Su Il Post
Lunedì mattina centinaia di migranti, molti dei quali provenienti dal Medio Oriente, hanno raggiunto a piedi il confine tra Bielorussia e Polonia. Sono stati scortati dalle guardie di confine bielorusse, che li hanno poi incoraggiati a entrare in Polonia.
Sono mesi che la Bielorussia accoglie e poi spinge verso il territorio polacco migliaia di migranti e richiedenti asilo, in quello che viene considerato un tentativo di mettere in difficoltà la Polonia e l’Unione Europea, avversari politici del regime autoritario di Alexander Lukashenko: non era mai successo, però, che un numero così alto di migranti venisse spinto verso la Polonia in una sola volta.
Le immagini del flusso di persone tra il confine bielorusso e quello polacco sono state diffuse soprattutto attraverso i social network, con video che mostrano moltissime persone, tra cui famiglie con bambini, che camminano per strada portando con sé sacchi, zaini e qualche vestito. Le persone si trovavano nella strada che porta dalla cittadina bielorussa Bruzgi a quella polacca Kuźnica, da un lato all’altro del confine tra Bielorussia e Polonia. Nei video si vede bene che sono state scortate e accompagnate verso il confine polacco dalle guardie di confine bielorusse.
Non si sa di preciso quante fossero: Reuters ha parlato di centinaia di persone, il Guardian di circa circa 500. Non si sa di preciso neanche la loro provenienza, anche se si suppone che arrivino soprattutto dal Medio Oriente, come gli altri migranti che nei mesi scorsi sono arrivati in quella zona. Non è facile avere notizie precise anche perché, come spiegato dal sito di attualità polacca Notes from Poland, è molto difficile per i media indipendenti raggiungere quella zona e raccontare quanto sta accadendo a causa dello stato di emergenza in vigore al confine con la Bielorussia, imposto settimane fa dalla Polonia in risposta al flusso di migranti in arrivo ai suoi confini (lo stato di emergenza rende difficile raggiungere l’area anche a giornalisti e membri delle ong).
Secondo alcune testimonianze riportate dal Guardian, i migranti sarebbero stati attirati dalla Bielorussia, che avrebbe concesso il visto e offerto loro voli per raggiungere Minsk, la capitale del paese, promettendogli poi di portarli nell’Unione Europea. Una volta raggiunto il confine, però, i migranti non sono riusciti a entrare in Polonia perché il governo polacco da giorni presidia le frontiere con la Bielorussia: si stima che oggi a presidiarle ci fossero 12mila soldati. I migranti si trovano ancora al confine tra i due paesi.
Negli ultimi mesi la Bielorussia ha di fatto aperto una nuova rotta migratoria verso Polonia, Lituania e Lettonia, concedendo a migliaia di migranti visti per raggiungere Minsk, per poi accompagnarli al confine con questi paesi, sperando di provocare una crisi come ritorsione per l’appoggio offerto dall’Unione Europea all’opposizione a Lukashenko, e per le sanzioni imposte contro il suo regime.
In risposta all’imponente arrivo di flussi di migranti – nel 2021 in Polonia sono stati registrati 23mila ingressi illegali, quasi la metà dei quali solo nel mese di ottobre – Polonia e Lituania hanno annunciato la costruzione di barriere fisiche, e lunedì la Lituania ha detto che seguirà l’esempio della Polonia nell’imporre anche uno stato di emergenza ai propri confini. Sono misure molto controverse e criticate dagli attivisti per i diritti umani, dato che, secondo le norme europee, chiunque mette piede in uno stato europeo ha diritto a chiedere asilo in quel paese.
Nelle ultime settimane la situazione sta scivolando verso una grave crisi umanitaria: con l’arrivo del freddo i migranti si trovano ad attraversare boschi e strade ghiacciate, senza essere attrezzati né avere cibo o assistenza medica. Secondo Infomigrants fra l’estate e l’inizio di novembre sono stati trovati i corpi di almeno dieci migranti morti al confine fra Bielorussia e Polonia.
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Su Redattore Sociale
Un nuovo canale di ingresso legale per cittadini afghani bisognosi di protezione internazionale provenienti dai campi profughi di Pakistan e Iran o da altri Paesi di primo asilo o di transito. È l’obiettivo del protocollo di intesa firmato il 4 novembre al Viminale, alla presenza della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.
In tutto saranno 1.200 i nuovi beneficiari del progetto. “Questo protocollo contiene una novità, prevede l’impegno diretto anche del governo italiano e di organismi internazionali. Si ispira a un principio di collaborazione tra pubblico e privato sociale che rafforza il progetto e lo incardina nelle politiche del governo” sottolinea Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia -. La presenza della Ministra attesta la rilevanza di questo passaggio che reagisce alla colpevole inerzia della Europa”.
Il protocollo, firmato oggi, contiene la sintesi di un lavoro coordinato dal dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale insieme ai rappresentanti del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale (Maeci), della Conferenza episcopale italiana, della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese Evangeliche, della Tavola Valdese, dell’Associazione ricreativa e culturale italiana (Arci), dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà (Inmp), dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).
“Siamo molto felici di partecipare per la prima volta al progetto dei corridoi umanitari come organizzazione laica – sottolinea Filippo Miraglia di Arci -. Anche se preferiremmo non farlo, perché vorrebbe dire che non c’è nessuno che necessita di protezione”.
Dei 1200 beneficiari circa 400 saranno selezionati tramite le liste dell’Unhcr che lavora nei campi profughi al confine, altre segnalazioni le faranno le associazioni. In particolare si tratterà di persone che hanno collaborato con le ong internazionali e ora sono particolarmente a rischio. “Noi siamo in collegamento e in accordo con le ong italiane presenti a Kabul, accoglieremo le persone nelle nostre case rifugio – aggiunge Miraglia -. Daremo in prevalenza accoglienza a quelle donne che sono militanti, attiviste dei diritti umani, giornaliste e che ora stanno rischiando la vita. Ci occuperemo, poi, di minori non accompagnati e delle persone lgbt che si nascondono a Kabul. Proveremo a farle uscire, tenteremo cioè di fare un vero corridoio dall’Afghanistan”.
Miraglia ricorda che “ i corridoi umanitari sono importanti, ma l’iniziativa resta limitata nei numeri rispetto alle necessità: ci sono 2 milioni di afghani fuori dall’Afghanistan. In Europa l’ unico paese che ne accoglie un numero significativo è la Germania con 148mila presenze. L’Unhcr ha chiesto il reinsediamento per 42mila persone in 5 anni. Servono interventi più cospicui. La crisi è enorme. Inoltre – conclude – oggi più che mai non si possono giustificare i respingimenti alle frontiere in Polonia, sulla rotta balcanica e nel Mediterraneo centrale”.
Impagliazzo (Sant’Egidio): “Un modello per l’Europa”. Intervenendo alla firma, anche il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo ha dichiarato: “La presenza del ministro Lamorgese sottolinea l’importanza di questo momento e il fatto che l’Italia è un paese dalla vocazione umanitaria. Sui corridoi umanitari – una best practice che tanti ci imitano e dovrebbero imitare – misuriamo la sinergia tra società civile e istituzioni”.
E ha aggiunto: “Questo protocollo nasce da un sentimento emerso nel popolo italiano ad agosto davanti alle immagini drammatiche provenienti da Kabul. Abbiamo voluto dare una risposta a chi era rimasto in Afghanistan e a chi era riuscito a raggiungere i paesi limitrofi. Dopo aver accolto 100 persone durante le evacuazioni, ci offriamo ora di accoglierne altre 200 con i corridoi umanitari, un sistema che permette, nella via della legalità, accoglienza e integrazione, una pratica innovativa per affrontare il fenomeno dell’immigrazione”.
Mons. Russo (Cei): “I corridoi umanitari diventino strumento strutturale di gestione dell’immigrazione”. “Proseguiamo nella positiva sperimentazione dei corridoi umanitari che, a partire dal 2017, hanno permesso alla Chiesa che è in Italia di farsi prossima a quanti necessitano di protezione internazionale. Grazie a Caritas Italiana, infatti, la Cei ha già contribuito ad offrire un’alternativa legale a oltre mille persone provenienti dall’Etiopia, dal Niger, dalla Turchia, dalla Giordania – ha affermato mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei -. I corridoi umanitari rappresentano una via sicura per coloro che sono costretti a fuggire dalla propria terra e, allo stesso tempo, dimostrano che soggetti istituzionali, governativi e non, della società civile e religiosa possono cooperare fattivamente per trovare soluzioni concrete al dramma delle migrazioni. Per questo auspichiamo che quello dei corridoi umanitari diventi uno strumento strutturale di gestione delle politiche migratorie”.
Unhcr: “Bene, ma continuare a lavorare anche su altri strumenti”. “Lavoriamo da 40 anni al fianco della popolazione afghana, e ci siamo attivati immediatamente anche per rispondere a questa nuova crisi, ma i bisogni crescono di ora in ora e i programmi come questo rappresentano un’ancora di salvezza per le persone in fuga – ha affermato Chiara Cardoletti, rappresentante Unhcr per Italia, Santa Sede e San Marino -. Chiaramente i corridoi umanitari non possono da soli rispondere a tutti i bisogni e per questo motivo bisognerà continuare a lavorare su altri strumenti quali il reinsediamento, il ricongiungimento familiare e il sostegno alla popolazione che rimarrà in Afghanistan, più che mai importante perché’ l’inverno è alle porte”.
“Unhcr è molto grato all’Italia per aver già trasferito 5000 persone in serio pericolo e per questo ulteriore impegno nell’offrire un canale di ingresso sicuro a 1200 persone – ha aggiunto Cardoletti -. Non c’è dubbio che questo paese sia in prima linea nell’offrire soluzioni per i rifugiati, spesso in maniera innovativa grazie alla sinergia tra le autorità, la società civile e le organizzazioni internazionali”.Sempre per la rappresentante dell’Unhcr, “sono necessari più posti nei programmi di ingresso regolare quali i corridoi ed il reinsediamento, non solo per dare una risposta urgente ai bisogni delle persone in pericolo ma anche come segnale tangibile di solidarietà nei confronti dei paesi che fino ad oggi hanno sostenuto il peso maggiore dell’esodo della popolazione afgana. Questi programmi offrono un’alternativa credibile al traffico degli essere umani e ai movimenti irregolari. Chiaramente queste misure non possono sostituire la possibilità per le persone in fuga di avere garantito l’accesso alle frontiere per chiedere protezione”.
Di Nello Scavo su Avvenire
A mezzogiorno in punto il poliziotto afghano raduna il gruppo con il piglio di chi non ha dimenticato come si danno gli ordini. Il disertore si fa precedere da un meditato silenzio. Poi il ragazzo che guida le preghiere si alza in piedi. Comincia salmodiando, infine implora «il Misericordioso di farci arrivare insieme, tutti salvi». E di tenere alla larga le spranghe dei poliziotti croati.
Se non torneranno indietro, non vuol dire che ce l’avranno fatta. A ricordarglielo è il luogo scelto per la partenza: Merzarje, il cimitero sulla collinetta, lungo la strada che conduce al confine Nord. Ai piedi dei ceppi verdi sono sepolti gli “NN”, i caduti senza nome della rotta balcanica. L’ultimo l’hanno trovato annegato in un torrente pochi giorni fa. Un altro, completamente spolpato dai lupi nella fitta boscaglia, è stato rinvenuto da alcuni ragazzi che tentavano il “Game“. Le bestie gli hanno risparmiato solo la faccia. L’espressione del volto, che ci viene consegnata dai loro telefoni, toglie il sonno. Ma a loro non toglie la voglia di riprovarci. Perché nessuno scapperebbe per quattromila chilometri dai nuovi padroni di Kabul per finire incastrato a un passo dall’Ue.
«Molti altri ne stanno arrivando – assicura l’ex agente –. Adesso comincia l’inverno, ma quando sarà primavera altre migliaia di afghani riusciranno a raggiungere questi luoghi». Quest’anno dal Paese si stima siano transitate non meno di 10mila persone: circa 5mila si trovano ancora all’interno, ma si tratta di stime prudenziali.È il momento. L’improvvisato muezzin smette. Il “Game” comincia. Qualcuno ascoltava in lacrime. La spalla fa ancora male, dopo l’ultima gragnuola di manganellate degli agenti croati. Altri ridono per esorcizzare la malasorte che qui ha un solo nome: pushback, i violenti respingimenti alla frontiera.
Il “Border Violence Monitoring Network” ha esaminato e verificato 35 pushback solo a settembre e ai danni di 815 persone. Più di uno al giorno. «Oggi non toccherà a noi» si ripetono a vicenda come combattenti prima di assaltare le prime linee nemiche.Il poliziotto ci ha messo un paio di mesi ad arrivare fin sull’altopiano, che preannuncia quei monti che l’autunno colora di rosso. Il viaggio gli è costato parecchi risparmi, specie per pagarsi certe scorciatoie. Del resto «il ministero non ci pagava lo stipendio da tempo e, se proprio devo morire, almeno non sarà per mano dei taliban».
Anche per i governanti della Bosnia è una questione di soldi. Argomento spinoso, in un Paese che nell’ultimo anno ha perso 10 posizioni nella graduatoria mondiale della corruzione, ora al 111esimo posto su 180 Stati analizzati da Transparency International. Difficile sapere con certezza che fine faccia tutto il denaro. Dall’inizio del 2018 Bruxelles ha fornito più di 88 milioni di euro direttamente alla Bosnia-Erzegovina o tramite organizzazioni partner per far fronte alle esigenze immediate di rifugiati, richiedenti asilo e migranti.
I piccoli Erdogan dei cantoni balcanici sanno di avere il coltello dalla parte del manico. Per esempio rifiutandosi di aprire ulteriori strutture di accoglienza o chiudendone alcune tra quelle esistenti, come quelle fin dall’inizio definite “temporanee” a Bira a Bihac. E, in mancanza di un tetto, la frequenza degli attraversamenti cresce.
Giovedì sera si era sparsa la voce che una delegazione di europarlamentari sarebbe tornata per dare un’occhiata. All’alba di venerdì le ruspe spianavano l’accampamento di Velika Kladusa, con le famiglie caricate di peso e trasportate 400 chilometri più a sud, a Sarajevo. Non prima di avere decretato per i migranti il divieto di trasporto su autobus pubblici o taxi privati. «Non è una questione di soldi», vanno ripetendo il sindaco di Bihac e il governatore del cantone di Una-Sana. Sarà, ma mai una volta che i bonifici vengano respinti al mittente. A giugno la Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno firmato tre accordi di sovvenzione, per un valore totale di 900mila euro, indirizzati all’assistenza essenziale a migranti e rifugiati in Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord. Il nuovo stanziamento si è reso necessario a causa della pandemia. Complessivamente la Banca ha messo a disposizione dei progetti nel Balcani quasi 14 milioni di euro. Da sommare agli 88 dell’Ue.
Il campo di Lipa resta il simbolo del ricatto. Grazie al lavoro delle organizzazioni come Ipsia-Acli, Caritas e Croce rossa, è stata concessa mesi fa l’apertura di un tendone-refettorio dove si può prendere un caffè caldo, giocare a scacchi e perfino a badminton. Gli europarlamentari venuti a controllare a nove mesi di distanza hanno trovato parecchi miglioramenti e i lavori in corso per l’apertura di un campo nel quale accogliere i migranti non più dentro alle tende militari, ma all’interno di container riscaldati con sei posti letto. «Siamo ancora lontani dagli standard che ci attendevamo venissero rispettati. Si sono fatti passi avanti, ma si sono spesi anche molti fondi, per poi vedere che in questi piccoli spazi potrebbero venire ammassate fino a 1.500 persone», dice la delegazione del gruppo dei socialdemocratici composta da Alessandra Moretti, Elisabetta Gualmini, Pietro Bartolo e Pierfrancesco Majorino.
Fuori dal campo di Lipa, sotto gli occhi della polizia, nella spianata di fango in mezzo al niente, sono stati aperti un paio di minimarket e un bar con veranda sul campo profughi. Li gestiscono alcuni commercianti di Bihac che hanno trasformato vecchi container in negozi di fortuna. E siccome per fare affari ci vuole fiuto, certo ne ha avuto il bottegaio che ha installato una baracca con tanto di insegna: “Game shop“. Vende l’occorrente per il percorso: torce, accendini, sacchi a pelo usati, power bank, barrette energetiche, vecchi cellulari, sim card e nastro adesivo con cui impacchettare e sigillare le poche cose della vita di prima: foto dei familiari, numeri di telefono da non perdere, gli ultimi spiccioli rimasti in tasca.È anche da questo che al cimitero di Mezarje capiscono se i morti senza nome sono vittime di un respingimento o se stavano ancora tentando il passaggio del confine. Di solito, i respinti, vengono spogliati e ripuliti di ogni centesimo e ogni ricordo. Dovessero cadere senza più rialzarsi, di loro non resterebbe che un mucchio di terra. E nessun colpevole.
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha ricordato in un’intervista all’edizione domenicale della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» le sfide affrontate dopo l’arrivo di quasi 890mila migranti in Germania nel 2015. «La situazione in quel momento era pressante anche per me, perché sapevo, come tutti, che 10mila persone non potevano trasferirsi in Germania ogni giorno in modo permanente, ma che bisognava trovare strade percorribili sia per le persone in cerca di rifugio che per il nostro Paese».Merkel ha ricordato di aver presto pensato a raggiungere un accordo con la Turchia in modo che i profughi siriani potessero essere accolti e curati lì. «Ma avevo bisogno di un po’ di tempo», ha aggiunto. La cancelliera ha ribadito che la Germania non può risolvere da sola la questione migratoria, «almeno non in modo sostenibile a lungo termine, ma – ed è nella natura della cosa – solo come parte dell’Europa e in questo caso specifico solo insieme alla Turchia».
«Il fatto che l’accordo con la Turchia abbia avuto successo è positivo per entrambe le parti fino ad oggi», ha aggiunto, sottolineando il valore dell’intesa, che le sembra ancora significativa: «Ha fatto molto per portare più ordine nelle migrazioni e per aiutare la Turchia a trattare con dignità i milioni di rifugiati siriani presenti. E ha frustrato per anni il malvagio traffico dei contrabbandieri e trafficanti».
Foto in evidenza di Nello Scavo/Avvenire
Di Giovanni Maria del Re su Avvenire
Quattro ore e mezzo. Tanto è durata la discussione, accesissima, dei 27 leader sulle migrazioni, tema dominante ieri al secondo giorno del Consiglio Europeo. A tener banco anzitutto la questione dei «muri» che dovrebbero – secondo un gruppo di Stati – esser finanziati dall’Ue. I più accesi sono i Paesi dell’Est che confinano con la Bielorussia: il dittatore di Minsk Aleksandr Lukashenko attira sempre più migranti per poi spingerli verso l’Ue, come «arma» contro l’Europa che lo sanziona per la repressione dei dissidenti. La Bielorussia viene citata con la promessa di nuove misure restrittive Ue.
Alcuni Paesi, come Polonia e le Repubbliche baltiche hanno già iniziato a costruire muri al confine. Già un mese fa dodici Stati (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno scritto a Bruxelles chiedendo finanziamenti Ue per realizzarli. Ieri sono tornati a farlo. «Abbiamo urgente bisogno di barriere fisiche – ha dichiarato il presidente lituano Gitanas Nauseda – di fronte a quello che fa Lukashenko.
Nessuno sa che cosa accadrà domani, potremmo trovarci di fronte a 3-4-5.000 migranti che provano a passare il confine tutti assieme o in punti diversi». «Abbiamo chiaramente bisogno – ha avvertito anche il neo cancelliere austriaco Alexander Schallenberg – di contromisure alla frontiera, con droni, recinti o qualcosa del genere cofinanziati dall’Ue».
Questi Paesi hanno ottenuto l’aggiunta di un paragrafo-chiave nelle conclusioni del vertice – le cui bozze sono state riscritte varie volte – dalla formulazione ambigua – che cercheranno di vendersi come apertura: si chiede alla Commissione di proporre «i necessari cambiamenti legislativi» al sistema giuridico Ue e «misure concrete sorrette da adeguato sostegno finanziario per assicurare una risposta immediata e appropriata in linea con gli obblighi internazionali, incluso i diritti fondamentali».
In realtà, ha precisato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «sono stata molto chiara che non ci saranno finanziamenti Ue per fili spinati o muri». Molti altri leader sono contrari, tra cui l’Italia. Su un punto però sono tutti d’accordo: la necessità di «un controllo efficace delle frontiere esterne».
A rischio è la tenuta stessa dell’area senza frontiere di Schengen, messa già a dura prova dalla crisi migratoria del 2015. «Guarderemo alle necessarie misure legali per migliorare la situazione – ha assicurato Von der Leyen – apportando modifiche al codice sullo spazio Schengen che sarà sul tavolo come nuova proposta».
L’altro punto che ha tenuto banco è quello dei movimenti secondari, che preoccupano Stati come Germania, Belgio, Olanda. Soprattutto quest’ultima chiede all’Italia di impedire che i migranti approdati sulle sue coste proseguano poi verso il Nord Europa. Le tensioni sono state forti, alla fine però si è trovato il compromesso. Il testo delle conclusioni afferma sì che «bisogna mantenere gli sforzi per ridurre i movimenti secondari», tuttavia l’Italia ha strappato un’aggiunta importante, e cioè che si tratterà anche di «assicurare un giusto equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra Stati membri».
Nel complesso, comunque, l’impressione è che la discussione abbia almeno rafforzato la sensazione dell’urgenza di soluzioni comuni, con l’occhio rivolto al Patto sulla migrazione proposto dalla Commissione Europea e per ora bloccato soprattutto sul fronte proprio della solidarietà e della ridistribuzione dei migranti. «Posso dire – ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel – che questa volta ho avuto l’impressione che vi fosse una convergenza sempre più ampia».
Persone detenute a Garbugli, Libia (marzo 2016). Foto tratta da "Trapped in transit", ©Ricardo Garcia Vilanova.
Su A.H.C.S
Eccellenza Sig. Presidente,
Prof. Mario Draghi
certamente non le sfugge quanto sta accadendo a migliaia di profughi/migranti bloccati in Libia. È una situazione che, nell’indifferenza e, anzi, assai spesso con la complicità sostanziale delle politiche europee, si trascina da anni ma che, negli ultimi mesi, ha registrato una ulteriore escalation di violenza, orrore, violazione sistematica dei diritti umani. Basti ricordare alcuni esempi più recenti, a conferma del fatto che – come denunciano da sempre l’Unhcr, l’Oim e tutte le più prestigiose Ong internazionali – la realtà libica è un autentico inferno (nei centri di detenzione lager ma anche fuori) per un numero crescente di giovani, colpevoli soltanto di essere stati costretti ad abbandonare la propria terra per cercare altrove libertà, sicurezza, la sopravvivenza stessa. In una parola, la speranza di una vita migliore e più degna.
Tra il primo e il 4 ottobre, partendo dal sobborgo di Gargaresh ed estendendo poi l’operazione a tutta Tripoli, le forze di polizia libiche hanno arrestato oltre 5 mila persone, donne e uomini, come immigrati clandestini, un’accusa che, per lo Stato libico (che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati), non è una semplice violazione amministrativa ma un grave reato penale, che comporta mesi ed anni di carcere, in condizioni di detenzione che definire invivibili è un eufemismo. E questi arresti di massa – come hanno denunciato diversi servizi giornalistici e i rapporti dell’Unhcr – si sono svolti con metodi non di rado di grave violenza, tanto che si lamenta almeno una vittima: un giovane ucciso a colpi di arma da fuoco mentre cercava di sottrarsi alla cattura.
L’otto di ottobre il personale di guardia nel campo di Ghout Al Shaal, alla periferia di Tripoli, non ha esitato a sparare a raffica, ad altezza d’uomo, per contrastare un tentativo di fuga in massa. Come riferiscono i rapporti dell’Unhcr, ci sono stati almeno 6 morti e circa 25 feriti, di cui alcuni molto gravi.
Dall’inizio dell’anno a oggi la Guardia Costiera di Tripoli ha bloccato in mare – attenzione: “bloccato” e non “soccorso e salvato” – 27.041 profughi/migranti che erano riusciti a fuggire dalla Libia, riportandoli indietro e riconsegnandoli in gran parte alle sofferenze dei centri di detenzione. Altri 7.865 sono stati arrestati a terra, prima dell’imbarco o al confine meridionale e lungo le vie che conducono alla costa. Infine, 353 sono stati riportati in Libia, su indicazione di Tripoli, da navi commerciali che li hanno intercettati e soccorsi in mare. In tutto, ben 35.259 persone alle quali è stato impedito di chiedere aiuto e asilo all’Europa come era loro diritto inviolabile. Un diritto sancito, anzi, ribadito, proprio in questi giorni da una significativa sentenza della Corte Costituzionale che, partendo dalla vicenda di un giovane senegalese per lungo tempo detenuto e seviziato in Libia, ha stabilito in pratica che i migranti passati dalle prigioni libiche vanno tutelati.
Contro tutto questo, venerdì 22 ottobre si è svolta a Roma una manifestazione di protesta organizzata da profughi, migranti e richiedenti asilo di fronte all’ambasciata libica. Ma tutto questo – a parte ovviamente le specifiche responsabilità libiche – è in realtà il risultato diretto delle politiche di chiusura e respingimento costruite con la serie di trattati e accordi stipulati con la Libia in particolare dall’Italia ma con il totale sostegno dell’Unione Europea e, dunque, con precise responsabilità anche di Bruxelles, oltre che di Roma. Mi riferisco, ad esempio, al memorandum Italia-Libia sottoscritto nel febbraio del 2017. O alla conseguente fornitura di fondi, mezzi, navi, addestramento e assistenza alla Guardia Costiera e al Governo di Tripoli. O, ancora, alle “garanzie” italiane per l’istituzione della zona Sar libica, operativa dal giugno 2018 e formalmente riconosciuta nonostante Tripoli non abbia alcuno dei requisiti necessari per gestire, coordinare e condurre operazioni di ricerca e soccorso in mare, tanto da alimentare il sospetto che le direttive e le disposizioni operative siano emanate in realtà dalla Marina italiana e dall’agenzia Frontex.
È quanto mai necessaria, allora, una revisione radicale della politica condotta finora dall’Unione Europea nelle linee generali e dai singoli Stati nello specifico. Perché va benissimo respingere, come è stato fatto, la richiesta di finanziamenti per costruire barriere alla frontiera avanzata da ben 12 Stati UE. Ma – a parte il fatto che in questi anni l’Europa ha già costruito oltre 1.200 chilometri di valli confinari di cemento e filo spinato – i “muri” costituiti da una politica di rigida chiusura sono altrettanto se non addirittura più crudeli e letali di quelli fisici fatti di lame acuminate d’acciaio.
Il primo passo di questo cambiamento non può che essere un monito deciso alla Libia perché ponga fine alle violenze e chiami i responsabili a risponderne in giudizio. E, soprattutto, perché rispetti finalmente i diritti umani fondamentali dei migranti, tanto più che la recente ondata di arresti si profila come la premessa per un rimpatrio forzato di massa, senza considerare che per tantissimi questa decisione significherà la riconsegna alle situazioni di pericolo e crisi estrema da cui sono fuggiti. La soluzione vera e definitiva, tuttavia, è l’abbandono e il superamento della politica di chiusura e respingimento condotta ormai da anni da parte dell’Unione Europea e in modo particolare dell’Italia. Politica che, a partire quanto meno dal Processo di Khartoum (2014) in poi, ha eletto la Libia a “gendarme del Mediterraneo”, con il compito specifico di bloccare i migranti che lanciano il loro grido d’aiuto alla nostra democrazia. Un blocco da attuare ad ogni costo, condotto spesso con violenze e respingimenti collettivi indiscriminati e, comunque, a prescindere dalla sorte che attende le migliaia di disperati confinati al di là del muro della Fortezza Europa. In una parola, in aperto contrasto con il diritto internazionale, con la “legge del mare” e, per quanto riguarda specificamente l’Italia, con la sua stessa Costituzione Repubblicana.
Grazie per l’attenzione che avrà voluto dedicare a queste righe.
Cordiali saluti,
Don Mussie Zerai Dr. Theol. H.C Roma, 22/10/2021
Foto in evidenza di Ricardo Garcia Vilanova
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Ho fatto due anni di prigione per aver guidato una barca. Ho salvato la vita di quelle persone, non avevamo altra scelta. Ora vogliamo lottare per la libertà e i diritti umani di altri migranti imprigionati ingiustamente”, Cheikh Sene è arrivato in Italia qualche anno fa dalla Libia, arrestato dalle autorità italiane con l’accusa di essere uno scafista, cioè di aver condotto l’imbarcazione carica di migranti con cui ha attraversato il Mediterraneo.
Ora Sene è un attivista del circolo Arci Porco rosso di Palermo e ha collaborato con l’associazione nella realizzazione di una ricerca che ha per la prima volta analizzato dal punto di vista quantitativo gli arresti di migranti accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: ne emerge che dal 2013 più di duemila persone sono state arrestate e accusate di essere scafisti dalle autorità italiane con processi che hanno portato a pene molto severe.
L’analisi quantitativa dei dati raccolta da tre associazioni non governative – Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone – ha mostrato che in Italia negli ultimi anni sono stati usati i sistemi della direzione nazionale antimafia, potenti strumenti di indagine e metodi imponenti per individuare i richiedenti asilo e migranti appena arrivati nel paese che avevano condotto le imbarcazioni, accusandoli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato che prevede pene fino a quindici anni di carcere e milioni di euro di multa. Lo aveva già anticipato un’inchiesta di The Intercept, tradotta e pubblicata anche da Internazionale.
Secondo la ricerca, nell’ultimo ultimo anno la polizia ha arrestato un migrante ogni cento di quelli arrivati in Italia via mare. Le associazioni hanno intervistato un centinaio di persone tra cui decine di migranti, avvocati, giudici, ufficiali della guardia costiera italiana e operatori penitenziari.
Nella relazione si sottolinea che molti migranti vengono giudicati colpevoli anche quando le prove usate in tribunale contro di loro sono estremamente deboli. Maria Giulia Fava, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, ha denunciato: “Si tratta di processi politicamente condizionati. Nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei princìpi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale sono violati con leggerezza”.
“Una problematica centrale riscontrata è quella inerente all’accesso ai diritti da parte delle persone accusate, tenuto conto della peculiare condizione di difficoltà in cui si trovano al momento in cui viene formulata l’accusa. Dobbiamo infatti considerare, come illustrato nella precedente sezione, che i capitani vengono identificati al momento dello sbarco, o in prossimità di esso, in un paese straniero ove, spesso, non hanno alcun riferimento affettivo e di cui non conoscono lingua, cultura, né tantomeno la legge”, è scritto nel rapporto.
Le condanne variano dai due anni ai vent’anni. Dei quasi mille casi analizzati dall’indagine, venti persone sono state condannate a pene detentive di oltre dieci anni e sette persone hanno ricevuto l’ergastolo.
Di Alessandra Fabbretti su Agenzia DiRE
Da qualche giorno in Polonia, lungo il confine occidentale verso la Bielorussia, sono spuntate piccole luci verdi visibili soprattutto di notte: è un messaggio in codice, un invito rivolto ai migranti e richiedenti asilo ad avvicinarsi e chiedere aiuto. Chi ha acceso quella luce è pronto a dar loro da mangiare e un rifugio caldo e sicuro nonostante rischi multe o denunce per favoreggiamento dell’immigrazione illegale. C’è anche una promessa: chi apre la porta non chiamerà la polizia che, come precisa la legge sullo stato d’emergenza, consente ai militari polacchi di respingere i profughi nei boschi, anche di notte, verso il confine bielorusso. A lanciare l’idea delle ‘Green light’ è stato Kamyl Syller, un avvocato specializzato in questioni migratorie.
L’agenzia Dire lo contattata telefonicamente nel suo ufficio, in una località a circa 5 chilometri dal confine. “L’idea della ‘Green Light’ mi è venuta qualche giorno fa, dopo aver raggiunto tre rifugiati siriani, un uomo, una donna e una bambina di due anni. Erano stremati e secondo i medici di lì a poche ore la donna avrebbe subito un arresto cardiaco. Vagavano da giorni nei boschi, come stanno facendo decine di altri migranti a cui le guardie di frontiera impediscono di entrare e presentare richiesta d’asilo”.
Il problema, continua l’avvocato, è che “chiamano noi volontari ma non chiedono aiuto ai residenti per paura di essere rimandati indietro. Salvando quei tre siriani, di colpo ho realizzato che arrivati a un certo punto queste persone smettono di camminare, si arrendono. Aspettano di essere salvate, oppure di morire, non lo so”.
Syller continua: “So che una volta trovate, alcune persone scoppiano a piangere, si gettano ai piedi di chi hanno di fronte e gli baciano le scarpe. Sono immagini scioccanti a cui per fortuna non ho ancora assistito. Ma tanti volontari della nostra rete lo hanno raccontato”.
Già sette le morti confermate ufficialmente al confine tra Polonia e Bielorussia da agosto, a causa di un braccio di ferro politico che chiama in causa Varsavia e l’Unione europea da un lato, e il governo di Minsk dall’altro. Ma secondo le associazioni per i diritti umani i morti potrebbero essere molti di più, dato che nei boschi di notte le temperature scendono sotto lo zero. Chi si avventura in questo “limbo” al confine esterno dell’Ue proviene da Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan, Iran o Paesi africani. Tra loro anche donne incinte, anziani, bambini e neonati.
Lo scopo di ‘green light’ quindi, spiega Syller, “è far capire ai rifugiati che hanno davanti una casa amichevole, convincendoli a uscire dalla foresta e non morire di fame, disidratazione o freddo”. L’avvocato continua: “Tra i sopravvissuti troviamo anche casi di Covid e brutte ferite a mani, piedi e testa. Questa gente sta scappando da guerre e povertà. Hanno bisogno del nostro sostegno. Per questo abbiamo creato una pagina Facebook con tutte le informazioni in polacco, inglese e arabo, e sta già avendo molto successo”.
Chi ha aderito all’iniziativa “potrebbe rischiare di essere attenzionato dalle autorità e di subire problemi, per questo dobbiamo muoverci con senso di responsabilità”, aggiunge l’avvocato. La legge polacca punisce con multe e persino il carcere chi aiuta i profughi. Più in generale, le comunità di frontiera, dopo la legge sullo stato d’emergenza frontaliero, sottolinea Syller, “hanno subito un calo del turismo, un bel guaio dopo mesi di lockdown. Quotidianamente poi gli automobilisti affrontano perquisizioni e tante domande ai posti di blocco. Ma la polizia dovrebbe occuparsi dei contrabbandieri e dei criminali, non di cittadini che aiutano altre persone a sopravvivere”.
Syller parla poi dell’ampia rete di volontari che si è spontaneamente formata in Polonia per aiutare i migranti: “Dobbiamo restare umani. Ma alcuni di loro già dichiara di avere bisogno di un sostegno psicologico. Non eravamo preparati ad assistere a un dramma di queste proporzioni”.
Ieri a Varsavia e Cracovia sono scese in piazza migliaia di persone per dire al governo di centrodestra “stop alle torture al confine”. Nei giorni scorsi, anche il capo della Conferenza episcopale polacca, monsignor Wojciech Polak, ha lanciato un appello al ministero dell’Interno affinché garantisca ai profughi l’assistenza medica nella zone di frontiera.
La guerra sui tre confini si combatte anche a colpi di ansiolitici somministrati dall’esercito bielorusso ai bambini migranti. Nella terra di nessuno tra Lituania, Polonia e Bielorussia capita che i militari di Vilnius debbano affidare ai rianimatori qualche piccolo profugo. «Hanno dato a noi e ai nostri figli delle pillole», raccontano nell’ospedale di Kabeliai i genitori iracheni. Non erano vitamine per sopportare il freddo. Anche se di freddo si muore: almeno 5 le vittime accertate finora, ma di decine di persone disperse nei boschi non si sa più nulla. Distribuiti dai militari bielorussi in dosi sconsiderate per grandi e piccoli, i tranquillanti assicurano che gli stranieri spinti armi in spalla dai corpi speciali non comincino a piangere nel bel mezzo del bosco, di notte, dove la Lituania sorveglia la frontiera con droni e sensori nascosti tra gli alberi. Quando colti sul fatto, comincia la sceneggiata: le forze bielorusse accendono le videocamere e spingono i migranti verso le pattuglie lituane disposte per impedirne il passaggio. Al resto pensa la propaganda di regime, che mostrerà il volto spietato dei Paesi Ue, senza cuore nemmeno davanti ai bimbi. Anche con queste “munizioni” il dittatore bielorusso Lukashenko sta tentando di far saltare i nervi a Polonia e Lituania come rappresaglia per le sanzioni dell’Unione Europea al regime di Minsk.
Bisogna attraversare più volte i tre confini per farsi un’idea delle rispettive parti in tragedia. Vilnius parla di “aggressione ibrida“. «Abbiamo a che fare con un’azione di massa organizzata e ben diretta da Minsk e Mosca», rincara il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki. Secondo Varsavia, a partire dal mese di agosto oltre 7mila migranti e profughi hanno tentato di varcare il confine. Oltre 4mila nella sola Lituania. Fatte le debite proporzioni (38 milioni sono gli abitanti in Polonia, meno di 2,8 i lituani) si capisce come questi numeri possano essere usati per suscitare allarme. Nell’Europa che teme l’arrivo di una massiccia ondata di rifugiati afghani, vengono piantati altri pali d’acciaio per chilometri, issando barriere anti-migranti che stanno trasformando i confini esterni in una trappola di aculei. Il “muro polacco” è alto fino a 4 metri, una recinzione simile a quella eretta dall’Ungheria di Orbán nel 2015. Varsavia schiera circa mille uomini in appoggio alle guardie di frontiera lungo i 400 chilometri, in gran parte foresta, che separano i due Paesi. La linea di demarcazione tra Lituania e Bielorussia è una continua serie di tornanti, colline, fossati, campi arati per 678 chilometri. Anche qui è in costruzione una barriera, mentre 258 chilometri vengono monitorati elettronicamente.
Con l’invio di migranti «Lukashenko sta cercando di destabilizzare l’Ue, usando gli esseri umani in un atto di aggressione», va ripetendo la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson. Venerdì sono arrivati nella capitale lituana 29,6 milioni di euro sui 37 stanziati dalla Commissione europea per aiutare il Paese ad affrontare l’arrivo di profughi. In gran parte si tratta di iracheni e siriani, ma stanno aumentando le domande d’asilo di afghani e perfino indiani e srilankesi. Dal Baltico a Kabul o Karthum sono oltre 5mila chilometri di odissea. Eppure sudanesi e afghani arrivano fino a qui. Le testimonianze raccolte dalle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite confermano come negli ultimi mesi siano stati agevolati, qualche volta anche in aereo, i viaggi dall’Oriente verso la Bielorussia. Una volta finiti nel limbo di Minsk, i profughi riappaiono lungo i sentieri che s’infrangono contro le reti metalliche finanziate da Bruxelles. Chi riesce a guadagnare il suolo della Ue dovrà affrontare altri disagi, e il rischio di una deportazione con volo diretto verso il Paese d’origine.
Non tutti vogliono fermarsi dalle parti di Vilnius e c’è chi teme di restare prigioniero del regolamento di Dublino, che non offre scelta: o si presenta domanda d’asilo e si rimane in attesa obbligatoriamente nel Paese Ue di primo ingresso, oppure si è condannati alla clandestinità. I due iracheni Mohamad Wasim Hamid e Hamza Hayek Mahmud erano arrivati in Lituania dalla Bielorussia nella serata del 29 luglio, ma non hanno chiesto protezione internazionale. Avevano in mente di raggiungere la Germania o la Scandinavia. Pochi giorni fa sono stati condannati a 45 giorni di detenzione e verranno avviate le procedure per il rimpatrio. Dovranno attendere in un centro di accoglienza. In realtà, si tratta di accampamenti per la detenzione sorvegliati da militari incappucciati che perlustrano i dintorni con la mano sulla fondina. A Vilnius hanno riaperto un vecchio edificio abbandonato sulla collina dietro la linea ferroviaria. Il muro di cinta impedisce di vedere all’interno, ma chi riesce a visitarlo non ne è uscito contento. Lo stesso nelle tendopoli militari dove i profughi già fanno i conti con l’anticipo del sottozero invernale.
L’ufficio statale del Difensore civico lituano non l’ha presa bene. Giovedì ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di vita «disumane e degradanti» affrontate dai migranti irregolari. Le persone dormono in stanze umide, fredde e affollate. Mancano di cibo adeguato, acqua calda a sufficienza e farmaci. Il ministero dell’Interno ha rilasciato un commento, spiegando di non aver ancora letto il rapporto, ma «alcuni estratti pubblicati dai media portano alla conclusione che le informazioni contenute siano obsolete». Per il Difensore civico, «le condizioni di detenzione dei migranti irregolari in Lituania» sono un «trattamento disumano proibito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti».
Il 22 settembre quattro profughi sono morti di freddo e stenti sul confine tra Bielorussia e Polonia. Una quinta persona è deceduta poco più a Nord, dopo essere riuscita a raggiungere la Lituania. Ma per la fondazione umanitaria polacca Ocalenje le vittime potrebbero essere di più. Nella foresta di Usnarz Górny da quasi due mesi una trentina di persone vivono nascoste. Ma da diversi giorni si è perso ogni contatto con le persone incastrate tra la boscaglia sul lato di Minsk e il reticolato polacco. Altri 8 migranti oramai incapaci di muovere un solo passo sono stati soccorsi dopo essere sbucati in una zona paludosa e 7 sono stati portati in un ospedale polacco oramai in gravi condizioni. «Da tempo avevamo avvertito le autorità – ricorda Piotr Bystrianin, di Ocalenje – che se le guardie di frontiera non avessero smesso di respingere le persone senza neanche ascoltare la loro richiesta di protezione umanitaria, presto avremmo dovuto affrontare delle tragedie». E l’inverno non è ancora iniziato.
Immagine in evidenza di Avvenire
Su ARD Wien/Sudosteuropa
ARD-Studio Wien, insieme ai media partner di Lighthouse Reports, ARD Magazin Monitor, SRF-Rundschau, Spiegel, Novosti e RTL dalla Croazia, e il quotidiano Libération hanno indagato sui respingimenti al confine croato-bosniaco per quasi nove mesi. I giornalisti sono rimasti in agguato, si sono travestiti da pescatori, si sono seduti tra i cespugli in abiti da cacciatore, hanno utilizzato droni, hanno analizzato immagini satellitari e centinaia di account sui social media di proprietà di agenti di polizia croati e hanno parlato con una dozzina di fonti. Tra maggio e settembre 2021, hanno filmato un totale di 11 respingimenti in cinque diverse località al confine bosniaco-croato. Si possono vedere 38 agenti di polizia – tra cui due donne – che deportano illegalmente 148 persone attraverso il confine verde.
Finora, le autorità croate hanno sempre negato tutte le accuse secondo cui stanno rimandando illegalmente persone attraverso il “confine verde” in Bosnia-Erzegovina e che gli agenti di polizia usano la forza per farlo. Sebbene numerose dichiarazioni delle persone colpite lo riportino e organizzazioni per i diritti umani come Border Violence Monitoring o Amnesty International abbiano documentato meticolosamente la violenza di respingimento.
Ora non si può negare. Nel giugno 2021, il team è riuscito a catturare per la prima volta in video la violenza sul confine croato-bosniaco.
Gli uomini mascherati non hanno distintivi sulle loro uniformi, ma le indagini e sei agenti di polizia confermano che gli uomini mascherati indossano l’equipaggiamento ufficiale della polizia d’intervento croata (giacca, cintura, pistola di servizio, fondina, porta manette, manganello).
La polizia è subordinata al Ministero dell’Interno di Zagabria. I comandi per i pushback provengono da lì? Lo confermano tre fonti indipendenti tra i ranghi della polizia croata. Vogliono rimanere anonimi per paura di rappresaglie. “Sapete che è illegale, ma chi può dire di no a un’istruzione dall’alto – dal governo e dal ministro dell’Interno Božinović. Quindi sono loro che sono ‘fregati’ perché noi lavoriamo solo secondo le indicazioni del governo”.
Il ministero dell’Interno croato ha annunciato che indagherà sull’incidente. Un team di esperti sarà inviato rapidamente al confine. Se si scopre che sono funzionari croati, saranno ritenuti responsabili, ha detto una portavoce.
Il video è disponibile qui
Immagine in evidenza di ARD Wien/Lighthouse Reports+Medienpartner
Un articolo di Marta Bernardini su Nigrizia
Ricordare le vittime del 3 ottobre 2013 significa ricordare le 40mila persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni, i morti come quelli del 30 settembre 2013 a Sampieri, un’altra costa siciliana, e tutti i corpi ancora dispersi in mare. Dispersi che non verranno probabilmente mai recuperati, assenti ma presenti per i familiari che non possono piangerli. Tutto questo con l’amara certezza che altre persone continuano a morire.
Per cercare di restituire dignità e memoria, scegliamo di rivolgere il nostro impegno simbolico e politico ricordando, dando un nome e un volto dove possibile, perché le voci non siano più sempre solo le nostre.
Siamo e saremo a Lampedusa per denunciare quanto accade: chiediamo che non ci siano altri morti alle frontiere, altre persone costrette a subire violenze, torture, a dover fuggire dal loro paese, dall’Afghanistan alla Tunisia, fino alla Libia, ovunque siano. Crediamo nell’autodeterminazione delle persone e dei popoli, e che l’Europa si debba fare carico del diritto di ognuno ed ognuna a cercare una vita migliore, dignitosa, con sogni e desideri.
Servono corridoi umanitari, vie di accesso legali, serve che l’Europa condivida la responsabilità dell’accoglienza. E nel frattempo occorre che chi salva vite in mare lo possa fare nel migliore dei modi.
12.681 sono le persone arrivate dal 1 maggio al 31 luglio su questo piccolo lembo di Sicilia. Nel mese di agosto sono arrivate a Lampedusa 5.579 persone. Di queste, 3.773 sono partite dalle coste tunisine mentre 1.804 dalla Libia. Moltissime quelle respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate in carceri infernali. Persone a cui vanno garantiti diritti, dignità, una possibilità di futuro.
Saremo a Lampedusa dunque – non solo in questi giorni ma tutti i giorni dell’anno – per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparci dei vivi. Donne, uomini, bambini e bambine che arrivano al molo, dopo giorni di navigazione in mare aperto. Ci guardano, spesso sembrano “morti viventi”, non ancora morti ma neanche pienamente vivi, de-umanizzati, camminano a stento.
Altre volte, con i loro sguardi, corpi dritti, affermano la loro determinazione, la resistenza alla violenza della frontiera, combattenti felici di avercela fatta. Sono sopravvissuti e sopravvissute, spesso all’orrore dei lager libici, altre volte allo sfruttamento delle risorse, altre ancora a crisi climatiche, politiche e democratiche di cui sappiamo sempre troppo poco.
Tutte queste riflessioni rientrano nel nostro impegno ecumenico, come chiese, ad essere dalla parte di chi è reso ultimo, a non voltare lo sguardo altrove, a dire che non sapevamo.
Alla commemorazione ecumenica in programma domenica 3 ottobre a Lampedusa sono intervenuti, tra altre voci, il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, a partire da un passo biblico: Deuteronomio 4, 9-14.
Il filo rosso di questo brano è la memoria, un tema biblico fondamentale: nella Bibbia la memoria fa diventare coloro che ricordano dei contemporanei di coloro che vissero gli avvenimenti ricordati. Annulla cioè in qualche modo la distanza e si struttura non solo una solidarietà ma anche una immedesimazione nell’altro, nell’altra.
Il riferimento al mantenere viva la memoria indica inoltre un aspetto educativo e di testimonianza, la volontà di raccontare, di lasciare un segno per chi verrà dopo di noi. Diceva giustamente Greta Thunberg in questi giorni che «è ora di dire basta al bla bla bla» per le politiche sul clima, così strettamente connesse anche ai flussi migratori. Siamo d’accordo, il tempo è ora, per coltivare memoria e costruire così anche un futuro più umano.
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