Pubblichiamo la Dichiarazione di Erice su “La tutela della salute dei migranti. Una sfida di equità per il sistema sanitario pubblico”, predisposta in occasione dell’omonimo Corso svoltosi a Erice dal 28 marzo al 2 aprile 2022, patrocinato dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), dalla Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI) e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e svoltosi nell’ambito della Scuola Superiore di Epidemiologia e Medicina Preventiva della Fondazione e Centro di Cultura Scientifica “Ettore Majorana” di Erice.
La Dichiarazione di Erice è disponibile qui.
Già sottoscritta da 92 persone a vario titolo presenti al Corso, è possibile sottoscrivere la Dichiarazione compilando la griglia al link https://drive.google.com/drive/folders/1VRBf6fT3-pFJ9ysf8v-o0ZC-cA9_n2PX?usp=sharing entro il 15 luglio 2022.
Su Redattore Sociale
Vaccinati ma senza green pass: gli immigrati senza permesso di soggiorno non riescono per ora a scaricare dal sito del Ministero della Salute la certificazione. Il sistema informatico, al quale si accede con il link che ogni vaccinato riceve tramite sms o via mail, non riconosce l’Stp, ossia il codice per gli Stranieri Temporaneamente Presenti, che viene dato agli irregolari per accedere alle prestazioni sanitarie. Per scaricare il green pass bisogna infatti inserire le ultime quattro cifre della tessera sanitaria, ma se si inseriscono quelle dell’Stp non vengono accettate.
“Non è un problema di poco conto – spiega Maurizio Bove, responsabile del dipartimento immigrazione della Cisl di Milano -. Il green pass non serve solo per andare al cinema o al ristorante, ma anche per accedere a servizi della pubblica amministrazione, per prendere un treno. Non dimentichiamoci che molti stranieri irregolari lavorano, anche se purtroppo in nero, e sono parte integrante della nostra società. Alcuni vivono in questa condizione perché magari hanno perso un lavoro in regola”.
In Lombardia la vaccinazione anticovid-19 è aperta realmente a tutti dal 25 giugno, quando la piattaforma regionale on line per prenotare il vaccino è stata modificata per accettare anche le richieste di chi non ha la tessera sanitaria ma solo il codice Stp. Un passo importante, auspicato per mesi da associazioni ed enti del terzo settore che si occupano di immigrazione e di senza dimora. Ora però c’è l’ostacolo del green pass, nel quale si stanno imbattendo anche gli operatori della Casa della Carità e di Progetto Arca.
Su UNAR
L’invito del Commissario straordinario Figliuolo alle Regioni e alle Province autonome affinché favoriscano l’accesso alle vaccinazioni delle persone senza tessera sanitaria, codice fiscale o residenza, è una notizia che viene accolta “con soddisfazione” da parte dell’Unar – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri.“Un’iniziativa che costituisce un passo avanti significativo per la piena applicazione del diritto alla salute, in linea con la richiesta avanzata nei giorni scorsi dall’Unar al Commissario Figliuolo, per garantire parità di trattamento nell’accesso ai vaccini alle persone più vulnerabili”, afferma il direttore dell’UNAR Triantafillos Loukarelis.
“Auspichiamo ora che gli Enti locali provvedano ad uniformarsi a questa indicazione, nel rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione. Come indicato dal Commissario – prosegue – le Regioni potranno inoltre ricercare sinergie con associazioni e/o organizzazioni in grado di supportare l’attività di vaccinazione delle persone in situazione di disagio sociale e sanitario.”
“Nel corso degli ultimi mesi – aggiunge – l’Unar e l’associazione ‘L’altro diritto ODV’ hanno ricevuto diverse segnalazioni sull’impossibilità di accesso ai vaccini anti SARS-CoV-2/COVID-19 in diversi Comuni del territorio nazionale da parte di cittadini di Paesi terzi senza permesso di soggiorno con codice Stp o con un permesso di soggiorno connesso alle procedure di emersione, questi ultimi, tra l’altro, titolari del diritto all’iscrizione obbligatoria al Ssn e quindi al rilascio della tessera sanitaria.
Impedire a queste persone l’accesso a una prestazione sanitaria essenziale configurerebbe una discriminazione istituzionale inaccettabile oltre che, in una situazione di pandemia, un pericolo per la salute pubblica e privata”, conclude Loukarelis.
“Per vaccinare tutti è indispensabile mettere in piedi un sistema in grado di non escludere nessuno, che garantisca a chiunque la possibilità di ottenere il green pass in condizioni di parità di trattamento. Solo così potremo realmente realizzare l’obiettivo di una comunità inclusiva, solidale e accogliente che sappia proteggere e non penalizzare le persone più vulnerabili”.
Di Sara De Carli su Vita
Al 24 maggio 2021, secondo il Viminale, sono sbarcati in Italia 2.279 minori stranieri non accompagnati, su 13.766 persone che hanno raggiunto l’Italia via mare. In tutto il 2020, i bambini e i ragazzi giunti soli via mare erano stati 4.687, l’anno prima 1.680. I numeri relativi ai minori stranieri che si trovano a vivere soli nel nostro Paese stanno tornando a salire: complessivamente i minori stranieri non accompagnati presenti in Italia al 30 aprile 2021 erano 6.633, tornati stabilmente da ottobre 2020 sopra quota 6mila. Siamo ancora molto distanti dai numeri del 2017, quando avevamo più di 18mila minori stranieri soli, ma gli addetti ai lavori hanno già richiamato la necessità di alzare l’attenzione affinché i loro diritti di bambini e ragazzi siano rispettati. Perché questo sono, prima di tutti, bambini e ragazzi che necessitano di adulti di riferimento, che li accompagnino.
Fondamentale è che ognuno di loro abbia un tutore volontario al suo fianco: una figura che l’Italia ha introdotto nel 2017 con la “legge Zampa” e che non soltanto ci ha permesso di arrivare alla chiusura della procedura di infrazione a nostro carico da parte della Commissione Europea ma ci ha fatti diventare in qualche modo modello per l’accoglienza.
Per questo la Garante Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza Carla Garlatti a inizio maggio ha ribadito che ogni minore non accompagnato presente in Italia deve avere un tutore volontario: garantirglielo non è un auspicio o un semplice valore aggiunto del nostro sistema di accoglienza, bensì un dovere. «Avere un tutore volontario è un diritto che tutti i MNA devono ottenere. Ci sono zone d’Italia in cui il numero di tutori è adeguato al numero di minori e altre in cui non lo è affatto, perciò è necessario proseguire con una campagna di sensibilizzazione», ha detto. I numeri ufficiali sono fermi al 30 giugno 2019: 2.967 tutori volontari formati e 2.960 iscritti negli albi dei tribunali, grossomodo uno ogni due MNA presenti al momento in Italia.
L’altra area su cui lavorare è l’accoglienza in famiglia, con un affido. Il progetto Terreferme, nato nel 2018 da un’intesa tra CNCA e Unicef, è ora diventato una delle azioni del programma Child Guarantee, con l’obiettivo di realizzare 35 affidi di MNA entro il marzo 2022. Gli affidi già avviati sono 26, di cui 12 hanno riguardato MNA che dalla Sicilia hanno trovato una famiglia in Lombardia e Veneto (la necessità di riequilibrare la presenza dei minori sul territorio nazionale era uno dei punti di partenza del progetto). Altri cinque progetti di affido potrebbero concretizzarsi al termine della scuola, con un primo affido a tempo pieno di una ragazza in una famiglia siciliana. Terreferme infatti in questi anni si è “allargato”, con la formazione di famiglie affidatarie in Sicilia, con l’apertura agli affidi diurni e anche a minori stranieri che hanno una famiglia, ma fragile.
«Ha funzionato la squadra, la tenuta nel tempo, la tenuta delle famiglie. Avere operatori che garantiscono una reperibilità H24, 365 giorni l’anno, rassicura molto le famiglie. Anche i Comuni sono più disponibili a farsi coinvolgere», commenta Liviana Marelli, responsabile Minori e Famiglie del CNCA. I nodi sono la gestione della burocrazia legata ai documenti, ai premessi, alla regolarizzazione – «le famiglie da sole non ce la fanno», dice – e lo snodo della maggiore età: «Ai 18 anni hanno tutti avuto il prosieguo amministrativo e sono ancora in famiglia, tranne uno che è tornato in Sicilia ma si definisce “il figlio lontano” della famiglia affidataria. Il rischio però è che questi ragazzi precipitino in una posizione di irregolarità che interrompa i percorsi importanti che hanno avviato».
A cura di Oxfam Italia
Mentre cala in tutto il mondo il numero di contagi, in Africa dove sono immani le difficoltà di tracciamento dei nuovi casi, molti paesi stanno affrontando la terza ondata della pandemia senza essere minimamente preparati. Basti pensare che solo nell’ultima settimana al contrario del resto del mondo l’incidenza di nuovi contagi registrati è cresciuta del 33% ogni 100 mila abitanti, con un +42% di mortalità per un totale di quasi 180 mila nuove persone infette, che sono certamente sottostimate a causa delle difficoltà di tracciamento e diagnosi.
È la denuncia lanciata oggi da Oxfam e EMERGENCY, attraverso la testimonianza diretta dei propri operatori sul campo in due paesi allo stremo come Uganda e Sudan.
“Dopo la prima ondata avevamo tirato un sospiro di sollievo, ma ora sta accadendo ciò che temevamo: il Covid-19 è esploso in Africa, investendo i fragili sistemi sanitari dei Paesi dove lavoriamo. Il continente sta registrando circa un milione di nuove infezioni ogni 68 giorni. Noi che viviamo qui vediamo gli effetti dell’egoismo dei Paesi ricchi che non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per avviare una campagna vaccinale in grado di arginare realmente il virus. E ora la situazione è drammatica”. Così Giacomo Menaldo, Country director di EMERGENCY in Uganda e Costanza Barucci, coordinatrice di progetto di Oxfam Italia in Sudan, raccontano la realtà che si trovano davanti agli occhi ogni giorno.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), le varianti del Covid-19, stanno infatti “amplificando e accelerando” la nuova ondata e, senza un adeguato aumento nella fornitura di vaccini, il continente non sarà in grado di arginarne la diffusione. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha sottolineato che, senza l’aiuto internazionale, nel prossimo futuro l’Africa sub-sahariana rischia di essere piegata da continue nuove ondate di infezioni, paralizzando investimenti, produttività e crescita economica.
“In Uganda stiamo rivivendo la situazione di marzo 2020 in Europa: allora i grandi ospedali nazionali erano del tutto impreparati a una ospedalizzazione di massa; oggi in Uganda gli ospedali non hanno ossigeno sufficiente per i pazienti e hanno difficoltà a implementare norme preventive e protettive per lo staff sanitario, che purtroppo sta registrando un aumento di contagi – racconta Giacomo Menaldo, Country director di EMERGENCY in Uganda – Il tutto si cala in una infrastruttura sanitaria più debole rispetto agli standard europei. La situazione è così seria che lo scorso 18 giugno il presidente Musuveni ha deciso di emanare nuove regole per un lockdown più restrittivo, inasprendo anche le sanzioni per i trasgressori.”
EMERGENCY è testimone diretto dell’aggravarsi della situazione in Uganda, dove ad aprile ha aperto un Centro di chirurgia pediatrica sulle righe del lago Vittoria.
Con una media di 816 nuovi positivi al giorno, l’Uganda è stato per settimane il quinto Paese africano con il maggior numero di nuove infezioni quotidiane. Nel giro di un mese i nuovi contagi settimanali sono aumentati di quasi trenta volte, passando da 366 nella settimana del 10 maggio a un picco di 9926 in quella del 14 giugno. Sono stati finora riportati più di 79.977 casi totali e 1.023 morti, ma i numeri sono probabilmente sottostimati a causa della limitata capacità delle strutture sanitarie di primo livello di fare una campagna di test su larga scala.
Per cercare di mantenere la trasmissione sotto controllo, il governo ha imposto un nuovo lockdown parziale di 42 giorni in cui scuole, luoghi di preghiera e mercati rimarranno chiusi, ha vietato ogni spostamento tra distretti, effettuato sia con veicoli pubblici che privati, e ha ripristinato il coprifuoco serale a partire dalle ore 19.
“Purtroppo è già scattata anche la corsa al profitto della sanità privata, con aziende, anche straniere, che hanno trasformato interi hotel in centri Covid a cui è possibile accedere solo a seguito di lauti pagamenti: abbiamo letto anche di parcelle fino a 3.000 dollari pagate dai pazienti all’ammissione,(6)” – prosegue Menaldo.
Dall’inizio della crisi, EMERGENCY ha adottato in tutte le sue strutture sanitarie protocolli di controllo delle infezioni, che includono la formazione del personale, la compartimentazione degli spazi e la separazione dei flussi sporco-pulito per ridurre il rischio di contagio. Al momento, al Centro di chirurgia pediatrica di Entebbe lavora uno staff internazionale che ha in parte già affrontato il Covid-19 in Italia durante la prima ondata.
“Abbiamo proposto al governo di condividere l’esperienza maturata nell’anno passato nella gestione del Covid e le conoscenze del nostro staff, mettendole a disposizione delle strutture pubbliche locali – spiega Menaldo – L’Uganda è stato uno dei primi paesi africani a imporre un lockdown molto duro all’inizio della pandemia, e sembrava che fossero riusciti a tenere sotto controllo il contagio. Ma la diffusione delle varianti beta e delta nella fascia più giovane e una campagna vaccinale rallentata in termini di approvvigionamento hanno fatto precipitare la situazione.”
La situazione resta molto critica anche in Sudan, paese incluso dalle Nazioni Unite nella lista dei 46 paesi meno sviluppati al mondo, dove solo nei centri urbani è possibile accedere alle poche strutture sanitarie disponibili quando la malattia è ormai in fase avanzata. Affrontare l’emergenza, tracciando e isolando i nuovi contagi per prevenire lo scoppio di focolai e fornire cure adeguate rappresenta una sfida complessa per tutti i sistemi sanitari, in particolar modo per quelli dei paesi a basso reddito con sistemi sanitari fragili.
I dati ufficiali in Sudan registrano 36.658 casi e poco più di 2.750 decessi dall’inizio della pandemia su 43,850 milioni (8) di abitanti (secondo le stime delle Nazioni Unite). Numeri parziali che non rispecchiano affatto la reale estensione del contagio, ma sono la riprova dell’impossibilità di effettuare il tracciamento, processare tamponi, eseguire diagnosi, raccogliere e analizzare i dati.È dunque più che mai fondamentale immunizzare con il vaccino la popolazione in tempi brevi.
“In tutto il Sudan al momento ci sono solo 110 ventilatori in 18 stati e la disponibilità di ossigeno copre solo una piccola parte delle crescenti necessità. – spiega Costanza Barucci, coordinatrice di progetto di Oxfam Italia in Sudan – La maggior parte dei centri di isolamento monitorati dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) in 15 stati non dispone di sistemi igienico-sanitari adeguati. Il personale medico e sanitario specializzato è mal distribuito e concentrato solo nelle principali aree urbane del Paese. Un’emergenza che dall’inizio della pandemia Oxfam ha cercato di fronteggiare formando il personale sanitario e fornendo kit- igienici nei centri sanitari di Port Sudan, sensibilizzando la cittadinanza sulle norme per prevenire il contagio. Ora più che mai serve intensificare la risposta a livello internazionale, prima di tutto vaccinando il maggior numero di persone possibile”.
I casi di Uganda e Sudan mettono a nudo tutta la debolezza dell’iniziativa Covax promossa dall’OMS per portare i vaccini contro il Covid-19 nei paesi poveri. All’Uganda sono state infatti destinate quasi 3,2 milioni di dosi, ma fino a oggi ne ha ricevute solo poco più di un milione (9), e ne ha somministrate 937.417: considerando che per ogni persona sono necessarie due dosi, significa che finora circa solo l’1% della popolazione ugandese è stata vaccinata.
In totale il Sudan ha invece richiesto 17 milioni di dosi di vaccino, per coprire con le due dosi necessarie 8,5 milioni di persone entro fine 2021. Al 30 giugno però erano state somministrate appena 677.957 dosi.
Ciò significa che nella migliore delle ipotesi, sulla base dei pochi dati disponibili, al momento poco più dello 1,5% della popolazione sudanese ha ricevuto la prima dose di vaccino e che se tutto andasse secondo i piani di Covax, entro l’anno sarebbe immunizzato poco più del 20%. Al momento in Africa è stato vaccinata appena il 2,6% della popolazione con almeno una dose, contro il 50,4% dei cittadini dell’Unione europea.
La People’s Vaccine Alliance (PVA), una coalizione mondiale di organizzazioni e attivisti che include premi Nobel, scienziati e leader religiosi e di cui sia EMERGENCY che Oxfam fanno parte, sostiene da tempo che la condivisione dei brevetti e del know-how sia l’unica soluzione per vaccinare l’intera popolazione mondiale e bloccare le varianti.
“La sospensione della proprietà intellettuale dei brevetti detenuti dai colossi farmaceutici sui vaccini Covid e il trasferimento di know-how, per renderne possibile la produzione direttamente nei paesi in via di sviluppo, aumentando le dosi disponibili a livello globale, resta l’unica vera strada per sconfiggere la pandemia. – concludono Sara Albiani, policy advisor sulla salute globale di Oxfam Italia e Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY – Il sistema di donazioni di dosi dai paesi ricchi ai paesi poveri e l’iniziativa Covax non fermeranno la pandemia e nel frattempo moriranno ancora centinaia di migliaia di persone. Per questo rilanciamo con forza l’appello all’Italia e all’Unione Europea a prendere posizione per rendere i vaccini un bene pubblico globale seguendo l’esempio di Stati Uniti e Francia e supportando la sospensione dei brevetti richiesta in seno all’Organizzazione mondiale del commercio: se non verrà raggiunto almeno il 60% di immunizzazione a livello globale entro la fine dell’anno, le varianti del virus potrebbero prendere il sopravvento”.
Foto in copertina di Oxfam Italia
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