Di Anna Spena su VITA
La Libia è una spirale di abusi. Partiamo da due dati sintetici: nel Paese ci sono 621mila migranti, di oltre 43 nazionalità diverse (dati Oim aggiornati a novembre 2021); 4300 persone si trovano nei centri di detenzione. Partiamo anche dal fatto che questi, pur essendo dati ufficiali, non rappresentano la realtà: il numero di persone bloccate nel Paese è più alto, ad oggi è impossibile averne contezza. Cosa sappiamo invece? Che la Libia non è un Paese sicuro.
Lo scorso primo ottobre sono iniziati i rastrellamenti nel quartiere di Gargaresh. Sono stati arrestati circa 5mila migranti. Da quel giorno circa 600 persone hanno iniziato a protestare pacificamente all’ingresso del Community Day Centre dell’Unhcr. In alcuni momenti la protesta ha coinvolto fino a tremila persone. Proteste andate avanti fino a qualche giorno fa quando la polizia e i miliziani si sono scagliati contro i rifugiati: 565 persone sono state arrestate e deportate nei campi di detenzione. Cosa chiedevano i rifugiati? Solo di essere trasferiti in un Paese sicuro.
“Sono un richiedente asilo registrato presso l’unhcr e vivevo a Gargaresh quando improvvisamente ci hanno attaccato, siamo stati portati in prigione, poi siamo fuggiti e abbiamo fatto un sit-in al CDC per chiedere protezione. Ci sono voluti 3 mesi solo in attesa di un altro attacco”, si legge sul profilo twitter di Refugees in Libya. E ancora “C’è una situazione assolutamente disumana al centro di detenzione di Ain Zara ora. In centinaia sono tenuti in un hangar in un luogo non adatto alla vita. Anche quando le mucche sono accampate nel recinto a loro è concesso uno spazio dove fare i loro escrementi e uno spazio per muoversi. Non è così per i rifugiati innocenti, loro sono considerati niente”.
Qualcuna delle persone presenti alla protesta pacifica è riuscita a scappare, in molti sono rimasti feriti. Medici Senza Frontiere ne ha soccorse 68. «Ferite di arma da fuoco, ferite da taglio, contusioni dovute alle bastonate,un minore ci ha racconattao di essere stato calpestato», racconta Giorgia Linardi, advocacy manager in Libia per Msf. «La maggior parte delle persone che protestavano sono state portate nel centro di detenzione di Ain Zara, ma a molte di loro era già stato riconosciuto lo status di rifugiato». L’organizzazione lavora nel Paese dal 2016 e fornisce assistenza umanitaria e sanitaria nei centri di detenzione di Tripoli, Misurata, Khoms, Zliten e Dhar El-Jebel, l’ong si occupa principalmente delle patologie derivanti o aggravate dalle disastrose condizioni igieniche.
Medici Senza Frontiere assiste i migranti anche nel centro di Ain Zara: «Il centro è sovraffollato», spiega Linardi. «Ci sono molte donne e bambini. Le persone non vengono nutrite a sufficienza, non ci sono materassi a cui appoggiarsi per tutti, le persone non hanno vestiti adeguati per l’inverno, non hanno scarpe, la struttura è fatiscente. Un nostro paziente che dormiva rannicchiato vicino al bagno ha raccontato di essere stato calpestato dalle persone che dovevano usufruire. Visitiamo questo, e gli altri centri in cui lavoriamo, almeno una volta alla settimana. Ma la situazione è in continua trasformazione».
Le équipe di msf si occupano di individuare casi vulnerabili e di trasferire i pazienti che necessitano di cure specialistiche in ospedale, offrono supporto psicologico, assistono le persone agli sbarchi dopo le intercettazioni in mare, e curano i malati di tubercolosi nella città di Tripoli. «Abbiamo davanti una situazione disperata», dice l’advocacy manager di Msf. «Quelle che noi vediamo sono persone che non hanno nessuna alternativa o possibilità di lasciare il Paese in modo sicuro e legale. Non ci sono vie d’uscita e gli arresti di massa sono l’emblema della condizione dei migranti e dei rifugiati in Libia. Le persone vivono in condizioni indicibili, dopo i raid di Gargaresh, le proteste all’ingresso dell’Unhcr erano la loro ultima speranza. Sono persone che confidano nel sistema di protezione internazionale per essere supportate. Ma di fatto questo sistema, ad oggi, ancora non è stato in grado di dare risposte adeguate».
Arrivano dal Niger, dall’Egitto, dal Sudan, dalla Siria e sono bloccate in Libia perché: «si continua ad investire sulla politica di esternalizzazione. Chiunque provi a lasciare il Paese, una volta in mare, non viene soccorso dalle autorità europee ma intercettato dalla guardia costiera libica, finanziata dall’Unione Europea, e rispedito nella spirale di abusi. Invece dobbiamo ascoltare le richieste di queste persone. Chiedono di essere trattate come essere umani, chiedono protezione, chiedono di essere evacuate».
Immagine in evidenza di Maya Abu Ata/MSF
Di Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Corriere della Sera
Quasi la metà degli Stati dell’Unione Europea vuole che Bruxelles paghi la costruzione di barriere fisiche per frenare la migrazione irregolare. Lo hanno chiesto il 7 ottobre 2021 con una lettera di 4 pagine alla Commissione europea i ministri degli interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. I ministri sostengono che una recinzione è «un’efficace misura di confine che serve l’interesse di tutta l’Unione, non solo degli Stati membri del primo arrivo» e che andrebbe «adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria». Il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer, ha anche dichiarato che il sistema di quote dell’UE per la distribuzione dei richiedenti asilo sarebbe «inutile» fino a quando le frontiere esterne non saranno «rigorosamente» protette. Sono passati 22 anni dall’accordo di Schengen e l’inversione di tendenza è iniziata con la crisi in Siria del 2012. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri: a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri, tutti di difesa territoriale, a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Oggi ne conta 16 per oltre mille km, tutti in chiave anti-migranti.
La costruzione di muri e recinzioni anti-migranti è iniziata negli anni ‘90, con il caso della Spagna a Ceuta (1993) e Melilla (1996), per bloccare gli arrivi dal Marocco, ma è dal 2012 con la crisi siriana che il fenomeno è esploso in Europa. Comincia la Grecia con una barriera di fossati e doppio filo spinato di 150 km e alta 4 metri lungo le rive del fiume Evros, al confine con la Turchia, per arginare la fuga dei siriani diretti in Europa. Poi è stata la volta della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia per bloccare i profughi siriani: il muro è stato definitivamente concluso nel 2017 per una lunghezza complessiva di circa 200 km, con filo spinato, torrette presidiate da soldati e guardia di frontiera con camere a infrarossi e sensibili al calore. La rotta balcanica, percorsa dai profughi in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Afghanistan, è stata via via chiusa dal 2015. L’Ungheria ha prima bloccato quasi tutto il confine con la Croazia (300 km di barriera su 329) e nei due anni successivi ne ha alzato un’altra lunga tutti i 151 km di confine con la Serbia. La Macedonia ha blindato 33 km al confine con la Grecia, l’Austria ha disposto 3,7 km di filo spinato lungo il confine con la Slovenia che, a sua volta, ha chiuso 200 dei 670 km che li divide dalla Croazia. A quel punto la rotta da oriente verso l’Europa si è spostata più a nord, e così nel 2016 la Norvegia ha eretto una barriera di 200 km e alta 4 metri lungo il confine con la Russia; lo stesso hanno fatto nel 2017 la Lituania e la Lettonia. Lituania, Lettonia e Polonia hanno anche annunciato nuove barriere di 508, 134 e 130 km lungo il confine con la Bielorussia.
Scelte che non hanno funzionato, come dimostrano i dati di Iom. Gli arrivi via terra sono stati 26.395 nel 2016, 15.662 nel 2017, 31.257 nel 2018, 24.636 nel 2019, 13.666 nel 2020 e 33.296 nel 2021: per una media di 24.152 all’anno. Quelli via mare, invece, sono stati 363.581 nel 2016, 171.837 nel 2017, 115.399 nel 2018, 103.836 nel 2019, 85.809 nel 2020 e 111.144 nel 2021: per una media di 158.601 all’anno. Costruire muri ha però alimentato la strumentalizzazione politica, cavalcata dai partiti xenofobi che sono cresciuti in popolarità ed esercitano pressioni che limitano le soluzioni. Oggi tra i 28 membri dell’UE ci sono 39 partiti politici che promuovono una violenta retorica anti-migranti, e in dieci Stati membri (Austria, Danimarca, Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Italia, Ungheria, Polonia e Paesi Bassi) hanno una forte presenza in Parlamento.
Però poi i migranti servono. Se n’è accorto il Regno Unito dopo la Brexit, rimasto senza camionisti che distribuissero le merci ed è stato costretto a mettere in campo l’esercito. Se ne accorge l’Italia: le nostre imprese hanno bisogno di braccia che sostengano la crescita ed hanno chiesto a Draghi di rivedere la politica migratoria. A dicembre il Governo ha deliberato il nuovo Decreto Flussi che disciplina l’ingresso dei lavoratori stranieri. Per il 2022 il numero è fissato a 69.700 per sostenere i settori agricolo, turistico-alberghiero, autotrasporto merci ed edilizia. Una svolta rispetto agli ultimi sei anni, quando il numero complessivo era sempre rimasto costante a quota 30.850.
Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno delle grandi divisioni. Oggi esistono 70 muri nel mondo: 40 mila chilometri di recinzioni, quanto basta per coprire l’intera circonferenza della Terra secondo i calcoli di Elizabeth Vallet dell’Università di Montreal. Undici furono costruiti tra il 1947 e il 1991, durante la guerra fredda, sette tra il 1991 e il 2001, ventidue tra il 2001 e il 2009. E ben 30 negli ultimi 10 anni. Senza considerare altri 7 già finanziati e in via di completamento. L’Asia è quella che ne ospita di più, 36, ma è anche il continente più esteso al mondo. Fra i più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan, tra Iran e i Paesi confinanti. Nessuno ha mai realmente funzionato, se non là dove sparano dalle torrette di controllo (Corea del Nord). Chi vuole fuggire trova sempre un modo, a costo della propria vita, basta leggere i numeri degli annegati sulla rotta mediterranea. Anche qui parlano chiaro i dati (fonte Unhcr): nel 2010 i richiedenti asilo e rifugiati nel mondo erano 16 milioni, saliti a 24,2 nel 2015 e diventati 34,4 nel 2020. Lo stesso trend è stato seguito dal numero e dalla percentuale dei migranti totali.
La scelta dell’Unione Europea in questi anni è stata quella di cercare di frenare i flussi migratori prima dell’ingresso, pagando, e gestire i rimpatri. In questa chiave vanno tutti gli accordi firmati con i Paesi satelliti, come quello del 2016 con la Turchia alla quale sono stati già destinati 6 miliardi di euro per evitare le partenze irregolari verso tutti gli Stati membri. Altri 3,5 miliardi arriveranno ad Erdogan nei prossimi quattro anni, mentre 2,2 miliardi andranno in Siria, Libano, Giordania e Iraq. Anche la sorveglianza è aumentata, con i sistemi informatici utilizzati per controllare la migrazione, come il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema di archiviazione dei dati Eurodac. Per pagare tutti questi controlli e sorveglianza, il bilancio di Frontex è passato da 6,2 milioni nel 2005 a 543 milioni nel 2021.
Scelte che hanno consegnato un’arma di ricatto in mano ai leader politici più spregiudicati: lo fa il Marocco con la Spagna, lo sta facendo la Turchia di Erdogan, e da ultimo la Bielorussia di Lukashenko, che sta agevolando l’ingresso di profughi iracheni per poi spingerli sul confine europeo allo scopo di ottenere le cancellazioni delle sanzioni. Non si è percorsa, invece, la strada di aprire e gestire i flussi in maniera regolare, ma nemmeno quella di applicare uno schema di ridistribuzione dei migranti tra i diversi Paesi membri. La Commissione non ci è riuscita, come non è riuscita a fa passare l’idea di un contributo economico per i rimpatri da parte dei Paesi che rifiutano la redistribuzione verso quelli, come l’Italia, che si trova ad essere il primo Paese d’ingresso dalla rotta africana. In sostanza se ogni Paese pensa a sé, per quale ragione gli africani, iracheni, afgani, siriani, pakistani non dovrebbero pensare a loro stessi, e fermarsi di fronte ad un filo spinato?
Immagine in evidenza su Corriere della Sera
Di Angela Caponnetto su Articolo 21
67.040, quasi il doppio rispetto ai 34.134 del 2020 e quasi sette volte di più rispetto agli 11.471 del 2019. Questi sono i numeri delle persone sbarcate in un’ Italia popolata da 59 milioni 258.000 abitanti . Un paese che tra il 2014 e il 2017 – il periodo dei grandi flussi migratori – ha visto approdare in media 150.000 persone all’anno. Questi sono primi e ultimi numeri che verranno elencati in questo articolo perché dietro alla matematica dei numeri ci sono vite umane con le proprie storie, sogni e speranze. Vite che il Covid-19 ha quasi del tutto oscurato, complici i media concentrati sulla pandemia ancora in corso. Lasciando spazio al mero conteggio degli sbarchi che fanno notizia solo se nei nostri porti approdano navi umanitarie mentre restano marginali gli approdi autonomi: nonostante le ong abbiano soccorso una minima parte delle persone migranti che invece sono arrivate da sole, rischiando per lo più di morire annegati o di stenti durante il viaggio. Purtroppo mi devo contraddire perché devo inserire un altro numero in questo elenco: quello delle vittime tra le persone migranti che nel 2021 sono 1.600 tra morti e dispersi solo nel Mediterraneo. Uomini, donne e purtroppo sempre più bambini i cui corpi vengono recuperati nelle spiagge libiche come nelle scogliere di Lampedusa chi nel silenzio generale soccorre in ogni stagione e senza sosta.
Totalmente obnubilati dal virus, quasi timorosi di parlare dei drammi altrui in un’epoca in cui il dramma della pandemia ha sconvolto le vite di tutti, la maggior parte dei media ha trattato le notizie sui flussi con distacco e poca attenzione. Lasciando spazio alla (per fortuna sempre meno credibile) retorica dell’ “invasore”.
Così, eccetto la vicenda dei profughi afghani in fuga dai talebani e la crisi al confine tra Polonia-Bielorussia, il resto dei flussi migratori è stato citato per lo più in termini di numeri e non di storie. Chi fa questo mestiere sa che raccontare le storie fa la Storia. Come mi fa ricordare una foto che mi è capitata in questi giorni tra le mani: scattata nel 2002 sul molo di Catania dal grande inviato Pino Scaccia. Una foto che mi ritrae mente prendo appunti su un notes durante uno sbarco di mille migranti da una carretta del mare. Vent’anni fa, governo Berlusconi bis, ministro dell’Interno Claudio Scajola. In mille soccorsi dai nostri militari. Erano curdi in fuga dal conflitto con i turchi. Allora come ora, c’era chi gridava all’invasione e c’era chi addirittura chiedeva di affondare quella carretta carica di vite umane: famiglie, uomini donne e tanti bambini. Vent’anni dopo si parla ancora della stessa fantomatica invasione e si continua a non raccontare le storie e le origini di queste partenze e approdi, come invece ci esorta a fare Papa Francesco.
Non solo non si raccontano più le storie di chi lascia la propria terra ma si è smesso di cercare di capire cosa spinge a movimenti più consistenti da un anno all’atro. Cosi, se suscitano interesse le solite rotte dalla Libia Centrale e dalla Tunisia verso la solita Lampedusa, scivolano tra le notizie di secondo piano gli arrivi dalla rotta turca, egiziana e dalla Libia orientale che nel 2021 hanno portato oltre 11.000 persone migranti nei porti calabresi e altre migliaia in quelli pugliesi. Eppure è questa la vera novità nei flussi migratori dell’anno appena conclusosi: i viaggi sempre più numerosi dalla Turchia e da un’area di confine tra Egitto e Cirenaica con centinaia di persone ammassate su vecchi pescherecci con motore in avaria sempre più spesso sganciati da navi madre in area sar di competenza italiana all’altezza del Mare Jonio. Soccorsi difficili, faticosi e pericolosi. La sintesi del lavoro fatto da chi soccorre a mare come a terra è nelle parole di un ispettore di polizia intervenuto in un salvataggio di un veliero che si incaglia su una spiaggia a Crotone: in mezzo ad una tempesta rischiando di ribaltarsi. A bordo ci sono tanti bambini che i genitori lanciano tra le braccia degli uomini in divisa: “La cosa più bella è stata sentire le loro braccia attorno al collo: avevano fiducia in noi” racconta con voce rotta dall’emozione il poliziotto. Un’emozione che si prova solo essendo parte di questa storia e che va raccontata per fare la Storia. C’è un motivo per cui queste persone si sono messe in mare più dell’anno prima e dell’anno prima ancora. C’è un motivo per cui hanno rischiato la loro vita per raggiungere un porto sicuro dal quale poi cercare forse di arrivare in un altro luogo dove trovare pace.
Per questo noi giornalisti dobbiamo continuare ad esserci, a documentare e a raccontare le storie mettendo insieme i tasselli di un puzzle che potrà essere completato solo con una corretta informazione. Anche perché solo attraverso una corretta informazione noi operatori dei media potremo contribuire a dare una spinta per trovare le giuste soluzioni ai movimenti migratori. Soluzioni che non possono essere muri veri o virtuali, né vacua propaganda anti immigrazione: servono politiche di peace keeping per i paesi ancora in conflitto, controllo del terrorismo nei paesi afflitti da gruppi estremisti che terrorizzano la popolazione interna, politiche di sviluppo per i paesi più poveri controllando che i fondi per i progetti non finiscano in mano a leader corrotti e, nell’immediato, corridoi umanitari per i più vulnerabili.
Questo mi ha insegnato un grande reporter come Pino Scaccia che, alla vigilia del 2022 mi ritorna con una trasferta fatta insieme vent’anni prima. Suole consumate, penna e taccuino, la Storia va vissuta prima di essere raccontata.
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di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Prima sono venuti i respingimenti alle frontiere esterne dell’Unione europea: illegali, impuniti e violenti per terra come per mare. Poi ci sono stati i respingimenti a catena alle frontiere interne, chiamati riammissioni per mascherarne la natura. Infine per ampia parte di coloro che, a prezzo di inaudite sofferenze, riescono a entrare in Europa, la domanda di asilo viene esaminata, alla frontiera e non, in modo fulmineo. Le procedure sono sommarie e l’unica finalità è provare a negare ogni protezione così che il rimpatrio coattivo, attuato senza un effettivo diritto di difesa, divenga la soluzione finale di un percorso già scritto dall’inizio.
Questo gorgo oscuro nel quale siamo finiti riguarda da tempo tutta l’Europa anche se è più visibile in alcuni Paesi nei quali l’ordinamento democratico è particolarmente fragile. Nella Polonia di fine 2021 la situazione è arrivata all’estremo e lo stesso Stato di diritto è collassato; in primis per i rifugiati ma in realtà per chiunque giacché nessun cittadino è più al sicuro nel Paese.
La Polonia è riuscita a realizzare tutte le violazioni possibili del diritto d’asilo: è stato di fatto sospeso alle sue frontiere, come nel territorio, respingendo apertamente e con ogni mezzo violento i rifugiati verso la Bielorussia dove sono arrivati a seguito dell’uso criminale che viene fatto di loro dal regime di Aljaksandr Lukašėnka. In tal modo la Polonia ha annullato il divieto assoluto di non respingimento sancito dall’Art. 33 della Convenzione di Ginevra e dall’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Si è resa responsabile della morte di almeno 20 persone (ma il numero è probabilmente sottostimato) tra cui alcuni bambini che sono stati lasciati morire di stenti e freddo sulla linea del confine pur conoscendone esattamente la grave condizione. La difesa di scelte così estreme invoca una sorta di “guerra ibrida” che il regime bielorusso starebbe conducendo usando i rifugiati come armi e la conseguente necessità di dovere difendere, a tutti i costi, il confine dell’Europa.
Invocare l’esistenza della nuova “guerra” in atto ha permesso al governo polacco di dichiarare lo stato di emergenza in tutta l’area di confine, impedire l’accesso ai giornalisti, criminalizzare chi difende la legalità e porta soccorso alle persone a rischio di vita nella foresta giungendo, in un’escalation che al momento della stesura di questa riflessione non sembra avere fine, persino a impedire le visite dei parlamentari europei affinché nessuno possa vedere quello che sta realmente avvenendo. Su tutto ciò la Commissione europea tace, complice di fatto dello stravolgimento di quella legalità che è chiamata a difendere.
A chi, magari con travaglio interiore, ritiene che tale situazione possa essere tollerata in ragione della sua eccezionalità non oppongo una valutazione politica o etica bensì una giuridica. La Convenzione sui diritti dell’uomo del 1955, consapevole che scenari di guerra e di pericolo sarebbero stati in futuro purtroppo sempre possibili, aveva previsto la possibilità di derogare, in modo limitato e temporaneo, al rispetto di alcuni dei diritti sanciti dalla Convenzione stessa chiarendo però che “nessuna deroga” (Art. 15) può mai essere ammessa, neppure in stato di guerra, al divieto di respingimento verso luoghi dove c’è rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti. La Polonia e l’Europa non sono in guerra perché qualche migliaio di disperati disarmati si trovano al nostro confine e chiedono asilo. Affermarlo è osceno. Infine se fossimo in guerra nulla cambierebbe rispetto a ciò che non possiamo mai fare. Abbiamo superato, persino in assenza di alcuna ragione, il limite invalicabile dell’identità che ci siamo dati e lo dobbiamo sapere, senza finzioni.
Foto in evidenza di Kancelaria Premiera, via flickr, su Altreconomia
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Makbyel aveva appena 17 giorni quando è stato salvato in mare, a fine dicembre, dalla Ocean Viking, la nave umanitaria di Sos Méditerranée. Appena nato, metà della sua breve vita l’ha passata su un barchino in mare con altre 113 persone in attesa di un soccorso. Per questo, una volta al sicuro sul ponte della nave, la madre ha deciso di dargli come secondo nome “Sos”. Makbyel Sos e gli altri naufraghi hanno saputo che avrebbero sbarcato in un porto sicuro, a Trapani, la notte di Natale. Nelle stesse ore nel Mar Egeo si consumavano due terribili naufragi: il bilancio provvisorio è di 27 vittime e 25 dispersi. Scomparsi in fondo al mare e nel silenzio generale nell’anno in cui l’immigrazione non è più il tema caldo, al centro del dibattito pubblico e politico. Così neanche le vittime del mare hanno dignità di notizia. Ma i numeri sono tutt’altro che irrisori e parlano di almeno 1600 morti nel 2021, sulla rotta più pericolosa al mondo, quella del Mediterraneo.
Complice la pandemia da coronavirus che ha monopolizzato il mondo dell’ informazione, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Carta di Roma “Notizie ai margini”, nel 2021 sono 660 gli articoli in prima pagina dedicati al tema, il 21 per cento in meno rispetto al 2020, anno in cui già si registrava già una flessione dell’attenzione nell’agenda dei media. Il mese con maggiori notizie dedicate è stato agosto con la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan e la ripresa degli sbarchi verso l’Italia, che a fine 2021 si attestano a quota 64mila. “Le notizie che in questi anni hanno catalizzato l’attenzione, ispirato campagne elettorali, condizionato le politiche europee, nutrito l‘odio di molti, portato la paura nelle nostre case, nel 2021 sono rimaste prevalentemente lì, in quello spazio un po’ indefinito a due passi dall’indifferenza. Eppure quelle notizie ci sarebbero ancora ma invece restano ai margini e suona davvero strano” – sottolinea Valerio Cataldi, presidente di Carta di Roma.
In questo contesto di marginalità sono passati sotto silenzio anche alcuni attacchi al diritto d’asilo all’interno degli Stati europei per gestire i flussi alle frontiere. Il caso più raccontato mediaticamente è stato quello della crisi diplomatica al confine tra Polonia e Bielorussia. Il governo Lukashenko, dopo aver fatto arrivare in aereo migliaia di profughi (per lo più curdi e afgani) li ha spinti verso il confine polacco. Per settimane i due stati hanno dato vita a un vero e proprio braccio di ferro sulla pelle delle persone. Intanto ai profughi era impedito di chiedere protezione nei paesi europei. La commissione Ue per risolvere la situazione ha elaborato una proposta straordinaria di sei mesi che prevede la sospensione di alcune regole su asilo per i tre paesi di confine: Polonia, Lettonia e Lituania. La proposta prevede una semplificazione dei rimpatri e un limite di tempo più lungo per registrare le domande di asilo (da dieci giorni a 4 settimane). Non solo, ma la proposta apre anche alla possibilità di trattenere temporaneamente i richiedenti asilo. Una deroga ai principi che regolano il diritto d’asilo che è stata ampiamente criticata dai giuristi italiani e internazionali. Ma non è l’unica violazione.
Secondo il report “Human dignity lost at the EU’s borders”, elaborato dal Danish refugees Council e alcune agenzie partner (comprese in Italia Asgi e Diaconia Valdese) per tutto il 2021 le regole internazionali sulla protezione sono state sistematicamente violate in diverse aree dell’Ue. In particolare, da gennaio 2021, le organizzazioni hanno incontrato 11.901 persone che hanno denunciato respingimenti alle frontiere interne e esterne dell’Unione Europea. Il 32% dei respingimenti riguarda persone provenienti dall’Afghanistan, molte delle quali hanno visto negato il diritto di chiedere asilo (oltre il 60%). Le temperature invernali hanno contribuito al deterioramento delle condizioni umanitarie : oltre a veder negato il diritto d’asilo, le persone non hanno accesso a un riparo per la notte, vestiti caldi, cibo a sufficienza.
Tra i principi rimessi in discussione nel corso del 2021 anche quelli previsti dal trattato di Schengen. Alcuni paesi del nord Europa (tra cui Francia e Germania) hanno chiesto di poter reintrodurre i controlli alle frontiere interne dell’Unione europea per contrastare i cosiddetti “movimenti secondari” (gli spostamenti dei migranti da uno stato all’altro dell’Unione). La Commissione Ue, anche in questo caso ha approvato una proposta che lo prevede in alcuni casi eccezionali. Il Paese membro dovrà “giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l’impatto sulla libertà di circolazione” delle persone.
Intanto guardando all’andamento della mobilità internazionale i numeri dicono che seppure siano in aumento le persone in fuga nel mondo, in Europa diminuiscono sia gli arrivi irregolari (-12 per cento) che i richiedenti asilo (crollati di ben un terzo). Il dato è contenuto nel Rapporto asilo 2021 della Fondazione Migrantes. “La pandemia di Covid-19 ha reso ancora più gravoso qualsiasi motivo, qualsiasi spinta a lasciare la propria casa, la propria terra. Dai conflitti alle persecuzioni, alla fame, all’accesso alle cure mediche fino alla possibilità di frequentare una scuola, il Covid-19 ha inasprito il divario fra una parte di mondo che vive in pace, si sta curando, tutelando e sopravvivendo e un’altra che soccombe, schiacciata da una disparità crudele – si legge nel testo -. Ma almeno in tutto il 2020, l’Italia e l’Europa hanno rappresentato un’eccezione in controtendenza rispetto alla situazione globale: mentre nel mondo il numero delle persone in fuga continuava ad aumentare, fino a una stima di 82,4 milioni, nel nostro continente si sono registrati meno arrivi “irregolari” di rifugiati e migranti e meno richiedenti asilo”.
In particolare, in Italia (dati Istat) a inizio 2021, con poco più di 5 milioni di residenti, la popolazione straniera dopo vent’anni di crescita ininterrotta si è ridimensionata e non riesce più a compensare “l’inesorabile inverno demografico italiano” come lo definisce il Rapporto italiani nel mondo 2021 della Fondazione Migrantes. Ormai il saldo tra entrate e uscite dal nostro paese è negativo: sono più i cittadini italiani che decidono di andare all’estero a vivere e lavorare che i migranti che arrivano nel nostro paese per stabilirsi. “L’Italia – spiega Fondazione Migrantes – è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona tramonta inesorabilmente e la popolazione immigrata, complice la crisi economica, la pandemia, i divari territoriali e l’impossibilità di entrare legalmente, non cresce più”. Tuttavia c’è un’Italia che cresce ed è “quella che risiede strutturalmente all’estero”. Nell’ultimo anno l’aumento della popolazione iscritta all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) è stato del 3% (il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni e ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del rapporto).
Foto in evidenza di Suzanne de Carrasco / Sea-Watch
Su Nigrizia
Sono oltre 40 milioni gli africani che vivono lontani dal loro paese d’origine.
Circa 21 milioni risiedono in un altro paese africano. Dato quasi certamente sottostimato visto che molti stati africani non tengono alcuna traccia delle migrazioni. Un dato che segna comunque un aumento significativo rispetto al 2015, quando si stimava che fossero circa 18 milioni gli africani emigrati in un paese del continente.
Le principali aree di destinazione di questa migrazione interafricana sono le realtà urbane di Nigeria, Sudafrica ed Egitto. Spostamenti che riflettono il dinamismo economico dei luoghi di arrivo.
Tra i migranti africani che si sono spostati, invece, fuori dal continente, circa 11 milioni vivono in Europa, quasi 5 milioni in Medioriente e più di 3 milioni in Nordamerica.
È la fotografia dell’African migration trends to watch in 2022 pubblicata dal sito africacenter.org che ha tratto la maggior parte dei dati dal World migration report 2022.
Nel 2020, l’Egitto era il paese che aveva il maggior numero di persone residenti all’estero, seguito da Marocco, Sud Sudan, Sudan, Somalia e Algeria.
Il Sudafrica rimane il paese di destinazione più significativo in Africa, con circa 2,9 milioni di migranti internazionali residenti nel paese. Tuttavia, è un dato in calo di oltre il 9% rispetto al 2015, quando il paese aveva oltre 3,2 milioni di migranti internazionali. Altri paesi con un’alta percentuale di popolazione immigrata, in proporzione alla loro popolazione totale, ma che non rientrano tra i primi 20, sono il Gabon (19%), la Guinea Equatoriale (16%), le Seicelle (13%) e la Libia (12%).
Il continente africano sta affrontando molte crisi climatiche: dalla siccità alle inondazioni, dai cicloni alle pandemie. La Banca mondiale prevede che ci saranno 86 milioni di migranti per il cambiamento climatico in Africa entro il 2050. Solo nell’ultimo anno, nell’area subsahariana le persone costrette a scappare sono state circa sei milioni a causa di conflitti e violenze, e quattro milioni a causa di disastri ambientali come riportato nel Global Trend Internally displacement 2021, elaborato dall’IDMC (Internal Displacement monitoring centre). Nello specifico, sempre secondo i dati dell’IDMC, i paesi più colpiti dalla crisi migratoria del 2020 in Africa sono stati la Repubblica democratica del Congo, i paesi del Corno d’Africa, la Nigeria e il Burkina Faso.
Molti dei 18 milioni di lavoratori migranti stagionali in Africa potrebbero veder scomparire i loro posti di lavoro nell’agricoltura, nelle miniere e nella pesca, aumentando le prospettive di una migrazione permanente alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Gli impatti ambientali ha condizionato la vita economica del 30% degli africani dell’area occidentale e centrale e degli etiopici nel Corno d’Africa.
La chiusura delle frontiere legata al Covid-19 ha fatto sì che decine di migliaia di migranti siano rimasti bloccati in tutta l’Africa. Molti hanno perso il lavoro, altri la casa. Anche dopo la riapertura delle frontiere, le continue restrizioni di viaggio e sanitarie hanno influito sulla mobilità dei migranti regolari e irregolari.
In Nordafrica, quando i passaggi dalla Libia all’Europa sono diventati più difficili, la migrazione irregolare verso il Vecchio Continente si è spostata più a ovest, verso il Marocco e le isole Canarie. Tra gennaio e metà dicembre 2021 sono giunti via mare in Spagna (nella penisola, negli arcipelaghi delle Isole Baleari e nelle Canarie) un totale di 37.385 migranti. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha stimato il 2021 l’anno più mortale sulla rotta migratoria verso la Spagna, con almeno 1.025 morti.
Decine di migliaia di migranti negli stati del Golfo provenienti dall’Etiopia sono stati detenuti in prigioni affollate e insalubri e poi deportati.
Si stima che 32mila migranti africani siano rimasti bloccati nello Yemen, dopo aver tentato di raggiungere gli stati del Golfo. Alcuni di loro sono diventati vittime della tratta, costretti a lavorare in condizioni disumane per pagare i loro debiti oppure sono stati rapiti per ottenere un riscatto. Secondo l’Oim, da maggio 2020, 18.200 migranti hanno contattato dei contrabbandieri per essere riportati dallo Yemen al Corno d’Africa.
Ma un numero assai elevato sono gli africani che hanno lasciato le loro case per rifugiarsi in un posto sempre all’interno del loro paese. Lo sfollamento forzato ha raggiunto livelli record nell’ultimo decennio. L’Africa ospita attualmente il più alto numero di persone costrette a fuggire: quasi 36 milioni sulle oltre 84 milioni costrette alla fuga da conflitti, violenze, persecuzioni e cambiamenti climatici.
La maggior parte dei rifugiati e dei richiedenti asilo nel continente è ospitata nei paesi vicini all’interno della stessa regione. Il Sud Sudan è stato il paese di origine del maggior numero di rifugiati in Africa nel 2020 (2 milioni) e si colloca al quarto posto nel mondo dopo la Siria, il Venezuela e l’Afghanistan. La maggior parte dei sudsudanesi è accolta in paesi vicini come l’Uganda, che è lo stato che ospita il maggior numero di rifugiati (circa un milione e mezzo) in Africa e si colloca al quarto posto nel mondo dopo Turchia, Colombia e Pakistan. Altri grandi paesi africani che ospitano rifugiati nel 2020 sono stati il Sudan e l’Etiopia.
Foto in evidenza di Nigrizia
Di Luca Rondi su Altreconomia
I respingimenti illegali al confine stanno diventando sempre di più un “normale” strumento di gestione del fenomeno migratorio nell’Unione europea. Lo dimostrano i dati contenuti nel nuovo rapporto pubblicato a metà dicembre 2021 dal Protecting rights at borders (Prab) con riferimento alla Bosnia ed Erzegovina: nonostante siano state appena 10.593 le persone in transito nel Paese tra gennaio e novembre 2021 – in diminuzione rispetto alle 29.488 del 2019 -, nello stesso periodo il numero di pushback registrati al confine con la Croazia nel 2021 sono stati 8.812. Ovvero il 74% degli 11.901 totali. “Stanno diventando accettabili e in una certa misura queste pratiche ricevono approvazione da parti degli Stati membri dell’Unione europea” si legge nel documento frutto del lavoro di nove organizzazioni (tra queste, Danish Refugee Council, Asgi, Diaconia Valdese, Hungarian Helsinki Committee, Humanitarian Center for Integration and Tolerance, Macedonian Young Lawyers Association, Greek Council for Refugees) che tutelano i diritti umani in sei diversi Paesi e che hanno fornito i dati aggiornati registrati tra luglio e novembre 2021.
Nel periodo dell’analisi sono 6.336 i migranti e richiedenti asilo che dichiarano di aver subito un respingimento illegittimo. La punta dell’iceberg secondo i curatori del report. La maggior parte, come detto, al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina (4.905) e dalla Serbia che con mille casi registrati lungo i suoi confini conferma il cambiamento delle rotte che le persone in transito seguono nei Balcani.
Avvalorano questa lettura anche le statistiche fornite da Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Un dato su tutti è significativo. Nel 2015 in Albania venivano registrati meno di 2mila ingressi irregolari, nel 2021 questi sono diventati 12mila. Secondo la polizia albanese, il Paese ha visto un aumento del numero di persone che attraversa il Kosovo nella speranza di raggiungere la Serbia e da lì l’Unione europea attraverso due possibilità: la Romania o l’Ungheria. Secondo le testimonianze raccolte dal Prab, il 90% degli ingressi sul territorio romeno avviene a piedi lungo il confine con i villaggi Majdan e Rabe. “Una volta identificati dalla polizia, gli intervistati riferiscono molto spesso di essere stati picchiati, minacciati, di essersi visti negare l’accesso all’asilo e di essere stati espulsi verso la Serbia” si legge nel report, in cui vengono non a caso segnalati 592 casi di pushback illegittimi al confine serbo-romeno. Allo stesso modo, in Ungheria, dove la maggioranza fa ingresso nel Paese a piedi e viene espulsa verso il territorio serbo in numeri considerevoli: le statistiche ufficiali della polizia ungherese parlano di 11.392 respingimenti nel mese di settembre, circa 10mila in ottobre e 9mila in novembre.
Per quanto riguarda le persone coinvolte nei respingimenti, il Prab sottolinea l’elevato numero di persone vulnerabili che subiscono le pratiche illegittime – il 18% dei casi registrati riguarda famiglie con minori – e anche il coinvolgimento di chi avrebbe diritto ad ottenere l’asilo. La seconda nazionalità più coinvolta nelle pratiche di respingimento – dopo quella pakistana (2.220 casi) – è quella afghana (2.027): la violenza sui confini non ha risparmiato neanche le persone in fuga da Kabul che cercano protezione in Europa. Tra agosto e novembre 2021 un totale di 1.696 afghani dichiarano di aver subito un respingimento dalla Croazia alla Bosnia-Erzegovina, comprese 61 persone che hanno subito un respingimento a catena dalla Slovenia, attraverso la Croazia alla Bosnia-Erzegovina. Un numero che include 65 minori stranieri non accompagnati (Msna) e 154 famiglie con 163 bambini. “Le promesse di assistere coloro che affrontano una terribile situazione umanitaria in Afghanistan dovrebbero andare di pari passo di pari passo con la fornitura di un effettivo accesso alla protezione per coloro che sono bloccati alle porte dell’Ue – si legge nel report -. Indipendentemente dal fatto che le persone provenienti dall’Afghanistan siano entrate nei Paesi dell’Unione europea irregolarmente, l’accesso alle procedure di asilo individuale e alla protezione deve essere garantito”.
La situazione descritta dimostra come la Croazia sia ancora lontana dal garantire una gestione dei confini rispettosa dei diritti fondamentali delle persone che vi transitano. Per fermare l’ingresso del Paese nell’area Schenghen non è bastata però né la condanna della Corte di giustizia dell’Unione europea nei confronti del ministero dell’Interno croato per la morte della piccola Madina, né la recente pubblicazione del report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che smaschera le sistematiche violenze lungo i confini croati. Il 9 dicembre 2021 il Consiglio europeo ha dichiarato che il governo di Zagabria “soddisfa le condizioni necessarie per la piena acquisizione dell’acquis di Schenghen”. In attesa del parere, non vincolante, del Parlamento europeo e degli altri Stati membri rispetto a tale decisione preoccupano non solo le denunce ma anche l’efficacia del meccanismo di monitoraggio dei diritti umani alle frontiere previsto dalle autorità croate. La pubblicazione del primo rapporto di questo organo – fortemente criticato per composizione e modalità operative (ne avevamo parlato qui) – ha positivamente stupito le associazioni impegnate sul campo evidenziando che la polizia effettua respingimenti, impedisce alle persone di fare domanda d’asilo e sottolineando che l’onere della prova in relazione all’ammissibilità delle persone sul territorio spetta allo Stato. Ma in breve tempo la versione pubblicata è stata modificata evitando qualsiasi riferimento a violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. “I cambiamenti di linguaggio del rapporto aggiornato sono eccezionalmente problematici – si legge nel report del Prab -. Non solo l’indipendenza del rapporto e del meccanismo viene messa in discussione, ma serve sottolineare come meccanismi inadeguati possano essere usati per mascherare le violazioni dei diritti umani”.
Il Prab cita anche l’Italia con riferimento alle frontiere interne. Su Ventimiglia si segnala una mancanza di assistenza di base e una risposta umanitaria “estremamente carente”. Nel report si segnalano inoltre “rischi specifici per la sicurezza e il benessere mentale tra i migranti vulnerabili come minori, donne che viaggiano da sole e donne con bambini che sono state trattenute insieme a uomini soli, aumentando i rischi di violenza di genere”. Sul confine italo-francese settentrionale, invece, si segnalano soprattutto persone provenienti da Afghanistan, Pakistan e Iran che denunciano casi di detenzione arbitraria per diverse ore da parte delle autorità francesi così come maltrattamenti fisici e verbali. “Inoltre, la modifica dei trasporti pubblici ha lasciato le persone in movimento bloccate a Oulx per diversi giorni nel Rifugio Fraternità Massi, causando sovraffollamento, mancanza di spazio e tensioni”.
Resta alta l’attenzione anche sulla frontiera orientale italo-slovena. Le riammissioni informali attive restano formalmente sospese ma sopravvivono i pattugliamenti misti al confine di cui abbiamo parlato anche su Altreconomia. Non solo. Il Prabsegnala 10 persone respinte a catena verso la Bosnia ed Erzegovina attraverso la Croazia e la Slovenia. Un caso riportato anche dal Border violence monitoring network (Bvmn) – una rete di Ong che mensilmente aggiorna il numero di respingimenti di migranti e richiedenti asilo lungo i confini europei – nel report di novembre che riporta la testimonianza di un gruppo di cittadini pakistani che il 5 novembre 2021 sarebbe stato prima trattenuto nelle vicinanze di Trieste e poi respinto a catena fino a Bihać. Una situazione da monitorare anche in considerazione della dichiarata volontà del prefetto di Trieste di riprendere le pratiche delle riammissioni.
“L’esistenza di casi, non più rari, in cui persone con uno status legale come gli interpreti o altri vengono respinte – conclude il Prab – riflette ulteriormente la normalizzazione dei respingimenti come strumento di gestione delle frontiere. Mentre queste pratiche devono semplicemente smettere di esistere, l’installazione di un efficace e indipendente meccanismo di monitoraggio, che non sia una foglia di fico, può essere uno strumento per ritenere i colpevoli responsabili e garantire accesso alla giustizia alle vittime”.
Foto in evidenza di Diaconia Valdese, tratto dal report Prab
Su Osservatorio DIRITTI
Le giornate mondiali, al di là del loro oggetto specifico, sono un’occasione per fare il punto della situazione. In occasione di questa Giornata internazionale dei migranti 2021, il dato complessivo ci dice che il 96,4% delle persone continua a vivere dove è nato, mentre a spostarsi è il 3,6%, circa una persona su trenta, come sottolinea l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nell’ultimo rapporto mondiale sulle migrazioni (World Migration Report), relativo alla situazione dei migranti nel 2020.
In dati diffuso rivelano, più nel dettaglio, che sono 281 milioni nel mondo le persone che vivono in un Paese diverso da quello di nascita, tre volte di più che nel 1970, quando la popolazione totale era circa la metà di quella odierna.
Allo stesso tempo, ciò ha significato anche un aumento consistente delle rimesse (il denaro inviato nei Paesi di origine): dai 126 miliardi di dollari nel 2000, ai 702 miliardi del 2020. Un valore inferiore del 2,4% rispetto all’anno precedente, a causa anche del Covid-19.
La pandemia ha influito sulla libertà di movimento. Da un lato chiusure delle frontiere, isolamento e restrizioni hanno reso più difficile spostarsi: secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel 2020 11,2 milioni di persone sono state costrette a lasciare per la prima volta il proprio Paese (mentre sono 82,4 milioni in totale). Si tratta di un milione e mezzo di persone in meno rispetto a quanto prospettato prima della pandemia (la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è di 2 milioni in meno).
Allo stesso tempo il Covid-19 ha reso più difficile, a chi avrebbe voluto e potuto farlo, tornare nella terra d’origine. Sempre secondo l’Unhcr, il loro numero continua a diminuire: sono stati 251 mila, il terzo valore più basso registrato negli ultimi dieci anni.
L’emergenza sanitaria ha influito negativamente anche sulle procedure di accoglienza e riconoscimento: sfollati, rifugiati e richiedenti asilo sono stati in molti casi bloccati alle frontiere o nei centri di accoglienza.
Le condizioni di vita dei lavoratori migranti, in particolare di quelli attivi nel settore informale e nell’assistenza sanitaria, sono peggiorate anche a causa delle carenze dei sistemi sanitari e di welfare: lo evidenzia il Rapporto 2020-2021 di Amnesty International, relativo a 149 Stati e dedicato anche alla violenza di genere e alla repressione del dissenso. Ad essere colpiti maggiormente, scrive l’organizzazione, sono stati i gruppi più vulnerabili, tra cui donne e rifugiati, tradizionalmente discriminati dalle politiche dei leader mondiali.
Non bisogna dimenticare però gli effetti sulle migrazioni di altre condizioni, già note ma non per questo meno influenti. Come le dinamiche geopolitiche: mentre la guerra costringe molti ad abbandonare i propri territori, le tensioni fra Paesi mettono in pericolo la cooperazione internazionale, scrive ancora l’Unhcr.
Anche gli eventi climatici estremi, i disastri e le trasformazioni ambientali continuano a colpire milioni di persone: in particolare Africa subsahariana e India sono vittime di una siccità prolungata, mentre ci sono state tempeste tropicali devastanti nei Caraibi, in Africa meridionale e nel Pacifico, oltre a incendi catastrofici in California e Australia, riporta ancora l’organizzazione in difesa dei diritti umani.
Osservatorio Diritti ha raccontato a più riprese quello che sta avvenendo lungo i principali scenari relativi alle migrazioni. Ultimi, in ordine tempo, sono gli approfondimenti relativi alla situazione alla frontiera fra Polonia e Bielorussia, dove migliaia di persone sono costrette a rimanere accampate al confine a temperature sotto lo zero, e la Rotta balcanica (con i migranti che restano bloccati, per esempio, in Bosnia cercando di evitare la violenza della polizia croata).
Ma le situazioni critiche sono un po’ in ogni parte del mondo, dall’Italia(leggi anche I centri di permanenza per il rimpatrio sono «i buchi neri del nostro Paese») all’America Latina (leggi anche Messico, migranti bloccati a Tapachula: nessuno deve arrivare negli Usa), ai massicci movimenti interni all’Africa o in Asia, giusto per fare altri esempi.
Sempre in Europa, secondo il Progetto sui migranti scomparsi dell’Oim, negli ultimi due anni il numero di morti e dispersi nel tentativo di raggiungere la Spagna è quasi quintuplicato, passando da 202 nel 2019 a 937 nel 2021. In questo senso si può parlare di «ritorno della rotta Atlantica».
Il fenomeno è dovuto a una serie di fattori quali, tra l’altro, «le variazioni in termini di permeabilità delle diverse rotte, soprattutto del Mediterraneo occidentale dalla seconda metà del 2019», all’«allentamento degli sforzi di cooperazione nel controllo della costa dell’Africa occidentale» e all’«aumento dell’instabilità politica ed economica e la situazione di conflitto presente in alcuni Paesi di origine dell’emigrazione subsahariana», come scritto nel Dossier Statistico Immigrazione 2021 del Centro Studi e Ricerche Idos (in collaborazione con il Centro Studi Confronti e l’Istituto di Studi Politici San Pio V).
Sempre l’Oim, a morire nel 2021 nel Mediterrano sono state 1.665 persone (quasi 23 mila dal 2014), 121 quelle in viaggio verso altri Paesi europei, 1.126 verso il continente americano, 1.254 verso l’Africa, 89 verso l’Asia occidentale e 249 verso il resto di questo Continente.
Andando a vedere cosa accade nel continente americano, gli Stati Uniti sono una meta tradizionale di coloro che fuggono da Paesi dell’America Latina in crisi economica e politica. Un recente e toccante reportage del National Geographic, testimonia il viaggio degli appartenenti alla comunità Lgbt in cerca di protezione e riporta i respingimenti al confine con il Messico. Il racconto mostra anche che fugge dal Venezuela verso la Bolivia e i cittadini del Guatemala e del Salvador in fuga dalla fame.
Anche l’Unicef il 7 dicembre ha lanciato un’appello per richiamare l’attenzione sull’America Latina e i Caraibi: nel 2022 è previsto che saranno 3,5 milioni i bambini costretti a spostarsi dal proprio Paese, in aumento del 47% rispetto al 2021. Un numero del tutto inedito, ha dichiarato il direttore regionale, Jean Gough.
Le migrazioni, naturalmente, non riguardano soltanto gli spostamenti tra Stati diversi. «Stiamo assistendo a un paradosso mai visto prima nella storia umana», ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, António Vitorino. «Mentre miliardi di persone sono state messe in ginocchio dal Covid-19, altre decine di milioni sono state costrette a spostarsi all’interno del proprio stesso paese».
Secondo il Centro di monitoraggio delle migrazioni interne, un ente istituito nel 1998 dal Consiglio norvegese per i rifugiati, nel mondo sono 55 milioni gli sfollati interni, 48 dei quali a causa di conflitti e violenze e 7 in seguito a disastri. E 40.5 milioni di loro hanno subito questa condizione per la prima volta proprio nel 2020.
Guardando al nostro Paese, secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2021 il numero di persone arrivate sulle nostre coste dal Mediterraneo è circa raddoppiato rispetto all’anno precedente: 63.062 (il 23% dei quali dalla Tunisia), rispetto ai 32.919 del 2020, secondo i dati aggiornati al 14 dicembre 2021.
Lo stesso giorno la fondazione Migrantes (organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana) ha presentato il suo quinto rapporto su richiedenti asilo, rifugiati e migrazioni forzate. Nei primi undici mesi del 2021, a perdere la vita in mare mentre cercavano di raggiungere il nostro Paese sono state 1.559 persone (nel 2020 erano state 1.448).
Il rapporto registra anche un calo in tutto il continente europeo rispetto al 2019 sia degli arrivi “irregolari” di migranti e rifugiati (-12%) sia dei richiedenti asilo (417 mila persone, un terzo in meno).
La Giornata internazionale del Migrante è stata istituita nel 2000 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La scelta del 18 dicembre si deve al fatto che quello stesso giorno di dieci anni prima (1990) l’organismo aveva approvato la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, per prevenirne lo sfruttamento e stabilirne le condizioni minime di riconoscimento e accettazione a livello globale.
La Convenzione è il risultato dell’elaborazione di un apposito gruppo di lavoro istituito nel 1979 (con la Risoluzione 34/172). Entrata in vigore nel 2003, essa non è stata ancora ratificata dall’Italia.
Foto in evidenza di Kripos_NCIS su Osservatorio DIRITTI
Come funzionano le procedure di identificazione e categorizzazione dei migranti, rifugiati o richiedenti asilo che fanno ampio utilizzo di dati biometrici? Quali tutele dal punto di vista della privacy e del diritto vengono rispettate? Ad esplorare la fitta rete delle nuove tecnologie per il controllo delle frontiere è un lungo report realizzato da Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights dal titolo Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia.
Secondo la ricerca, nel momento in cui viene effettuata l’identificazione i migranti hanno ben poche possibilità di conoscere il percorso che faranno i loro dati personali e biometrici, nonché di “opporsi al peso che poi questo flusso di informazioni avrà sulla loro condizione in Italia e in tutta l’Unione Europea. Quest’ultima, infatti, promuove da alcuni anni la necessità di favorire l’identificazione dei migranti, stranieri e richiedenti asilo attraverso un massiccio utilizzo di tecnologie: a partire dal mare, pattugliato con navi e velivoli a pilotaggio remoto che scannerizzano i migranti in arrivo; fino all’approdo sulla terraferma, dove oltre all’imposizione dell’identificazione e del foto-segnalamento i migranti hanno rischiato di vedersi puntata addosso una videocamera intelligente”. Non solo, nel testo si parla anche di come lo stato italiano utilizzi la tecnologia del riconoscimento facciale già da alcuni anni, senza che organizzazioni indipendenti o professionisti possano controllare il suo operato. “Oltre alla mancata trasparenza degli algoritmi che lo fanno funzionare non sono disponibili informazioni chiare sul numero di persone effettivamente comprese all’interno del database che viene utilizzato proprio per realizzare le corrispondenze tra volti, AFIS (acronimo di Automated Fingerprint Identification System) – spiega l’Hermes center.
Secondo l’organizzazione negli ultimi anni si sta verificando una “datificazione della società” attraverso la raccolta indiscriminata di dati personali e l’estrazione di informazioni (e di valore). “Siamo convinti che vada messa in dubbio non solo la tecnologia digitale creata al presunto scopo di favorire il progresso o di dare una risposta oggettiva a fenomeni sociali complessi, ma anche il concetto di tecnologia come neutra e con pressoché simili ripercussioni su tutti gli individui della società – sottolineano nel report -. È importante a nostro parere che qualunque discorso sulla tecnologia racchiuda in sé una più ampia riflessione politica e sociologica, che cerchi di cogliere la differenza tra chi agisce la tecnologia e chi la subisce”.
In particolare, i dati biometrici raccolti al momento dello sbarco o dell’arrivo sul territorio nazionale sono inclusi in un database (AFIS) che contiene potenziali sospetti ed è utilizzato per ritrovare corrispondenze di volti e identità attraverso il sistema di riconoscimento facciale in uso alla polizia italiana, SARI. “Questa criminalizzazione avviene senza la possibilità che la società civile possa conoscere esattamente il numero di persone foto-segnalate per ogni categoria prevista dalla legge, e quindi in modo incontrollabile e opaco” sottolinea il report -. I migranti, rifugiati e richiedenti asilo effettuano un vero e proprio baratto dei loro dati personali e biometrici in cambio di accoglienza. Inoltre, anche se avessero la possibilità di fornire un consenso informato e potessero appieno comprendere il motivo del trattamento dei loro dati personali e biometrici, la situazione di vulnerabilità e di marginalizzazione nella quale si trovano non gli permetterebbe di opporsi o di chiedere modifiche così com’è invece possibile fare a qualsiasi cittadino italiano o europeo”. Nella pratica, dunque, la gestione e il controllo dei flussi migratori in Europa non passa più solo attraverso le politiche dei flussi o il mero controllo delle frontiere ma anche attraverso procedure automatizzate di monitoraggio. “La sperimentazione di tecnologie digitali in materia di migrazione è un fenomeno totalmente sui generis poiché migranti, stranieri e richiedenti asilo sono rappresentati come popolazioni da dover controllare, tracciare e sorvegliare in quanto al di fuori dei confini e dunque della legge – spiegano i ricercatori -. Non è previsto, come per tutti gli altri (cittadini o legalmente residenti all’interno dei confini statali e dell’UE), sia determinata una ragione specifica per la quale le persone in movimento debbano essere controllate poiché è la loro intrinseca situazione che le rende oggetto di tale sorveglianza. Di conseguenza la sperimentazione tecnologica si verifica in zone grigie, in cui la responsabilità dello stato e dei governi è ridimensionata grandemente per via dell’ambito in cui viene agita. Lo scopo principale dell’utilizzo di tecnologie avanzate come quelle biometriche è, da non dimenticare, quello di raccogliere dati e informazioni strettamente personali e uniche, operando un’attenta analisi per effettuare un controllo sui corpi che attraversano i confini e gli spazi”
Nel report sono contenute anche delle richieste esplicite al Governo italiano, in particolare relativamente alla gestione dei database che raccolgono dati biometrici di persone che appartengono a categorie vulnerabili come i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo, in modo tale che queste informazioni non vengano “diluite” tra quelle relative allo stato legale ad esempio di una persona che ha commesso qualsiasi reato penale. “Includere nello stesso database persone che hanno commesso furti o omicidi, persone che hanno un permesso di soggiorno, e chi è invece migrante o richiedente asilo rischia di minare i diritti fondamentali degli interessati – si legge nel testo -. Chi è incluso nel database AFIS è considerato automaticamente un potenziale sospetto e la sua identità digitale biometrica è sottoposta una perquisizione ogni qualvolta il sistema SARI viene utilizzato”. inoltre, si chiede al Ministero dell’Interno di chiarire i tempi di conservazione dei dati inclusi in AFIS e la composizione del database, sottoponendolo all’attenta analisi del Garante per la protezione dei dati personali. “All’interno degli hotspot e, in generale, tra le organizzazioni che impiegano mediatori culturali dovrebbero essere favorite formazioni in materia di protezione dei dati personali dei migranti nonché, per quanto possibile, relative al consenso informato – continuano i ricercatori -. Chi si occupa di prima e seconda accoglienza, a conclusione di tutto il discorso esposto, si trova indubbiamente nella posizione più difficile: di fronte alla necessità e urgenza di prestare aiuto legale, materiale e psicologico alle persone che arrivano in Italia dopo lunghi e difficili viaggi, gli aspetti legati alla dimensione tecnologica e al trattamento dei dati personali passano chiaramente in secondo piano”.
Avin aveva 38 anni e un figlio in grembo, morto da venti giorni, quando è deceduta per setticemia. All’arrivo in ospedale la sua temperatura corporea misurava 27 gradi. Troppo freddo, troppa fame, troppa sete in quel bosco in cui si nascondeva, insieme al marito Murad e ai suoi altri cinque figli, dai primi di novembre. Partiti dal Kurdistan iracheno, i sette ambivano semplicemente a una vita migliore. Per questo si erano messi in viaggio, cercando di varcare l’ennesima frontiera.
Avin è solo l’ennesima morte avvenuta in quel confine bielorusso, dove è difficile stimare il numero delle persone che transitano e sostano. Secondo il governo polacco, queste ultime sarebbero 5mila. Ma come si può dirlo con certezza? Da mesi, in quel tratto di confine che separa la Bielorussia dalla Polonia, non è consentito l’accesso a nessuno che non abbia il lasciapassare della polizia di frontiera. Divieto assoluto per chiunque, soprattutto per giornalisti, personale delle ong, dell’Unhcr, associazioni di aiuto umanitario. Persino a cinque europarlamentari è stato negato il passaggio qualche giorno fa.
In questo confine, secondo Grupa Granica – una sigla che mette insieme 14 associazioni polacche che si occupano di migranti e svolgono azione di monitoraggio e denuncia lungo la frontiera –, quando finirà l’inverno, si scioglierà la neve e verranno rimosse le restrizioni all’accesso, si scopriranno tanti cadaveri.
Intanto però, nessuno deve essere testimone di quel che davvero accade tra quei boschi. Nessuno deve portare aiuto e conforto dove, da agosto, centinaia e centinaia di profughi iracheni, afghani, siriani, yemeniti, somali transitano. Alcuni già richiusi nei centri di detenzione gestiti dalla polizia di frontiera, altri, tantissimi, in movimento in mezzo alle foreste tra Bielorussia e Polonia, ma anche Lituania e Lettonia.
E proprio tra i boschi polacchi, dal 10 dicembre, si aprirà la caccia al cinghiale. La notizia dell’autorizzazione da parte del governo, arrivata qualche giorno fa, ha destato le proteste di varie associazioni della società civile e umanitarie: una decisione irresponsabile e inumana, troppo il rischio per chi si muove nello stesso sottobosco, cercando di sfuggire ai controlli della polizia. Sono 14mila gli agenti che pattugliano quel lato del confine polacco.
E tra chi pattuglia c’è anche chi si blinda, respinge e rimpatria. La Polonia ha già iniziato a costruire la recinzione che dovrebbe separarla dalla Bielorussia: il muro di filo spinato, lungo 180 chilometri e alto 5,5 metri, dovrebbe essere finito entro metà 2022. Prima dunque di quello lituano, per cui sono stati stanziati 152 milioni di euro. Il muro della Lituania, che va a integrare il mucchio di filo spinato che già esiste, sarà dotato di attrezzature sofisticate di videosorveglianza, sarà lungo 500 chilometri e concluso entro settembre del prossimo anno.
E mentre si erigono barriere, per venire incontro a questi paesi, la commissione europea ha proposto, i primi di dicembre, misure eccezionali e temporanee che consentono a Polonia, Lettonia e Lituania di rimpatriare con maggiore flessibilità chi entra irregolarmente dal confine bielorusso. Procedure rapide che, riconosciute dalle istituzioni europee, finiscono, secondo Amnesty International, per normalizzare la disumanizzazione dei rimpatri.
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