale veicolare attenzione mediatica e fondi anche raccolti da organizzazioni non governative di diversi Paesi dell’Ue”. Non solo. Secondo gli autori del dossier, il ruolo dell’organizzazione delle Nazioni unite nella gestione dei centri sarebbe ora alle battute finali e si sta procedendo a un progressivo passaggio di consegne nelle mani del governo bosniaco.
Accanto a questa politica portata avanti grazie ai finanziamenti Ue, definita “di confinamento”, è stata adottata una “strategia della deterrenza“: i migranti che vivono al di fuori dei campi sono stati criminalizzati e sottoposti a sgomberi, detenzioni arbitrarie e violazioni delle libertà personali. Anche in questo caso il governo del cantone Una Sana ha dettato la linea: a partire dall’estate 2020 ha creato ulteriori posti di blocco per impedire l’ingresso dei profughi al proprio interno, ha vietato loro l’acquisto di biglietti di bus e treni, gli assembramenti nelle aree pubbliche e la possibilità di prendere in affitto stanze in hotel e ostelli o in abitazioni private, andando a punire chi gli forniva sostegno. Così pure chi forniva supporto alle persone in transito, ha fatto marcia indietro. In parallelo, il discorso pubblico e politico nei confronti dei migranti è diventato sempre più ostile. Sono state organizzate manifestazioni, autorizzate dalle autorità, contro la loro presenza e non sono mancati pestaggi e intimidazioni.
A questo clima d’odio, si affianca l’inerzia del governo bosniaco nel prendere in carico le richieste di asilo. Nel 2020 su 14.432 manifestazioni di volontà di chiedere protezione, i procedimenti effettivamente avviati sono stati solo 244 (pari all’1,7 per cento del totale). A marzo 2021 le domande pendenti erano 237 di cui 109 presentate da persone appartenenti a nuclei familiari. Tutte azioni che creano un ambiente ostile, precario e pericoloso rendendo ancora più dura e difficile la sopravvivenza dei migranti in Bosnia. L’obiettivo è chiaro: spingere queste persone ad andare via e, in ultima istanza, disincentivare i nuovi arrivi.
“Si tratta di una strategia che si colloca in armonia con i respingimenti violenti, collettivi e a catena che le autorità croate attuano sistematicamente lungo i confini dell’Unione europea con la Bosnia ed Erzegovina”, denunciano i redattori del report. Respingimenti e violenze, documentate, che hanno potuto contare anche sulla complicità, seppur involontaria, delle forze dell’ordine italiane impegnate, fino a qualche mese fa, a rispedire indietro chi arrivava al confine italo-sloveno, dando inizio a “una catena illegale di restituzioni che spinge i migranti al di fuori dell’Unione Europea”, come spiegato da Schiavone a lavialibera. “Una pratica che porta le persone dalla Slovenia alla Croazia, dove subiscono documentate violenze da parte della polizia, e poi dalla Croazia alla Bosnia, dove vengono lasciati in condizioni di abbandono morale e materiale”. In pratica, la polizia italiana effettuava le cosiddette riammissioni – cioè restituiva a quella slovena parte dei migranti intercettati al confine – grazie a un accordo bilaterale firmato a Roma il 3 settembre 1996 tra il governo della Repubblica italiana e quello della Slovenia.
Un accordo che per i legali dell’Asgi ha una legittimità dubbia nell’ordinamento italiano ed è inapplicabile ai richiedenti asilo cioè a coloro che, alla frontiera, manifestano la volontà di chiedere protezione internazionale. Inoltre ciascuna riammissione dovrebbe essere accompagnata da un provvedimento motivato e notificato all’interessato, nonché impugnabile di fronte all’autorità giudiziaria. Mentre, secondo molte testimonianze raccolte dalle associazioni umanitarie, le persone riammesse non avrebbero ricevuto alcun provvedimento e ignare di tutto si sarebbero ritrovate prima in Slovenia, poi in Croazia e infine in Serbia o in Bosnia, anche se avevano intenzione di chiedere asilo nel nostro Paese. Lavialibera ha chiesto alle forze dell’ordine e al ministero dell’Interno di spiegare come vengono effettuate le riammissioni, ma non ha ricevuto risposte. La pratica è stata sospesa dopo che il tribunale di Roma in un’ordinanza del 18 gennaio 2021 l’ha giudicata illegittima, condannando il ministero dell’Interno. Ma a fine maggio Valerio Valenti, prefetto di Trieste, ha annunciato l’intenzione di riprenderla, precisando che i “presupposti giuridici sono ritenuti esistenti”. L’accordo bilaterale tra Italia e Slovenia “è stato ritenuto dal Ministero non solo valido ma applicabile e coerente con la legislazione europea, in particolare con il regolamento di Dublino, nella misura in cui la Slovenia garantisce l’esercizio degli stessi diritti da parte dei migranti e di rivendicare la protezione internazionale così come in Italia”, ha dichiarato Valenti.
“Chiediamo che l’Unione europea smetta di finanziare i mega-campi in Bosnia”, chiedono gli autori del report “Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza”, concludendo: “Si tratta di una politica irresponsabile che, unita all’instabilità prodotta dall’intreccio dei diversi livelli istituzionali interni alla Bosnia ed Erzegovina, genera una situazione di costante conflitto e ingovernabilità”.
Foto in evidenza lavialibera/Valerio Muscella e Michele Lapin
di Annalisa Camilli su Internazionale
Il 15 luglio la camera dei deputati ha approvato la delibera che autorizza e proroga le missioni militari italiane all’estero. Tra queste c’è anche quella che permette il finanziamento della cosiddetta guardia costiera libica e dei centri di detenzione per stranieri nel paese nordafricano in cui secondo l’alto commissario delle Nazioni Unite ai diritti umani sono stati documentati “inimmaginabili orrori”.
Nello stesso giorno Amnesty international ha pubblicato un nuovo rapporto – Nessuno ti cercherà: il ritorno forzato dal mare alla detenzione arbitraria in Libia – che raccoglie testimonianze di violazioni e abusi nei centri di detenzione libici nei primi sei mesi del 2021, comprese violenze sessuali contro uomini, donne e bambini intercettati mentre attraversano il Mediterraneo e rinviati con la forza nei centri in Libia.
Il rapporto ha anche rilevato che dalla fine del 2020 la Direzione per la lotta alla migrazione illegale (Dcim), un dipartimento del ministero dell’interno libico, ha legittimato gli abusi aggiungendo al suo controllo due nuovi centri di detenzione. In uno dei due centri i sopravvissuti hanno raccontato che le guardie hanno violentato le donne costringendole a fare sesso in cambio di cibo o della libertà.
Anche Oxfam ha aggiornato il suo rapporto sulle spese militari dell’Italia in Libia, rilevando che nel 2021 sono cresciuti di mezzo milione di euro i finanziamenti destinati al blocco dei flussi migratori. “Da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021. In totale sono 32,6 i milioni destinati alla guardia costiera libica dal 2017; salgono a 271 i milioni spesi dall’Italia per le missioni nel paese nordafricano”, spiega Oxfam.
Rispetto al 2020, anche le risorse destinate alle missioni navali che non prevedono il salvataggio dei migranti in mare sono aumentate: di 17 milioni quelle destinate a Mare sicuro e di 15 milioni quelle per la missione europea Irini. “Dall’inizio del 2021 ci sono state oltre 720 vittime lungo la rotta del Mediterraneo centrale, almeno 7.135 dalla firma dell’accordo tra Italia e Libia nel 2017 e oltre 13mila i migranti che sono stati riportati in Libia”, afferma il rapporto.
Anche l’Arci ha pubblicato un documento in cui denuncia l’operato della cosiddetta guardia costiera libica e le responsabilità dell’Italia e la poca trasparenza negli accordi tra i due paesi. “Che si tratti di accordi, dichiarazioni tra ministri, intese o programmi di attuazione dei vari progetti, la costellazione di misure che formano la cooperazione tra Italia e Libia per il blocco dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale è comunque accomunata da una grave mancanza di trasparenza, spesso giustificata dalle autorità italiane in termini di attività ‘di elevata sensibilità istituzionale’, ma che in realtà sembra finalizzata a tenere lontana dal controllo democratico e dall’opinione pubblica la realtà delle misure di esternalizzazione delle frontiere, gravemente lesive dei diritti umani e delle norme costituzionali e internazionali”, scrive.
“Attraverso la consultazione di documenti pubblici sui siti ministeriali, abbiamo cercato di mettere insieme i principali programmi che contribuiscono al supporto delle autorità di frontiera libiche, con cui a oggi l’Italia e l’Unione europea hanno fornito manutenzione e formato gli equipaggi di almeno sei o sette motovedette di proprietà libica e ceduto gratuitamente, oltre alle quattro motovedette risalenti agli accordi del 2009, altre dodici unità navali di proprietà della guardia di finanza e della guardia costiera italiane e venti battelli di nuova costruzione”, continua l’Arci denunciando le azioni documentate di aggressioni contro imbarcazioni di migranti e pescherecci delle motovedette libiche donate dall’Italia.
di Bracalente Marta, Heredia Zuloeta Lauren E., Aversa Ilaria e Gkliati Mariana* su Redattore Sociale
Episodi di vittimizzazione per aggressione, furto, detenzione non autorizzata, trasferimento in mare forzato e senza mezzi di navigazione ed espulsione collettiva. Per la prima volta Frontex, Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, risponderà di abusi ai danni di migranti, comprese violazioni dei diritti umani tra cui respingimenti indiscriminati. Il 25 maggio, infatti, è stata intrapresa la prima azione legale contro l’Agenzia da parte delle organizzazioni Front-lex, Progress Lawyers Network e Greek Helsinki Monitor, presso la Corte di Giustizia Europea. La causa è stata presentata per conto di due richiedenti asilo (un minore non accompagnato e una donna) mentre cercavano asilo in territorio UE sull’isola di Lesbo in Grecia. Oggi, 14 Luglio, è iniziata la discussione del caso presso la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo.
Le accuse mosse contro Frontex traggono fonte da molteplici testimonianze che ricostruiscono gli eventi passati dalle vittime. Tra i fatti presentati si trovano anche prove di altre operazioni di respingimenti senza giusta causa durante i loro tentativi di cercare protezione in UE.
Dalle testimonianze presenti nell’azione legale, un membro del presunto gruppo di migranti respinti indiscriminatamente, minorenne e amico del richiedente anche lui minore, è caduto in acqua ed è morto annegato. La Guardia Costiera Ellenica (HCG) non ha recuperato il corpo. La Guardia Costiera Turca (TCG) ha poi confermato che un corpo morto è stato trovato nel periodo dal 12 al 14 giugno 2020. Proprio in questa occasione, continua il denunciante, gli ufficiali della Guardia Costiera ellenica hanno confiscato soldi, telefoni ed effetti personali oltre ad aver picchiato e molestato altri membri del gruppo del denunciante.
Front-lex e il team di avvocati che hanno presentato l’azione legale, sostengono la responsabilità di Frontex in questi eventi: l’Agenzia dovrebbe svolgere un ruolo di monitoraggio regolare della gestione delle frontiere esterne, compreso il rispetto dei diritti fondamentali. Anche se gli Stati membri mantengono la responsabilità primaria nella gestione delle proprie frontiere esterne e dell’emissione delle decisioni di rimpatrio infatti, le attività dell’Agenzia dovrebbero sostenere l’applicazione delle misure dell’Unione relative alla gestione delle frontiere esterne e ai rimpatri rafforzando, valutando e coordinando le azioni degli Stati membri che attuano tali misure.
Dal Regolamento del 2016, ma ancora di più dai cambiamenti apportati nel 2019 alle competenze dell’Agenzia e dalle proposte per i prossimi anni, diventa sempre più evidente che Frontex stia diventando un corpo di para-polizia fino al punto di aver proposto fondi per 11 miliardi di euro tra il 2019 e il 2027, inclusi fondi per lo stanziamento di agenti armati e, per la prima volta, direttamente impiegati da Frontex, e, quindi, dall’Unione Europea. Questa nuova urgenza ha spinto il gruppo di avvocati guidati da Front-lex a sostenere le difficoltà del procedimento alla Corte di Giustizia Europea per garantire l’attribuzione di responsabilità a Frontex sulle operazioni nell’Egeo.
Nonostante la mobilitazione pubblica e di attivisti e le prove forensi presentate ai vari gruppi di scrutinio e all’opinione pubblica di giornalisti europei d’inchiesta, l’accesso alla Corte di Giustizia Europea è ancora difficile per singoli applicanti, specie nel caso in cui vi siano in situazioni precarie e pericolose come richiedenti asilo. Nel caso di quest’azione legale, infatti, la Corte si dovrà pronunciare circa l’ammissibilità dell’azione, e, solo dopo, valuterà se i fatti esposti generano responsabilità del Direttore Esecutivo e dell’Agenzia.
A risultato di una precedente azione intrapresa contro l’Ungheria, il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri ha sospeso le operazioni di Frontex in Ungheria. Poiché l’azione legale è stata presentata contro l’Ungheria, le azioni sospese sono solo quelle nelle zone di transito e per i respingimenti in terra, mentre le attività di ritorno proseguono.
Nel caso dell’Ungheria il direttore esecutivo Leggeri ha deciso di sospendere le operazioni solo dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea, mentre nel caso del Mar Egeo, in esame nell’azione Legale, ha ribadito che il suo potere è discrezionale.
Nonostante le dichiarazioni di Leggeri, nell’articolo 46 del Regolamento dell’Agenzia del 2019 si conferma espressamente che, in caso di violazioni di diritti fondamentali o di obblighi in materia di protezioni internazionale di natura grave o potenzialmente persistenti, il direttore esecutivo dell’Agenzia, dovrà sospendere, cessare o revocare il finanziamento di qualsiasi attività dell’Agenzia.
Con questa azione Front-lex, Progress Lawyers Network e Greek Helsinki Monitor intendono sottolineare alle autorità europee quanto queste violazioni dei diritti fondamentali di tutte le persone vengano sottaciute e insabbiate dall’agenzia in modo sistematico, richiedendo quindi la sospensione delle operazioni dell’Agenzia nell’Egeo.
Varie inchieste giornalistiche sul campo nelle isole Greche dell’Egeo, hanno evidenziato come il sistema di monitoraggio interno dell’Agenzia, unito all’inadeguato meccanismo di segnalazione dei Serious Incidents, continuino sistematicamente a fare in modo che non solo le poche problematiche riportate non vengano poi investigate appieno, ma che la maggior parte di esse non raggiungano nemmeno gli addetti al monitoraggio delle operazioni. Si legge nell’azione legale che, già a febbraio 2021, gli avvocati hanno invitato l’Agenzia a definire la sua posizione in relazione al suo obbligo ai sensi dell’art. 46 del suo regolamento istitutivo, e a sospendere o terminare immediatamente tali attività attraverso una richiesta preliminare. L’Agenzia non ha accettato le loro richieste e non ha sospeso le proprie operazioni, senza fornire una giustificazione soddisfacente. Di conseguenza, i ricorrenti sostengono l’incapacità dell’Agenzia e del direttore esecutivo a compiere le obbligazioni dirette a rispettare i diritti fondamentali.
Dalle raccomandazioni scaturite da varie indagini a livello istituzionale europeo è evidente che l’attività di sorveglianza delle frontiere di Frontex vada a sua volta monitorata, soprattutto riguardo al rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, per la maggior parte dei giornalisti, attivisti, e per l’opinione pubblica, ma non per Leggeri. La pubblicazione del report del Frontex Scrutiny working group del Parlamento Europeo circa le indagini sul convolgimento dell’Agenzia nelle violazioni dei diritti umani, è prevista il 15 luglio 2021.
*Bracalente Marta e Heredia Zuloeta Lauren Estefania sono studentesse della Clinicade Diritti, dell’immigrazione e della Cittadinanza dell’Università degli Studi di Roma Tre e partecipanti al progetto “European Border and Coast Guard Agency: SystemicAccountability in Practice”. Aversa Ilaria (LecturerallaUniversityof Greenwich, volontariaStatewatch) fa parte del progetto “EuropeanBorder and CoastGuard Agency: SystemicAccountability in Practice”.Gkliati Mariana (Leiden University, Universityof London) leader del progetto “EuropeanBorder and CoastGuard Agency: SystemicAccountability in Practice”.
Congolese asylum-seekers line up to undergo security and health screening in Zombo, near the border between Uganda and the Democratic Republic of Congo. ; In July 2020, UNHCR, the Government of Uganda and partners mounted an emergency operation in the Zombo district to receive thousands of asylum-seekers stranded in no-man's land between Uganda and the Democratic Republic of the Congo (DRC) since late-May. The Guladjo and Mount Zeu border points have been opened for three days to receive civilians who are among an estimated 45,000 people displaced by militia violence in eastern DRC. Like many countries, Uganda closed its borders in March to contain the spread of COVID-19. Upon arrival at the border, all asylum-seekers underwent security and health screening. Vulnerable individuals were identified and fast-tracked for assistance. Mandatory 14-day quarantine and COVID-19 testing is being carried out at Zewdu Farm Institute, where arrivals are being registered and given food and basic aid.
Qual è il paese che ospita più rifugiati al mondo? Da dove proviene il maggior numero di nuove domande d'asilo? Quanti rifugiati hanno potuto tornare in sicurezza nel proprio paese? 10 domande per scoprire quanto ne conosci sul tema.
A cura di Redazione
Foto in evidenza di Rocco Nuri
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Le fonti usate per questo quiz sono: Unhcr Global Trends 2020; Unhcr
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