L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha lanciato un concorso giornalistico nell’Africa occidentale e centrale per promuovere servizi di qualità sui temi della migrazione, tra i quali la migrazione ambientale, il reinserimento dei migranti, la sensibilizzazione sulla migrazione irregolare e le alternative alla migrazione irregolare nella regione.
Il concorso si propone di celebrare i giornalisti che portano l’attenzione sui molteplici aspetti della migrazione nell’Africa occidentale e centrale, sia in lingua inglese che francese. Si concentra sulla promozione di un’informazione equa ed equilibrata in materia di migrazione, compresa la migrazione ambientale, e sulla sensibilizzazione della migrazione sicura e sulle alternative alla migrazione irregolare.
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Piera Francesca Mastantuono
Su Riforma
Non sono immagini che arrivano da secoli oscuri o da qualche provincia in mano a estremisti di qualsivoglia religione. Sono guardie di frontiera degli Stati Uniti, che, cappello da cowboy in testa, a dorso di cavallo minacciano di frustate donne, uomini, bambini, al confine messicano. Sono pressoché tutti esuli haitiani, in fuga da ogni sorta di calamità naturale ed economica, da una delle nazioni più povere e martoriate della Terra.
Un video e delle fotografie che mostrano le guardie di frontiera che apparentemente minacciano i migranti con le redine e con delle fruste sono state condivise sui social media nei giorni scorsi scatenando un’indignazione diffusa.
«Non credo che chiunque abbia visto quel filmato possa pensare che sia accettabile o appropriato tale atteggiamento», ha detto ai giornalisti la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki intervenuta sulla vicenda.
«Non sono a conoscenza del contesto completo. Non riesco però a immaginare quale contesto lo renderebbe appropriato», ha aggiunto.
Il capo della pattuglia di frontiera degli Stati Uniti Raul Ortiz ha affermato che “l’incidente” è ora oggetto di indagini per assicurare che non vi sia stata una risposta «inaccettabile» da parte delle forze dell’ordine. Ortiz ha affermato che gli agenti stavano operando in un ambiente difficile, cercando di garantire la sicurezza dei migranti durante la ricerca di potenziali trafficanti.
Il segretario del Dipartimento per la sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, a sua volta figlio di immigrati cubani, ha affermato che le lunghe redini sono utilizzate da funzionari a cavallo per «assicurare il controllo del cavallo».
«Ma indagheremo sui fatti», ha aggiunto durante una conferenza stampa.
Il campo sotto un ponte che attraversa il Rio Grande è diventato l’ultimo punto critico per le autorità statunitensi che cercano di arginare il flusso di migranti in fuga dalla violenza delle bande, dalla povertà estrema e dai disastri naturali nei loro Paesi d’origine.
Il campo ospita temporaneamente più di 12.000 migranti, anche se il governatore del Texas Greg Abbott ha affermato che sabato il numero ha raggiunto quota 16.000. Molti hanno viaggiato per migliaia di chilometri, sperando di chiedere asilo negli Stati Uniti.
Lunedì, quando le temperature sono salite fino a 40 gradi, i migranti hanno manifestato contro la continua carenza di cibo e acqua nel campo.
Durante il giorno centinaia di migranti erano tornati dalla parte del Messico nel tentativo di recuperare cibo e acqua, comprese famiglie con bambini piccoli, sollevando zaini, valigie e effetti personali in sacchetti di plastica sopra le loro teste. Proprio per evitare il questo trasporto è intervenuta la polizia di frontiera.
«Questo trattamento è razzismo, a causa del colore della nostra pelle», ha detto Maxon Prudhomme, un migrante haitiano sulle rive del Rio Grande in Messico raggiunto dai giornalisti della agenzia Reuters.
Intanto i primi voli che deportano migranti dal campo di Del Rio sono arrivati ad Haiti domenica, con almeno altri tre che partiranno in questi giorni, rimpatri forzati a tempo di record.
Lunedì 20, il segretario di Stato americano Antony Blinken in una telefonata ha parlato con il primo ministro haitiano Ariel Henry del rimpatrio dei migranti haitiani al confine meridionale degli Stati Uniti, ha reso noto il Dipartimento di Stato in una nota.
I due uomini «hanno discusso dei pericoli della migrazione irregolare, che mette le persone a grande rischio e spesso richiede ai migranti e alle loro famiglie di contrarre debiti paralizzanti».
Blinken ha dichiarato su Twitter di aver parlato anche con il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard «dei nostri sforzi per promuovere una migrazione sicura, ordinata e umana». Negli ultimi anni Washington ha esercitato pressioni crescenti sul Messico affinché bloccasse il flusso di migranti verso il confine.
La prospettiva delle deportazioni grava pesantemente sui residenti del campo, alcuni dei quali hanno viaggiato mesi per raggiungere il confine.
Mayorkas ha detto che si aspetta da uno a tre voli di rimpatrio giornalieri per Haiti, aggiungendo che un’ondata di 600 agenti di frontiera e altro personale sono stati schierati nell’area.
«Se entrate negli Stati Uniti illegalmente, verrete espulsi. Il vostro viaggio non avrà successo», ha detto in una conferenza stampa.
Mentre il presidente Joe Biden ha annullato molte delle politiche sull’immigrazione del suo predecessore Donald Trump all’inizio di quest’anno, ha lasciato in vigore un’ampia politica di espulsione in base alla quale la maggior parte dei migranti sorpresi ad attraversare il confine tra Stati Uniti e Messico vengono rapidamente respinti.
Foto in evidenza di Riforma
Un articolo di Lorenzo Tondo su The Guardian
Gaspare, un pescatore di Sciacca in Sicilia, aveva salvato decine di migranti che tentavano di raggiungere l’Italia in barca dalla Libia quando le autorità italiane hanno minacciato di arrestare lui e il suo equipaggio per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
“Mi chiedo se anche uno dei nostri politici abbia mai sentito le grida disperate di aiuto in alto mare nel buio della notte”, ha detto nel 2019. “Mi chiedo cosa avrebbero fatto. Nessun essere umano – marinaio o no – si sarebbe allontanato”.
Le sue parole risuonano di nuovo nel momento in cui il ministro degli Interni del Regno Unito, Priti Patel, intensifica la sua campagna per rimandare indietro le barche che trasportano migranti attraverso la Manica.
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Immagine in evidenza di Gareth Fuller/PA
Di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Tutti si interrogano se il ritorno del governo dei talebani in Afghanistan produrrà o meno una grave crisi migratoria in Europa; per l’Afghanistan questo ritorno dei talebani avvenuto dopo 20 anni di conflitto interno è un cambiamento profondo e probabilmente di lunga durata. Se nell’ultimo decennio larga parte degli afgani che sono fuggiti dal Paese lo hanno fatto per sottrarsi a una situazione di conflitto e violenza generalizzata, d’ora in poi chi lascerà il Paese lo farà prevalentemente per il fondato timore di subire persecuzioni per ragioni politiche, etniche, religiose o di appartenenza a un dato gruppo sociale, rientrando a pieno titolo nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra del 1951.
I Paesi europei, salvo eccezioni positive tra cui l’Italia, dove il tasso di riconoscimento di una forma di protezione ai cittadini afghani ha sempre superato il 90%, nell’ultimo decennio hanno escogitato ogni stratagemma possibile per evitare di riconoscere protezione (anche quella sussidiaria) agli afghani fingendo che il Paese fosse pacificato o applicando in modo distorto il criterio dell’area interna sicura, dichiarando appunto sicure zone dell’Afghanistan che non lo erano affatto. Come ha ben evidenziato l’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi), nei 12 anni compresi tra il 2008 e il 2020, in Europa sono state presentate solo 600mila domande di asilo da parte dei cittadini afghani; poco meno della metà sono state rigettate con circa 70mila persone rimpatriate, tra cui non meno di 15mila donne.
In alcuni Paesi europei della rotta balcanica, come Croazia e Bulgaria, il tasso medio di riconoscimento di uno status di protezione agli afghani è inferiore al 10% mentre è di poco più del 25% in Slovenia e del 55% in Grecia. Con l’arrivo al potere dei talebani un elevato numero di cittadini afghani, non vedendo alcuna prospettiva di vita, deciderà di lasciare il Paese in tutti i modi possibili. Nel farlo incontreranno però ostacoli insormontabili in quanto molti sono i Paesi che si frappongono sulla loro strada prima di arrivare in Europa, ragione per cui la previsione di una seria crisi di arrivi in Europa pare almeno al momento piuttosto azzardata.
I confinanti Pakistan e Iran, che già complessivamente ospitano più di 2,5 milioni di rifugiati afghani, ostacoleranno altri ingressi e comprimeranno ulteriormente il livello, già minimo, di protezione concesso. La Turchia, a sua volta, aumenterà il ricatto verso l’Ue mentre in parallelo completerà la costruzione del muro con l’Iran (oggi di 160 chilometri) ed è probabile un’escalationdella tensione con la Grecia che ha appena completato il suo muro lungo il confine turco. Non si intravedono per ora segnali che l’Europa voglia tornare a rispettare il diritto di chiedere asilo alle proprie frontiere o attuare un programma pluriennale di reinsediamento dei rifugiati afghani di ampie dimensioni, fermando la propria folle corsa alla delega/esternalizzazione a Stati terzi dei propri obblighi di protezione solennemente proclamati ma pervicacemente violati.
Molto più probabilmente, i cittadini afghani (il gruppo più numeroso di rifugiati al mondo insieme ai siriani) rimarranno senza protezione ancor più di quest’ultimi, intrappolati nel loro Paese ed esposti ad ogni genere di persecuzione da parte di un regime atroce o verranno chiusi nei Paesi confinanti, privi di una reale protezione giuridica e senza prospettive per il futuro. Se così dovesse accadere, poco rimarrà di quel diritto, sancito dalla Convenzione di Ginevra, che nacque 70 anni fa sulle macerie della seconda guerra mondiale, insieme alle attuali democrazie, tra cui la nostra. La posta in gioco non è solo il futuro dell’Afghanistan.
Un articolo di Nello Scavo su Avvenire
Il nuovo rapporto Onu sulla Libia è un continuo atto d’accusa. Con il segretario generale Antonio Guterres che denuncia «le continue restrizioni all’accesso umanitario e al monitoraggio da parte delle agenzie umanitarie nella Libia occidentale».Nessuna pietà neanche per i bambini. «Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia ha riferito che i bambini – scrive Guterres nel suo ultimo dossier (Unsmil) – hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione a Tripoli e dintorni, senza accesso alla protezione di base e ai servizi sanitari e senza ricorso all’assistenza legale o al giusto processo, e spesso sono stati detenuti con gli adulti».
Quasi non c’è più alcuna distinzione tra uomini in uniforme e trafficanti. «Le donne migranti e rifugiate hanno continuato ad affrontare un rischio elevato di stupro, molestie sessuali e traffico da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti transnazionali, nonché funzionari della Direzione per la lotta all’immigrazione illegale sotto il ministero dell’Interno».
I continui divieti alle agenzie Onu, a cui è impedito di ispezionare i campi di prigionia, sono motivati dalla volontà di nascondere i fatti. «A giugno, l’Unsmil ha documentato ripetuti episodi di violenza sessuale perpetrati – si legge ancora – contro cinque ragazze somale di età compresa tra i 16 e i 18 anni». Abusi avvenuti in strutture ufficiali da parte di agenti e militari libici.
Alla data del 14 agosto, la guardia costiera libica aveva intercettato e riportato nel Paese 22.045 migranti e rifugiati, con 380 morti confermati e 629 persone considerate disperse. «Ma l’aumento del numero di migranti e rifugiati rimpatriati ha portato a un maggior numero di persone detenute arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali della Direzione per la lotta all’immigrazione clandestina, senza un controllo giudiziario e sottoposte a trattamenti e condizioni disumane», insiste Guterres. Ad attenderli non c’è alcun tentativo di impedire i crimini, ma «tortura, violenza estrema, abusi sessuali e accesso limitato a cibo, acqua, servizi igienici e cure mediche, in alcuni casi con conseguente morte o lesioni». All’inizio di agosto i prigionieri erano 5.826 migranti, contro i 1.076 dichiarati a gennaio.
Per le milizie l’approvvigionamento di esseri umani è essenziale per far pesare la propria presenza sia ai tavoli interni che nei negoziati con l’Ue a colpi di barconi. Ancora una volta è il clan di Zawyah a fare scuola, dove gli uomini del comandante Bija e dei fratelli Kachlav non perdono occasione per rilanciare la sfida.
E mentre per le strade si torna a combattere, tra faide e regolamenti di conti come quelli avvenuti ancora una volta ieri proprio a Zawyah, viene fomentato l’odio. «Durante il periodo di riferimento, Unsmil ha documentato – riferisce ancora Guterres nel dossier inviato al Consiglio di sicurezza – un aumento delle dichiarazioni pubbliche contro i migranti e contro i rifugiati oltre a incidenti xenofobi contro gli stranieri». È bastato che un certo numeri di lavoratori subasahariani protestasse contro l’impunità garantita agli xenofobi, perché scoppiassero dei disordini. «Centinaia di uomini, donne e bambini sono stati arrestati e portati in una struttura di detenzione a Zawiyah gestita dalla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale». Si tratta proprio del campo di prigionia statale gestito dalla clan di Bija. Notizie compatibili con l’aumento delle partenze da quelle coste.
Immagine in evidenza di Ansa/Zuhair Abusrewil
Su Centro Astalli
Il Consiglio Affari Interni dell’UE dedicato alla crisi in Afghanistan si conclude come l’ennesima occasione mancata di dare priorità a dignità e diritti, di scegliere la via della solidarietà nei confronti di scappa da guerra e persecuzione.
P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, sottolinea: “In un tragico gioco degli specchi cui siamo costretti ad assistere da anni, l’Europa si continua a definire in pericolo, sotto attacco e in situazione di perenne emergenza, ritenendo di dover proteggere se stessa da uomini e donne disperati in fuga da guerre e crisi umanitarie“.
Il Centro Astalli spinto dagli esiti deludenti del meeting europeo di ieri non cessa di chiedere:
– la fine di accordi di esternalizzazione, proposti anche per gestire la crisi afgana: il fallimento degli ultimi anni, il costo in termini di vite umane e la condizione di ricattabilità in cui ci si va a porre li rendono da ogni punto di vista inadeguati e deprecabili;
– l’apertura di vie di ingresso legali per i richiedenti protezione internazionale dall’Afghanistan e dalle aree di crisi del Mediterraneo;
– programmi di accoglienza e integrazione per quote significative di rifugiati da gestire con meccanismi di corresponsabilità e ripartizione tra tutti gli Stati UE;
– un cambio radicale in politica estera che consenta di mettere al centro la pace e la sicurezza da perseguire con tutti gli strumenti della diplomazia e del dialogo.
Foto in evidenza di Centro Astalli
Di Francesco Bechis su Formiche
A fine giornata c’è il compromesso, e non era scontato. Ma nel comunicato finale manca una parola chiave: solidarietà. Il Consiglio Affari interni straordinario dell’Ue sull’Afghanistan si chiude senza grandi battaglie.
La nota conclusiva si apre con una premessa: a dispetto dell’ultimatum dei talebani, l’evacuazione da Kabul continua: “È in corso un lavoro intenso per identificare soluzioni mirate per i casi specifici rimasti di persone a rischio in Afghanistan”.
Cittadini europei, collaboratori afgani delle forze armate dell’intelligence, o semplicemente persone che rischiano la propria vita. Come le 82 studentesse afgane dell’università de La Sapienza che, ha confermato oggi il ministro della Difesa Lorenzo Guerini al Copasir, il governo italiano cercherà di strappare alle ritorsioni dell’Emirato islamico.
Poi i due grandi nodi, sciolti solo a metà. Il primo: l’accoglienza. Sullo sfondo del Consiglio aleggia lo spettro del 2015, quando una ciclopica ondata di migranti dalla Siria ha trovato impreparata l’Europa e causato un’ecatombe nel Mediterraneo.
Il comunicato dei Paesi Ue non sposa il motto “aiutiamoli a casa loro”, ma ci si avvicina molto. L’Ue vuole aiutare i rifugiati afgani “vicino” a casa loro: Pakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Iran, ovunque riescano a trovare riparo. “L’Ue si coordinerà e rafforzerà il suo supporto ai Paesi terzi, in particolare a quelli confinanti e di transito, che ospitano un largo numero di migranti e rifugiati, per rinforzare le loro capacità di offrire protezione, condizioni di accoglienza dignitose e sicure, e uno stile di vita sostenibile per rifugiati e comunità accolte”.
È questa la via di mezzo che ha permesso l’accordo con quei Paesi dell’Europa centro-orientale, su tutti Austria, Lituania e Polonia, che hanno alzato le barricate sull’accoglienza dei rifugiati, complice la pressione elettorale interna. Di qui il passaggio successivo: “L’Ue coopererà con questi Paesi per prevenire l’immigrazione illegale dalla regione, rafforzare la gestione dei confini e impedire il traffico di migranti ed esseri umani”.
L’azione “coordinata e ordinata” dell’Unione ai nuovi flussi migratori si costruirà su tre punti. Controllo delle frontiere con Frontex, aiuti ai Paesi confinanti e “campagne mirate di informazione” per combattere “le narrative usate dai trafficanti”. Oltre ovviamente a controlli serrati dell’Europol per evitare che nella marea di rifugiati si celino terroristi pronti a colpire in Europa. Poi il secondo nodo: gli aiuti finanziari.
La linea di fondo è semplice: i fondi Ue per il sostegno degli afgani non dovranno finire in mano ai talebani. Saranno destinati all’Onu e alle sue agenzie: una garanzia in più per assicurare che i militanti a Kabul non impediscano il loro lavoro umanitario sul campo. Solo così, si legge nella nota, l’Ue potrà “garantire che l’aiuto umanitario raggiunga le popolazioni vulnerabili, in particolare donne e bambini, in Afghanistan e nei Paesi limitrofi”.
Sulla carta l’intesa c’è. E nero su bianco è scritto, con buona pace dei Paesi membri barricadieri, che gli afgani oggi sono “asylum seekers”, rifugiati. Ora inizia la parte più difficile.
Scaduto il termine fissato per l’evacuazione, e partito l’ultimo aereo statunitense, l’aeroporto Hamid Karzai è in mano ai talebani e, ammonisce il Pentagono, attualmente non c’è supporto per aerei in entrata e in uscita da Kabul. A questo punto la palla passa agli Stati membri, che dovranno negoziare singolarmente con i militanti afgani la possibilità di proseguire l’espatrio di connazionali e persone a rischio. C’è chi, come la Germania, ha già attivato i canali. Così hanno fatto anche gli Stati Uniti: secondo la Cnn l’esercito americano ha negoziato un accordo con i talebani per “scortare” all’aeroporto gli americani rimasti sul campo.
Su UNHCR
Adam ha 16 anni e il suo sogno è diventare un medico. È nato in un campo rifugiati in Darfur. A 11 anni è fuggito da solo dal Sudan verso la Libia e da allora ha perso i contatti con la sua famiglia. Da due anni vive in un campo per rifugiati in Niger, tra i Paesi più poveri al mondo, dove non ha alcuna opportunità. Grazie all’impegno dimostrato nelle attività educative disponibili al campo, Adam è stato selezionato per partecipare al progetto “PAGELLA IN TASCA – Canali di studio per minori rifugiati”, e si prepara a partire nel mese di settembre per l’Italia, dove sarà accolto da una famiglia affidataria e inizierà ad andare a scuola.
Arriveranno in Italia a partire dal mese di settembre, e saranno ospitati da famiglie affidatarie di Torino, i primi cinque minori non accompagnati beneficiari del progetto “Pagella in tasca”, lanciato ufficialmente oggi grazie alla firma dei Ministeri dell’Interno, degli Affari Esteri e del Lavoro, e del Comune di Torino.
Il progetto, promosso da INTERSOS e UNHCR, Agenzia ONU per i rifugiati, prevede l’ingresso in Italia con un visto per motivi di studio di 35 minori non accompagnati attualmente rifugiati in Niger. I minori potranno quindi usufruire di un canale di ingresso regolare e sicuro in Italia, dove potranno continuare a studiare, senza dover rischiare la vita affidandosi ai trafficanti per attraversare il Mar Mediterraneo.
“Pagella in tasca” è un progetto pilota finalizzato a sperimentare un canale di ingresso regolare e sicuro fortemente innovativo rispetto ai canali ad oggi esistenti in Italia (corridoi umanitari, resettlement ecc.), in quanto:
“Questo progetto è solo una goccia nel mare”, sottolinea Cesare Fermi, responsabile della Regione Europa di INTERSOS. “Questi 35 minori entreranno in Italia con un canale di ingresso regolare e sicuro, a fronte di più di 700 persone morte nel Mediterraneo centrale nei primi sei mesi del 2021 e più di 13.000 persone intercettate e riportate forzatamente in Libia mentre cercavano di fuggire dalla guerra, dalle violenze e dalle torture. Questo progetto pilota è però anche un primo passo importante. L’apertura di un nuovo canale di ingresso, infatti, potrà consentire in futuro anche ad altri minori non accompagnati di entrare in Italia in modo protetto”.
“Con progetti come Pagella in tasca lavoriamo a due obiettivi fondamentali: aumentiamo le opportunità di accesso all’educazione per i ragazzi e le ragazze rifugiate e ampliamo i canali di accesso sicuri per chiedere asilo”, ha dichiarato Chiara Cardoletti, Rappresentante di UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino. “E’ importante creare le condizioni per accogliere in modo sicuro e pianificato i giovani rifugiati, offrendo loro la possibilità di studiare in Italia e, allo stesso tempo, sottraendoli ai rischi connessi a viaggi tanto disperati quanto pericolosi”.
Insieme all’organizzazione umanitaria INTERSOS e a UNHCR, sono partner del progetto il Comune di Torino, la rete CPIA Piemonte, l’Arcidiocesi di Torino e alcune organizzazioni torinesi. Il progetto è stato realizzato con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana (nell’ambito della Campagna “Liberi di partire, liberi di restare” – Fondi 8 per mille Chiesa Cattolica), della Fondazione Migrantes, di Acri (nell’ambito del Progetto “Migranti”) e della Fondazione Compagnia di San Paolo.
Su Vita
L’enfasi posta dai decisori europei nel dissuadere le persone provenienti dall’Afghanistan a cercare protezione in Europa lascia sgomenta Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro, che invita i governi e l’UE ad adempiere al dovere morale e legale di garantire la sicurezza dei minori e delle famiglie afghane a rischio di persecuzione e di altre violazioni dei diritti umani e di assicurare loro protezione.
“Per anni l’Europa ha completamente fallito nel soddisfare i bisogni di protezione e sostegno dei minori migranti, compresi quelli non accompagnati. Il risultato è stata una risposta umanitaria caotica, la violazione dei diritti dei più piccoli e una crisi politica nell’UE. L’Europa non può continuare a commettere gli stessi errori: deve garantire che i bambini e gli adolescenti in fuga dall’Afghanistan possano chiedere assistenza, asilo e vedano rispettati i propri diritti. I paesi europei dovrebbero emettere con urgenza nuove linee guida per gli afghani a rischio, riconoscendo il drammatico cambiamento nella situazione in Afghanistan, in particolare per donne, ragazze, bambini, adolescenti e persone LGBTQI+. Tutte le domande di asilo avanzate da cittadini afghani e respinte e gli ordini di espulsione devono essere rivisti alla luce della presa del potere del Paese da parte dei Talebani”, ha affermato Anita Bay, Direttrice di Save the Children Europe.
Il sostegno promesso dalla presidente Von der Leyen ai paesi vicini all’Afghanistan, che ospitano la stragrande maggioranza dei rifugiati dal Paese, è benvenuto, così come la volontà dei governi europei di reinsediare alcuni afgani. Tuttavia, questa disponibilità non dovrebbe essere limitata a coloro che hanno collaborato con le forze militari e deve includere i rifugiati vulnerabili nei paesi vicini dell’Afghanistan.
“In nessun caso, tuttavia, il reinsediamento dovrebbe essere utilizzato per giustificare dure misure di deterrenza ai confini dell’Europa“, ha aggiunto Anita Bay, sottolineando che il ricorso agli aiuti umanitari per spingere i paesi a impedire ai rifugiati di recarsi in Europa è immorale e mina gli obblighi degli Stati europei ai sensi del diritto internazionale dei rifugiati. Inoltre, tale politica non riconoscerebbe adeguatamente l’impegno di tali Paesi per ospitare milioni di rifugiati già prima dell’escalation e rispondere alla situazione talvolta complessa dei rifugiati accolti.
“L’Europa ha le risorse e le capacità per aiutare le persone che arrivano ai suoi confini dall’Afghanistan e offrire protezione a coloro che ne hanno bisogno”, ha dichiarato Bay. “Ciò che serve è una leadership forte per passare dalla deterrenza all’accoglienza. Le violenze che centinaia di bambini e famiglie hanno subito alle frontiere dell’UE negli ultimi anni sono inaccettabili“.
L’accresciuto controllo delle frontiere ha portato alla creazione di colli di bottiglia in prossimità dei confini dei paesi balcanici, con migliaia di minori e adulti che cercano disperatamente di attraversarli, andando incontro a respingimenti violenti e illegali.
“L’esternalizzazione delle responsabilità deve cessare. Questo approccio ha già creato un limbo legale per migliaia di rifugiati, compresi i minori non accompagnati, sulle isole greche”, ha affermato Vasilis Papastergiou del Greek Council for Refugees, con cui Save the Children ha collaborato per assistere i minori migranti in Grecia. “Non possono far esaminare le loro richieste di asilo e la Turchia non li accetta indietro per cercare protezione internazionale lì. Gli afghani che arrivano in Europa e chiedono asilo – com’è loro diritto – devono vedere i loro casi esaminati nel merito individuale”.
Save the Children è un’organizzazione indipendente, imparziale e politicamente neutrale che opera in Afghanistan dal 1976 per fornire servizi salvavita ai bambini e alle loro famiglie in tutto il Paese, ma ha dovuto sospendere temporaneamente le attività. L’Organizzazione ha fornito servizi di salute, istruzione, protezione dell’infanzia, nutrizione e mezzi di sussistenza, raggiungendo oltre 1,6 milioni di afgani nel 2020.
Intanto sono circa 900, su quasi 3.800 persone, i minorenni fino a oggi messi in sicurezza grazie alle operazioni Aquila e Aquila Omnia, poste in campo dall’Italia per rispondere alla crisi in corso in Afghanistan. L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, ha scritto ai ministri della difesa, Lorenzo Guerini, dell’interno, Luciana Lamorgese, e della salute, Roberto Speranza chiedendo di «essere aggiornata sul numero di quanti, fra loro, sono accolti nel nostro Paese, che potrebbe aumentare già in queste ore, sulla loro età, sul sesso, sulla presenza di fratelli e adulti di riferimento, ma anche sulla loro collocazione logistica e sulle misure adottate per assicurare loro un’adeguata accoglienza, superato il periodo di quarantena al quale sono sottoposti».
Un articolo di Daniel Keane su The Independent
Shabia Mantoo, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ha avvertito che gli afghani che desiderano fuggire dai talebani “non hanno una via d’uscita chiara” e che la “grande maggioranza” non è in grado di andarsene attraverso i “canali regolari”.
UNHCR stima che il 90% dei 2,6 milioni di rifugiati afghani al di fuori del Paese viva nei vicini Iran e Pakistan. Ma i talebani hanno chiuso i punti di controllo chiave e il Pakistan ha recentemente fortificato il confine con l’Afghanistan e la Turchia.
In confronto, circa 630.000 afghani hanno chiesto asilo nei paesi dell’UE negli ultimi 10 anni, con i numeri più alti in Germania, Ungheria, Grecia e Svezia, secondo la EU statistics agency.
Quali Paesi stanno accettando i rifugiati afghani?
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