Di Ian Urbina su The New Yorker
Una serie di magazzini improvvisati si trova lungo l’autostrada a Ghout al-Shaal, un quartiere logoro di officine di riparazione auto e cantieri di demolizione a Tripoli, la capitale della Libia. Precedentemente un deposito di cemento, il sito è stato riaperto nel gennaio 2021, le sue pareti esterne sono state rialzate e ricoperte di filo spinato. Uomini in uniforme mimetica nera e blu, armati di fucili Kalashnikov, fanno la guardia intorno a un container blu che passa per un ufficio. Sul cancello, un cartello recita “Direzione per la lotta alla migrazione illegale”. La struttura è una prigione segreta per migranti. Il suo nome, in arabo, è Al Mabani, “gli edifici”.
Alle 3 del mattino del 5 febbraio 2021, Aliou Candé, un robusto e timido migrante di ventotto anni della Guinea-Bissau, è arrivato al carcere. Aveva lasciato casa un anno e mezzo prima, perché la fattoria della sua famiglia stava fallendo, e aveva deciso di raggiungere due fratelli in Europa. Ma, mentre tentava di attraversare il Mar Mediterraneo su un gommone, con più di un centinaio di altri migranti, la Guardia costiera libica li ha intercettati e portati ad Al Mabani. Sono stati spinti all’interno della cella n. 4, dove erano detenuti altri duecento. Non c’era quasi nessun posto dove sedersi nella calca dei corpi, e quelli sul pavimento scivolarono per evitare di essere calpestati. In alto c’erano luci fluorescenti che restavano accese tutta la notte. Una piccola grata nella porta, larga circa un piede, era l’unica fonte di luce naturale. Gli uccelli nidificavano nelle travi, le loro piume e gli escrementi cadevano dall’alto. Sulle pareti, i migranti avevano scarabocchiato note di determinazione: “Un soldato non si ritira mai” e “Con gli occhi chiusi, avanziamo”. Candé si accalcò in un angolo lontano e cominciò a farsi prendere dal panico. “Cosa dovremmo fare?” chiese a un compagno di cella.
Nessuno al mondo al di là delle mura di Al Mabani sapeva che Candé era stato catturato. Non era stato accusato di un crimine né gli era stato permesso di parlare con un avvocato, e non gli era stata data alcuna indicazione di quanto tempo sarebbe stato detenuto. Nei suoi primi giorni lì, si sottomise alla triste routine del luogo. La prigione è controllata da una milizia che si autodefinisce “Agenzia di Pubblica Sicurezza”. Vi erano detenuti circa millecinquecento migranti, in otto celle, rinchiusi per genere. C’era solo un bagno ogni cento persone e Candé doveva spesso urinare in una bottiglia d’acqua o defecare sotto la doccia. I migranti dormivano su materassini sottili. I detenuti litigavano su chi potesse dormire sotto la doccia, che aveva una migliore ventilazione. Due volte al giorno venivano fatti marciare, in fila indiana, nel cortile, dove era loro proibito alzare gli occhi al cielo o parlare. Le guardie, come i guardiani dello zoo, mettono a terra ciotole comuni di cibo e i migranti si radunano in cerchio per mangiare.
L’articolo completo in inglese qui.
INTERSOS e UNHCR Italia chiudono la quarta edizione del programma PartecipAzione – azioni per la protezione e la partecipazione dei rifugiati con un evento che si terrà il 3 e 4 dicembre a Roma, presso il Mattatoio di Testaccio.
Durante l’evento verranno discusse alcune fra le tematiche più attuali in ambito di integrazione dei rifugiati, attraverso un confronto sul ruolo che le persone rifugiate e le loro associazioni hanno nella nostra società. Dibattiti, workshop e iniziative culturali accompagneranno i partecipanti attraverso i risultati del programma, i progetti realizzati, le associazioni e le persone rifugiate protagoniste di PartecipAzione.
In particolare, venerdì 3 Dicembre, giornata aperta al pubblico, è prevista una tavola rotonda “La partecipazione delle persone rifugiate in Italia: una chiave per l’integrazione” a cui parteciperanno: Fabrizio Barca, Coordinatore, Forum Disuguaglianze e Diversità; Carlo Borgomeo, Presidente, Fondazione con il Sud; Giovanna Castagna, Responsabile programmi, Open Society Initiative for Europe; Ana de Vega, Responsabile Protezione Senior, UNHCR; Mara Di Lullo, Prefetto, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno; e Yagoub Kibeida, Direttore, Associazione Mosaico – azioni per i rifugiati. Moderano Carlotta Sami, Portavoce UNHCR in Italia e Alidad Shiri, Rappresentante, Unione Nazionale Italiana per Rifugiati ed Esuli.
Alla due giorni parteciperanno anche Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, Kostas Moschochoritis, Direttore Generale di INTERSOS, e Cesare Fermi, Responsabile dell’Unità migrazione di INTERSOS.
“Il programma PartecipAzione è un esempio innovativo e creativo di coinvolgimento delle comunità di rifugiati, che dimostra come chi fugge dal suo paese, a causa di guerre e persecuzioni, porti con sé un valore aggiunto per le società, le comunità e l’economia dei Paesi di asilo,” ha ricordato Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino “PartecipAzione intende promuovere e valorizzare la voce, le risorse, le iniziative di quei rifugiati che spesso rimangono più ai margini, anche all’interno delle loro comunità: i giovani, le donne, le persone LGBTQI+. E’ cruciale che ai rifugiati venga offerta l’opportunità di divenire soggetti attivi della società affinché possano partecipare ai processi decisionali che li riguardano”, ha concluso Chiara Cardoletti.
“Questa quarta edizione del programma PartecipAzione ha consolidato i risultati positivi ottenuti nelle passate edizioni. Sono infatti diversi gli esempi di associazioni di rifugiati per cui PartecipAzione ha rappresentato un trampolino di lancio per un ruolo attivo nella società italiana, accreditandosi come interlocutori credibili presso istituzioni locali, nazionali e internazionali”, ha dichiarato Cesare Fermi, Responsabile dell’Unità migrazione di INTERSOS, che ha aggiunto: “Nonostante la pandemia e la crisi economica provocata da quest’ultima, il programma è riuscito anche quest’anno ad espandersi in nuove realtà italiane, con una particolare attenzione verso i centri urbani di medie e piccole dimensioni, con un focus particolare sull’integrazione socio-economica nella nostra società”.
All’evento finale saranno presenti rappresentanti delle sette associazioni vincitrici dell’edizione 2021 di PartecipAzione: C.U.C.I.R.E. (Palermo), Fuori Mercato (Campobello di Mazara, TP), Il Faro del Borgo (Borgo Mezzanone, FG), Circolo Culturale Arci RadioAttiva (Carrara), Sotto il Baobab (Canelli, AT), Smiling Coast of Africa (Brindisi) e le associazioni Genitori Scuola Di Donato/Rifugiati Sudanesi di Via Scorticabove (Roma).
Per partecipare alla giornata del 3 Dicembre è necessaria la registrazione: Fabrizio Mosca – Communication Officer PartecipAzione INTERSOS, tel: 340-6692562 – mail: fabrizio.mosca@intersos.org
Piera Francesca Mastantuono
Di Angela Caponnetto su Articolo 21
Da settimane la narrazione sui flussi migratori fatta dai media nazionali si concentra sui luoghi di crisi fuor dai nostri confini. Polonia-Bielorussia, Francia-Gran Bretagna, Marocco-Spagna, Balcani-Grecia. Tralasciando o citando in modo superficiale quanto ancora accade nei nostri porti dove da inizio anno sono sbarcate circa 60.000 persone migranti che potrebbero essere tra quelle in attesa di attraversare la Manica a Calais, che hanno già hanno tentato la traversata o che sono annegate nel tentativo di raggiungere l’Inghilterra. Mentre c’è chi parla degli sbarchi nel nostro paese per fare improbabili connessioni tra l’ingresso della variante arrivata dal sud Africa e gli sbarchi dei migranti nei nostri porti. Pur non essendo sbarcato neanche un migrante sudafricano, proveniente da uno dei sei paesi a rischio. Oltre ad essere chiaro che la variante ha attraversato il continente africano in tutt’atro modo: con molta probabilità portato da turisti e imprenditori europei in viaggio di piacere o di affari.
D’altro canto, tenere il racconto fuori dal nostro “giardino” non servirà a fermare le fake news sui flussi migratori così come non potrà a lungo nascondere il dato di fatto che i flussi sono sempre più in crescita e pressanti.
Migliaia di vite approdano, e continueranno ad approdare, nel nostro paese con cadenza sempre più fitta e in condizioni meteorologiche che mettono a dura prova i soccorritori: siano essi dei corpi Guardia Costiera e Finanza siano operatori di organizzazioni non governative. Il racconto dei soccorsi di questi giorni arriva all’utente quasi come un lavoro di routine pur non essendolo affatto perché il mare stesso, nella sua imprevedibilità, lo rende un lavoro diverso ogni volta. Così come sono diverse le storie e le persone soccorse.
Non è routine soccorrere una puerpera che ha partorito su un barcone con 240 – per lo più siriani e palestinesi partiti dalla Libia orientale – a bordo di un peschereccio sferzato da una tempesta al largo delle coste calabresi. Non è routine il difficile lavoro della guardia costiera che carica di 80 vite umane su una CP 300, compresi la mamma con il suo neonato. E ci riesce solo con l’aiuto di due mercantili che si mettono di traverso per arginare il vento e le onde. Non è routine, quando alla fine di una nottata da incubo, i soccorritori dicono con voce sollevata: “prendi il bambino e la sorellina” porgendoli a braccia tese agli operatori sul molo di Roccella Ionica.
Eppure in pochissimi hanno raccontato i dettagli delle ore frenetiche, faticose, preoccupate, di questo soccorso come di tanti altri passati in sordina.
Da tutto il nord Africa sono partiti così in migliaia nel 2021. I flussi sono aumentati anche a soprattutto a causa della pandemia che ha impoverito ulteriormente paesi che come l’Egitto e la Tunisia dove l’economia, soprattutto quella che si reggeva sul turismo, é ora in ginocchio. Non è un caso che la maggior parte delle persone sbarcate in Italia siano tunisini ed egiziani. Come non è un caso che molti di loro, li rivedrete nelle “jungle” italiane al confine con la Francia o in viaggio verso il nord Europa. Perché é lì che sperano di assestarsi cercando di raggiungere parenti e amici già insediatisi in passato.
Queste persone non sono diverse da quelle che vediamo morire di freddo in Bielorussia, annegati nella Manica o tra l’Africa e le Canarie. Sono le stesse persone che sono state costrette a lasciare la loro terra che tenteranno il tutto e per tutto, persino di partire con le doglie pur di salvarsi da qualcosa che per noi non è neanche immaginabile.
Questo dobbiamo continuare a raccontare e documentare: insieme ai numeri le storie e le vite che ruotano intorno a questi numeri. Non solo quelle dei migranti ma anche quelle di chi li soccorre e di chi li accoglie, militari e civili. Sfatando luoghi comuni, false notizie ed evitando di sorvolare su ciò che accade nel nostro giardino che resta uno dei luoghi di approdo preferiti da persone che non hanno alternativa alcuna se non affidarsi ai trafficanti. Finché altre soluzioni non saranno trovate.
Foto in evidenza di Articolo 21
epa09591468 A Syrian migrant Masour Nassar (R), 42-year-old from Aleppo, and an Iraq migrant Aland (L), 20-year-old, are escorted by Polish border guards from emergency ward after crossing Polish-Belarus forder, in the hospital in city of Bielsk Podlaski, near the Polish-Belarusian border, eastern Poland, 19 November 2021. Poland has been struggling to stem the flow of asylum-seekers, refugees and migrants crossing into the country from Belarus. The Polish government says the migrants have been invited to Belarus by the Belarusian president, allegedly under the promise they will be able to live in the EU. EPA/MARTIN DIVISEK
Di Rosita Rijtano su lavialibera
Un uomo guida sulla statale che collega Varsavia ai paesi di confine con la Bielorussia, una strada lunga e a tratti così buia da sembrare inghiottita dal bosco. Parla del suo lavoro nel campo finanziario dando di tanto in tanto un’occhiata alla mappa che ci guida, sull’ultimo modello di un iPhone. Le dita tamburellano sul volante, nervose. Poi, solo per un istante, si volta e d’un fiato confessa: “Io ne ho trasportati quattro”. Quattro che? “Migranti. Due giovani iracheni e una donna siriana con una bimba piccola che per il mal d’auto ha vomitato tutto il tempo. Li ho accompagnati nella capitale per evitare che venissero rispediti indietro”.
Iwo, nome di fantasia, fa parte di una rete di attivisti e cittadini della Polonia che aiuta chi è riuscito ad attraversare la frontiera ad allontanarsi dalla zona di confine. È una rete clandestina, che si fonda sul passaparola, su itinerari protetti e luoghi sicuri. Ricorda la Ferrovia sotterranea, il network di abolizionisti che nell’Ottocento forniva supporto agli schiavi afroamericani in fuga dal Sud al Nord degli Stati Uniti, a cui è ispirato l’omonimo romanzo dello scrittore Colson Whitehead, vincitore del premio Pulitzer. L’obiettivo, spiegano alcuni attivisti che hanno deciso di denunciare a lavialibera una “situazione inumana”, è rendere più difficili i respingimenti in Bielorussia che le autorità di Varsavia stanno conducendo nei confronti dei migranti intercettati in territorio polacco, senza tener conto della volontà di chiedere asilo: una pratica che in teoria viola i trattati internazionali, ma di fatto viene adottata in molti Stati alle porte d’Europa. I ribelli sono circa un centinaio, forse anche di più, ma è impossibile saperlo con esattezza perché “per paura” non ne parlano con nessuno, “neanche con i propri parenti”: per comunicare usano app di messaggistica sicura e chat che scompaiono dopo pochi minuti. “Quelli come me – dice Iwo – sono solo l’ultimo anello di una complessa catena organizzativa. Prima di salire in auto, ogni persona è stata nascosta, nutrita, e informata su dove farsi trovare, e a che ora. Serve un grande lavoro di logistica”.
C’è chi gestisce le richieste di aiuto dei migranti nascosti nella foresta, chi organizza i dettagli dei viaggi, e poi ci sono gli abitanti dell’area d’emergenza: il lenzuolo di terra che si trova a tre chilometri dal confine e a cui, per volere del governo polacco, da quasi tre mesi non possono accedere né le organizzazioni umanitarie né i giornalisti. Ai residenti spetta il compito di lasciare cibo, acqua e vestiti in determinati punti del bosco. Alcuni fanno di più: in attesa del momento giusto per farli scappare, ospitano i migranti in casa, “preparandogli anche da mangiare”. Il piatto più richiesto, assicura Iwo, è il “minestrone: l’ideale dopo tanti giorni passati al freddo”.
Il trasporto è affidato a gente che arriva dalle città: donne e uomini, spesso giovani, che prendono una settimana di ferie dal lavoro e a volte macinano centinaia di chilometri, rischiando di farsi arrestare dalle forze dell’ordine che presidiano le strade del Paese dall’inizio della crisi. È successo a Pawel e Justyna Wrabec, entrambi attivisti di Obywateli RP, un movimento politico che porta avanti azioni di disobbedienza civile. Seduti sulle panche di legno di una tipica trattoria di Hajnówka, piccolo comune della Polonia nord-orientale, raccontano di aver cominciato a fare avanti e indietro dal confine a casa loro, che si trova a oltre 700 chilometri di distanza, ad agosto. Guardando le immagini dei bambini davanti al filo spinato, Pawel ha pensato ai suoi antenati sterminati durante la guerra e ai racconti degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, ascoltati da ragazzo, che gli hanno fatto capire l’importanza di trovare aiuto. Justyna non ce l’ha fatta ad accettare l’idea di rimanere sul divano tranquilla, mentre le “persone muoiono nella foresta. Nessuno merita di morire in questo modo”.
Si sono messi in auto e hanno offerto un passaggio a chi hanno trovato per strada. Qualcuno sono riusciti a “metterlo in salvo”, dicono, poi li hanno fermati. Si trovavano poco lontano da qui, quando il 28 ottobre scorso sono stati bloccati da una macchina della polizia. A bordo della loro Nissan trasportavano due ragazzi iracheni. “Ci hanno ammanettati e portati in prigione – ricorda Justyna –. Durante la perquisizione, io sono stata anche denudata. Abbiamo subito un interrogatorio lungo quattro ore. Dopo di che, ci hanno sistemato in due celle separate, senza darci la possibilità di parlare, e ci hanno fatto passare la notte in carcere. È stata un’esperienza traumatica, ma ancor più traumatico è stato vedere i ragazzi portati via dalla guardia di frontiera. Ci avevano detto di essere rimasti nella foresta per 40 giorni, erano stremati: uno dei due, che avrà avuto non più di 18 anni, è scoppiato in lacrime”.
Ora Pawel e Justyna rischiano di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la pena può arrivare fino a otto anni di carcere. Hanno un po’ paura, ma lo rifarebbero: “Il governo ha adottato una politica criminale e inumana, rendendo illegale l’unico aiuto possibile. Sappiamo che là fuori ci sono ancora centinaia di donne, uomini e bambini. E non sono attrezzati per l’inverno”, spiegano. Intanto, cade la prima neve.
Foto in evidenza di Martin Divisek/Epa su lavialibera
Di Pierre Haski su France Inter, traduzione di Andrea Sparacino su Internazionale
La morte di 27 migranti nella Manica ha creato un trauma: l’ennesimo, saremmo tentati di dire senza cinismo. La settimana scorsa 75 migranti avevano perso la vita nel Mediterraneo dopo essere partiti dalla Libia a bordo di un barcone sovraffollato, portando a 1.300 il numero di morti dall’inizio dell’anno. Il tutto nell’indifferenza più assoluta. Due settimane fa, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, altri migranti, strumentalizzati dal dittatore di Minsk, sono stati sballottati da una parte all’altra del confine, e alcuni sono morti in quella terra di nessuno congelata.
L’unica conclusione che si possa trarre da queste tragedie che si ripetono in quasi tutte le frontiere esterne dell’Europa è che noi, abitanti della potente e ricca Europa (Regno Unito compreso, per una volta) non abbiamo ancora una risposta al problema. Eppure è da anni che questo dramma coinvolge l’Europa, dai naufragi di Lampedusa ai campi profughi simili a prigioni di Samos, in Grecia, dalle alte barriere dell’enclave spagnola di Ceuta all’indegna giungla francese di Calais.
I motivi di questa impasse non mancano: timore di un ritorno dei venti populisti, differenze di vedute tra i vari paesi europei, egoismi nazionali o semplicemente paura dell’”altro”.
Il caso particolare degli afgani evidenzia tutte le nostre contraddizioni. In occasione della caduta di Kabul in mano ai taliban, con immagini apocalittiche che arrivavano dall’aeroporto, tutti erano d’accordo sulla necessità di aiutare il maggior numero di persone a partire. La mobilitazione delle amministrazioni comunali, delle associazioni e dei singoli cittadini ha permesso di accogliere dignitosamente migliaia di afgani che erano riusciti a salire a bordo di un aereo. Ma molte afgane e afgani appartenenti ad altri ceti sociali, arrivati con altri mezzi, non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
Per qualche giorno, ma solo per qualche giorno, lo slancio per aiutare i profughi afgani ci ha ricordato la fine degli anni settanta, quando la Francia accolse 120mila boat people dal Vietnam in fuga dalla vittoria comunista dopo una mobilitazione da parte degli intellettuali di ogni orientamento, da destra a sinistra, compresi i fratelli-nemici della filosofia francese Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. Uno scenario simile oggi è impensabile, perché il momento è segnato da un dibattito deleterio sul tema e dai muri, reali e mentali.
L’argomento sarà uno dei più difficili per la presidenza francese dell’Unione europea, nel primo semestre del 2022, con la riforma delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo. La Commissione europea ha avanzato alcune proposte, ma il dialogo è paralizzato dalle divisioni tra gli stati, e non solo a est del continente. La Danimarca, pur guidata dai socialdemocratici, presenta per esempio una delle politiche migratorie più restrittive del continente.
Qualche giorno fa uno degli osservatori più acuti di questo dibattito, il politologo bulgaro Ivan Krastev, sottolineava che i politici europei “si sentono incapaci di aiutare chi vuole più democrazia nel proprio paese e temono l’arrivo dei migranti”.
Con una punta d’ironia amara, Krastev ha aggiunto che “Bruxelles ha paura delle stesse cose che determinano la sua forza di attrazione. Una volta l’Europa si faceva forte dell’idea che molte persone nel mondo volessero vivere come i suoi cittadini. Oggi questa idea la spaventa”. È un paradosso su cui meditare, in attesa che arrivi la prossima tragedia.
Immagine in evidenza di Kiran Ridley/Getty Images su Internazionale
Su Caritas Italiana
“La costruzione di muri e il ritorno dei migranti in luoghi non sicuri appaiono come l’unica soluzione di cui i governi siano capaci per gestire la mobilità umana”. Così papa Francesco ha stigmatizzato “nazionalismi e populismi si riaffacciano a diverse latitudini”. Anche in Europa. Dalla Bosnia, alla Serbia, alla Polonia, alla Bielorussia, passando per la Grecia, tutti siamo testimoni di una disumanità che stride con i valori su cui è fondata l’Unione Europea. Il dialogo fra stati membri è necessario, ma è altrettanto necessario ribadire che alcuni valori non sono negoziabili, a partire dall’accoglienza e dalla protezione di chi, per una ragione od un’altra, è costretto a lasciare la propria casa.
La crisi dei migranti in questi giorni ha posto nuovamente l’attenzione sulla cosiddetta rotta balcanica, il percorso spesso utilizzato da chi, proveniente principalmente da Afghanistan, Pakistan e Siria, cerca di raggiungere l’Unione Europea alla ricerca di un futuro migliore. Una meta che diventa sempre più difficile e molti sono costretti a dormire all’aperto, in condizioni di estrema precarietà, fino a volte a morire di freddo.
Non possiamo più assistere inermi alla violazione ripetuta dei diritti delle persone che premono ai nostri confini chiedendo protezione. È sorprendente – come ha sottolineato il Presidente Mattarella, “il divario tra i grandi principi proclamati dai padri fondatori dell’Ue e il non tenere conto della fame e del freddo a cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione europea”. Neppure l’arida analisi dei numeri giustifica simili barriere e trattamenti: i richiedenti asilo sono solo lo 0,59% della popolazione dell’Unione che nel bilancio 2021-2027 ha previsto ben 6,24 miliardi di euro per il Fondo per la gestione delle frontiere esterne.
Non si può più temporeggiare, bisogna che l’Unione europea e tutti gli stati coinvolti agiscano con decisione e rapidità per trovare soluzioni almeno temporanee e salvare vite umane.
Nell’area vicino al confine con la Bielorussia è stato introdotto lo stato di emergenza. La Caritas – sottolinea Padre Andrey Aniskevich, Direttore di Caritas Bielorussia – cerca di dare sostegno ai migranti attraverso le parrocchie e una rete di volontari distribuendo aiuti umanitari: coperte termiche, acqua minerale, barrette energetiche e guanti. Anche Caritas Polonia sta fornendo vestiti caldi, prodotti per l’igiene, giocattoli per bambini, cibo a 16 centri di accoglienza. Nei prossimi giorni, nelle aree vicine al confine, verranno erette quattro delle cosiddette Tende della Speranza, a sostegno delle attività delle Caritas parrocchiali locali. Fungeranno da magazzini e luoghi di incontro dove verrà fornita tutta l’assistenza necessaria in questo momento di crisi. Questi aiuti includono la consegna e la distribuzione di vestiti invernali e la preparazione dei pasti.
La Conferenza episcopale polacca, attraverso un appello del Presidente, l’arcivescovo Stanisław Gądecki ha invitato le parrocchie per il 21 novembre a organizzare momenti di preghiera e raccolte fondi, così come hanno fatto nei giorni scorsi i Vescovi della Bielorussia.
Per approfondimenti vai al Dossier “Bussano alle nostre porte: Europa murata”
Foto in evidenza di Caritas Italiana
Durante queste giornate gli esperti discuteranno le attività di Speak Up!, un progetto transeuropeo volto a integrare i giovani migranti appena arrivati attraverso produzioni radio e video e media literacy training.
L’obiettivo generale dell’incontro di esperti internazionali è condividere idee per contribuire all’integrazione dei giovani in movimento nei paesi ospitanti e promuovere il Manifesto di Speak Up!.
L’incontro riunirà formatori coinvolti nella realizzazione di workshop di produzione video e radio con giovani migranti, nonché professionisti che hanno contribuito all’elaborazione e alla promozione del Manifesto per giornalisti e attivisti in Europa, il quale fornisce indicazioni utili ad affrontare meglio le questioni migratorie nei loro media.
Per leggere il programma clicca qui.
Su Altreconomia
Gli Stati membri dell’Unione europea, in collaborazione con Frontex, vogliono rimpatriare almeno 850 cittadini afghani all’anno a partire dall’aprile 2022. Secondo un nuovo bando pubblicato dall’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee, l’Afghanistan rientra infatti tra le “priorità” nella realizzazione di percorsi di reinsediamento e integrazione dei cosiddetti “irregolari” che faranno rientro nel Paese d’origine nel periodo compreso tra il 2022 e il 2026. La presa del potere dei Talebani dell’agosto 2021 sembra così non incidere sulla pianificazione delle istituzioni europee nella gestione del fenomeno migratorio.
L’appalto riguarda le attività congiunte dell’Agenzia con gli Stati membri per fornire assistenza post-arrivo alle persone rimpatriate e prevede un cofinanziamento pari a 14,3 milioni di euro solo per il 2022, con un budget complessivo di oltre 80 milioni di euro da utilizzare entro il 2026. I partner selezionati lavoreranno così per un periodo di quattro anni, con possibilità di proroga di due. L’obiettivo specifico del progetto è quello di garantire “un’assistenza di alta qualità post-arrivo per tre giorni” e un supporto nella “reintegrazione post-rientro a lungo termine per un periodo pari fino a 12 mesi”. Nel bando si legge che la classifica dei Paesi coinvolti è stata sviluppata in collaborazione con gli Stati membri: “Rappresenta i Paesi di rimpatrio classificati in ordine di priorità, sulla base dell’analisi del numero di persone rimpatriate rispetto alla stima dei Paesi d’origine ammissibili e richiesti dagli Stati stessi”.
Il bando è stato pubblicato il 5 novembre 2021 sul sito dell’Agenzia e la definitiva presa del potere dei Talebani in estate non è stata presa in considerazione: l’Afghanistan è al terzo posto, dietro Iraq e Russia. Per ogni Paese è indicata una stima “del numero di persone che avrebbero diritto a ricevere assistenza per la reintegrazione dopo il ritorno, all’anno”. In altri termini, 850 afghani all’anno – così dicono i documenti di gara – dall’aprile 2022 al dicembre 2026 dovrebbero essere supportati nel loro percorso di reinsediamento. Entro metà febbraio 2022 i partecipanti al bando dovranno presentare le proposte specifiche per ogni Paese. Tra i criteri di selezione c’è la disponibilità in capo all’organizzazione di un ufficio nella capitale o nelle principali città dello Stato interessato, una rete di collaborazioni efficace, la possibilità di fare colloqui in presenza e online con le persone supportate, l’accesso a internet. Oltre alla descrizione del processo di reintegrazione si chiede di spiegare “il processo di valutazione della necessità di assistenza specializzata per le persone vulnerabili, compresi, ma non solo, i minori non accompagnati, le donne sole, le vittime della tratta, gli anziani”. Non escludendo così il rimpatrio anche di queste persone.
Non è dato sapere quando sia stata stilata la classifica ma sono rilevanti almeno due profili. Il 10 agosto 2021, pochi giorni prima della presa di Kabul, i ministri degli Esteri di Grecia, Belgio, Danimarca, Austria, Paesi Bassi e Germania hanno inviato una lettera ai commissari dell’Unione europea Mararitis Schinas e Ylva Johansson sottolineando “l’importanza di rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione” nonostante la delicata situazione nel Paese alla luce del ritiro delle truppe internazionali. L’obiettivo era chiaro: non far sì che la ritirata delle truppe internazionali fosse ritenuta automaticamente un motivo per fermare i rimpatri. L’inserimento nel bando dell’Afghanistan è rilevante soprattutto per il medio periodo: sembra difficile che da aprile 2022 si possano organizzare voli charter verso Kabul ma l’esigenza è di non bloccare “automaticamente” le procedure di rimpatrio per i prossimi quattro anni.
Il finanziamento prevede un importo pari a 2mila euro per ogni “pacchetto” a lungo termine post-rimpatrio concesso a colui che sceglie la via del rientro volontario, mille euro per chi viene rimpatriato forzatamente. Per ogni famigliare a carico, a prescindere dalla modalità, vengono aggiunti altri mille euro. Queste somme possono essere utilizzate per il supporto finanziario, l’affitto dell’abitazione e le spese connesse (oltre che l’invio a specifici servizi in caso, ad esempio, di vittime di tratta), l’assistenza sanitaria, l’inserimento scolastico. Oltre questa cifra, sono previsti 615 euro a persona per il supporto per il post-arrivo che coprono le necessità urgenti sanitarie, di sistemazione in alloggi, di trasporto sul territorio. L’analisi degli altri Paesi indicati nel bando sembra dare chiare linee sulla politica di rimpatrio europea: circa 1.400 per l’Iraq, 800 per la Russia, 600 per il Pakistan, 150 Somalia e 250 in El Salvador. Numeri contenuti, invece, quelli riguardanti le persone rimpatriate maggiormente dalle autorità italiane: 75 in Egitto, 50 in Albania e appena 25 in Tunisia. Dal 17 dicembre 2021 sarà possibile conoscere il nome dei partecipanti e, soprattutto, da metà febbraio 2022 l’eventuale strategia per il reinsediamento di cittadine e cittadini afghani nell’inferno di Kabul.
Foto in evidenza di Altreconomia
Su UNHCR
Secondo il rapporto Mid-Year Trends pubblicato da UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, nel semestre gennaio-giugno 2021 si registra una tendenza al rialzo degli esodi forzati: più di 84 milioni sono le persone costrette nel mondo a fuggire a causa di violenze, insicurezza e degli effetti dell’emergenza climatica.
L’incremento rispetto alle 82,4 milioni di persone costrette a fuggire registrate a fine 2020 deriva in larga parte dall’aumento di sfollati interni, con sempre più persone in fuga dai molteplici conflitti in tutto il mondo, specialmente in Africa. Il rapporto, inoltre, osserva come le restrizioni ai confini imposte dal COVID-19 abbiano continuato a limitare l’accesso all’esercizio del diritto di asilo in numerose parti del mondo.
“La comunità internazionale sta venendo meno alla responsabilità di prevenire violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani, fattori che continuano a costringere le persone a fuggire dalla propria terra”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario ONU per i Rifugiati. “Inoltre, gli effetti dei cambiamenti climatici stanno aggravando le vulnerabilità esistenti in numerose aree che accolgono le persone costrette a fuggire”.
Violenze e conflitti esplosi in tutto il mondo nella prima metà del 2021 hanno portato ora il numero di sfollati interni a quasi 51 milioni. La maggior parte dei nuovi esodi interni si è verificata in Africa, come in Repubblica Democratica del Congo (1,3 milioni di persone sfollate) e in Etiopia (1,2 milioni). Le violenze in corso in Myanmar e in Afghanistan hanno parimenti costretto persone a fuggire durante i primi sei mesi dell’anno.
Anche il numero di rifugiati è continuato ad aumentare nella prima metà del 2021, portandone il totale a quasi 21 milioni. La maggior parte dei nuovi rifugiati proviene da cinque Paesi: Repubblica Centrafricana (71.800 persone), Sud Sudan (61.700), Siria (38.800), Afghanistan (25.200) e Nigeria (20.300).
La combinazione letale di conflitti, COVID-19, povertà, insicurezza alimentare ed emergenza climatica ha aggravato la difficile situazione umanitaria delle persone in fuga, la maggior parte delle quali è accolta in aree geografiche in via di sviluppo.
Le soluzioni in loro favore continuano a scarseggiare. Nei primi sei mesi del 2021, meno di 1 milione di sfollati interni e solo 126.700 rifugiati hanno potuto fare ritorno a casa.
“La comunità internazionale deve fare di piu’ per ristabilire la pace e, allo stesso tempo, assicurare che vi siano risorse a disposizione delle persone costrette a fuggire e delle comunità che li accolgono”, ha aggiunto Filippo Grandi. “Sono le comunità e i Paesi dotati di meno risorse a continuare a farsi maggiormente carico dell’onere di assicurare protezione e assistenza alle persone in fuga, ed è pertanto necessario che siano sostenuti in modo più efficace dal resto della comunità internazionale”.
A giugno di ogni anno, l’UNHCR pubblica i dati annuali inerenti alle migrazioni forzate nel mondo nel rapporto Global Trends.
Il rapporto Mid-Year Trends è disponibile qui.
I dati sulle migrazioni forzate nel mondo sono disponibili qui.
Foto in evidenza di UNHCR/Guerchom Ndebo
Di Ciro Gardi su Altreconomia
Un articolo pubblicato lo scorso anno sulla rivista scientifica statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) indicava che se attualmente solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile (temperatura media annua ≥ 29.0 °C), nel 2070 questa percentuale raggiungerà il 19%, coinvolgendo (in assenza di fenomeni migratori) 3,5 miliardi di persone. Le previsioni dell’entità dei fenomeni migratori per cause ambientali, fornite da diverse ricerche, variano tra i 25 milioni e il miliardo di persone entro il 2050. Tutto dipenderà dagli interventi che riusciremo ad attuare nei prossimi anni in termini di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, e di contrasto ai numerosi processi di degrado ambientale.
La 26esima Conferenza delle parti sul clima di Glasgow costituisce probabilmente un “tipping point” per la politica ambientale globale e per definire il futuro che vorremmo per il nostro Pianeta. Al di la’ degli accordi che si riusciranno o meno a siglare, degli obiettivi che si prefiggerà di raggiungere, un cambiamento delle condizioni ambientali sulla Terra è inevitabile e con esso le migrazioni indotte dalle sempre più frequenti crisi climatiche. Lo stesso “padrone di casa”, Boris Johnson, intervistato dal Guardian ha affermato che un eventuale fallimento nella trattativa alla Cop comporterebbe entro il 2050 migrazioni di massa e carestie, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha presentato alla Conferenza quattro punti chiave in relazione alle migrazioni ambientali.
Ottantadue milioni e quattrocentomila persone nel 2020 sono state costrette a lasciare le proprie case, villaggi, paesi e città a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o di disastri ambientali. Si stima che questo numero possa raggiungere i 260 milioni entro il 2050.
Una moltitudine di persone in fuga che comprende sia i rifugiati, che si spostano al fuori dei propri confini nazionali, sia gli sfollati interni che si muovono invece all’interno dei rispettivi Paesi. Questi dati sono forniti dall’Unhcr, ma si tratta tuttavia di una contabilità incompleta e probabilmente ampiamente sottostimata, poiché considera solo le persone aventi lo status giuridico di rifugiato, i richiedenti asilo e appunto gli sfollati interni. Ma le persone che migrano sono molte di più: 281 milioni a livello internazionale, una persona su trenta che abita questo Pianeta è un migrante: migranti economici, migranti ambientali, rifugiati, ma anche studenti che si trasferiscono all’estero e molto altro e i limiti tra queste categorie non sono così netti.
È evidente che i disastri naturali e quelli indotti o aggravati dall’azione dell’uomo rappresentano circostanze che minacciano non solo l’ordine pubblico ma la stessa sopravvivenza delle persone. Tuttavia da parte del diritto internazionale non esiste a oggi un pieno riconoscimento consolidato dello status di “rifugiato climatico” o “rifugiato ambientale”. Esiste tuttavia una piccola breccia in questa monolitica definizione, costituita dalla decisione assunta dal Comitato dei diritti umani dell’Onu il 7 Gennaio del 2020 in relazione al caso di un cittadino della Repubblica di Kiribati, un atollo dell’Oceano Pacifico, che si era visto negare dalla Nuova Zelanda il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra e che pertanto era stato rimpatriato nel Paese di origine.
Il problema delle migrazioni è estremamente complesso, poiché esiste una strettissima correlazione tra i fattori che ne sono alla base. Gli effetti del cambiamento climatico o delle crisi ambientali non sempre sono distinguibili o dissociabili dalle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone a fuggire dai propri territori di origine. In molti casi i disastri ambientali possono essere la causa di crisi economiche, tensioni sociali, conflitti elimina, in altri casi ne sono la conseguenza.
Le primavere arabe, i conflitti per il controllo dell’acqua ne sono un esempio, così come le devastazioni ambientali lasciate sul campo dai vari conflitti, grandi e piccoli, che si susseguono a ritmi crescenti nelle varie parti del mondo.
In molti Paesi del mondo il numero di migranti e sfollati per cause ambientali supera il numero di persone costrette a fuggire per causa di guerre o persecuzioni razziali o religiose. Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre (2020) il numero di sfollati a causa di conflitti è stato pari a 9,8 milioni di persone, contro i 30,7 milioni di sfollati per cause ambientali.
In questa fase storica, nella quale dopo decenni di appelli inascoltati di una parte della comunità scientifica ci si occupa finalmente del cambiamento climatico, si utilizza spesso la definizione di migranti climatici. Ma anche in questo caso alla base di questi processi migratori (prevalentemente interni ai Paesi fino ad ora) c’è una molteplicità di cause, in parte gli effetti diretti e indiretti del cambiamento climatico, ma anche l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat. Il cambiamento climatico agisce da “amplificatore” di vulnerabilità preesistenti i cui effetti sono tanto più gravi quanto maggiore è la fragilità economica, sociale, culturale delle comunità e dei territori colpiti.
Processi di urbanizzazione spingono le popolazioni delle zone rurali a migrare verso le città con la speranza di trovare maggiori opportunità di sopravvivenza. Questo porta ad aggravare le condizioni di vita, spesso già molto precarie, nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, innescando vere e proprie bombe sociali e potenziali conflitti. È una dinamica che ci “interessa”?
Nell’ambito della Campagna “#Climate of Change” nell’autunno del 2020 è stata condotta un’indagine tra i giovani (tra i 17 e i 35 anni) di 23 Paesi dell’Unione europea in relazione alla percezione della questioni legate a cambiamento climatico, sostenibilità ambientale e migrazioni. Come si può osservare di seguito, il cambiamento climatico, la degradazione ambientale e la diffusione di malattie infettive (effetto Covid-19) sono in testa alle preoccupazioni dei giovani europei, mentre il tema delle migrazioni a scala globale viene considerato un problema secondario. La metà dei giovani intervistati si ritiene sufficientemente informata sul cambiamento climatico, un terzo sul tema delle migrazioni e solo un quarto sulle migrazioni ambientali.
A Glasgow i nodi verranno al pettine, capiremo se i timori, il desiderio di cambiamento delle nuove generazioni verranno presi in seria considerazione. Gli esiti della COP26 sul cambiamento climatico saranno fondamentali, non solo per poter mitigare il cambiamento climatico in atto e limitarne gli effetti sul Pianeta e sulla popolazione umana, ma costituiranno uno spartiacque per decidere verso quali priorità l’uomo, o meglio i decisori politici, intendono andare.
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