Di Eleana Elefante su Altreconomia
Mentre è in corso il nuovo flusso migratorio proveniente dall’Ucraina, invasa e martoriata dalle forze armate russe, continuano a registrarsi morti e dispersi nel Mediterraneo centrale. Dal 24 febbraio al 31 marzo 2022, i cittadini ucraini accolti in Italia sono stati 75.155: in maggioranza donne (38.735) e minori (29.222), mentre gli uomini sono 7.158. A confronto, in tutto il 2021, dalla rotta del Mediterraneo centrale sono giunte poco più di 67mila persone. Donne, uomini e bambini per le quali la sensibilità pubblica e istituzionale ha però invocato quel richiamo all’invasione che, nei fatti, ha generato una discriminazione tra profughi di “serie A” e di “serie B”.
Tra gennaio e marzo 2022 sono state 6.670 le persone che sono riuscite a raggiungere le coste italiane dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale. Fra loro 842 minori non accompagnati (erano stati 10.053 in tutto il 2021). A marzo gli arrivi sono stati 1.296 contro i 2.395 del marzo 2021. I Paesi di origine maggiormente coinvolte in questo flusso sono Egitto, con 1.621 persone, Bangladesh (1.276 persone), Tunisia (918 persone), Afghanistan (469 persone). Molti coloro che dopo la partenza dalla Libia sono stati intercettati in mare e riportati sulle spiagge del Paese nordafricano: oltre 3.094 persone, secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni. I corpi restituiti dal mare sono 56 e 243 persone risultano scomparse. Nel 2021, su questa rotta, sono state respinte in Libia 32.425 persone; 662 sono i corpi ritrovati e 891 le persone scomparse.
Circa 359 persone sono già morte quest’anno sulla rotta del Mediterraneo centrale: solo nel mese di marzo si sono registrati almeno quattro naufragi evitabili. Il primo marzo, la Guardia costiera tunisina ha recuperato 15 corpi, tra cui quello di un bambino, mentre 35 persone restano ancora disperse. Erano partiti da Sabratha, città a Ovest di Tripoli, il 27 febbraio a bordo di una barca in vetroresina che si è capovolta poche ore dopo a causa delle cattive condizioni del mare. Il 12 marzo un’altra imbarcazione con 25 persone a bordo si è capovolta a poca distanza dalla costa libica nei presso di Tobruk (nella Libia orientale). Le autorità hanno soccorso sei persone e recuperato sette corpi mentre altre 12 persone risultano ancora disperse. Il 18 marzo almeno 17 persone partite dalla Tunisia sono annegate in silenzio: erano per lo più cittadini siriani. La Guardia costiera tunisina ha ritrovato prima 12 corpi al largo della costa di Nabeul (città nel Nord del Paese) e altri cinque il giorno dopo. Il 23 marzo una barca partita dal Sfax, in Tunisia, si è rovesciata: sono solo tre i sopravvissuti e i sei i corpi recuperati dalle autorità locali.
Il mese di aprile si è aperto con un ulteriore, imponente, naufragio. Nella notte tra l’1 e il 2 aprile al largo della Libia, in acque internazionali, è naufragata infatti una barca con a bordo almeno 90 persone. L’Ong Alarm Phone aveva diramato diverse richieste di soccorso alle autorità italiane e maltesi, tutte disattese, già nei quattro giorni precedenti il drammatico epilogo. Sono solo quattro i sopravvissuti soccorsi dalla petroliera commerciale “Alegria 1” che li ha però riportati in Libia. Medici Senza Frontiere ha denunciato questo ennesimo pushback dichiarando che la petroliera ha ignorato sia le ripetute offerte di assistenza medica, sia l’invito a non riportare i sopravvissuti in un Paese dove, quasi certamente, dovranno affrontare detenzioni, abusi e maltrattamenti. In attesa di ricevere la conferma sul numero esatto delle perdite, quest’ultimo rappresenta il più grave naufragio avvenuto da inizio anno davanti alle coste della Libia.
Nonostante l’assenza istituzionale, i salvataggi in mare continuano. Il 5 marzo gli operatori della nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere hanno salvato 80 persone a bordo di un gommone alla deriva. Tra loro tante donne e sei bambini di età inferiore ai quattro anni. Nella notte del 6 marzo gli stessi hanno salvato altre 31 persone terrorizzate dall’oscurità e dalle condizioni meteo-marine talmente avverse da aver rovesciato il barchino su cui viaggiavano: 111 vite messe in salvo in meno di 24 ore, tra cui 52 minori (il più piccolo di soli quattro mesi e ben 45 non accompagnati) oltre a dieci donne tra cui due incinte.
Molte delle persone ritrovate avevano lacerazioni sulla pelle da ustione da carburante misto all’acqua salata. Il 14 marzo, dopo varie richieste disattese, la nave umanitaria è stata autorizzata ad attraccare nel porto di Augusta (SR) per effettuare lo sbarco dei 111 naufraghi. Il 24 marzo gli operatori della Ocean Viking di SOS Méditerranée hanno soccorso 30 persone da un gommone in avaria in acque internazionali, al largo della Libia. Il 26, in un’operazione di soccorso durata oltre cinque ore per via delle condizioni avverse, hanno salvato altre 128 persone. Purtroppo tra loro anche due corpi senza vita. Ne verrà recuperato solo uno. Le 157 persone salvate sono sbarcate ad Augusta. Il 27 marzo 32 persone a largo di Bengasi (nell’Est del Paese) su una barca in avaria hanno lanciato diverse richieste di aiuto ad Alarm Phone che ha allertato le autorità. Sono state salvate il giorno dopo dalla portacontainer “Karina”. Il comandante ucraino, Vasyl Maksymenko, insieme al suo equipaggio non ha esitato a intervenire in soccorso dei naufraghi. Il 29 marzo la Sea Watch 4 ha offerto supporto alla nave mercantile per effettuare il trasbordo dei 32 naufraghi sulla propria nave umanitaria. Il giorno dopo altre 113 persone sono state messe in salvo dalla Geo Barents di Medici Senza Frontiere. Alcuni dei naufraghi, esausti dopo ore in mare, erano caduti in acqua. A fine mese Alarm Phone ha lanciato una richiesta di soccorso per 145 persone su un gommone sovraffollato con il motore in avaria al largo della Libia. A bordo presenti molte donne e bambini.
Si tratta di una breve rassegna di persone e storie ignorate e respinte alle frontiere. In nome di chi scompare senza più un nome, senza più un volto, aiutare non dovrebbe più essere un’iniziativa discrezionale ma un diritto alla vita e alla dignità riconosciuto universalmente a tutti coloro che fuggono dalle stesse guerre, dagli stessi conflitti, dalle stesse violenze. Che arrivino dall’Ucraina o dalla Libia.
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Ho fatto due anni di prigione per aver guidato una barca. Ho salvato la vita di quelle persone, non avevamo altra scelta. Ora vogliamo lottare per la libertà e i diritti umani di altri migranti imprigionati ingiustamente”, Cheikh Sene è arrivato in Italia qualche anno fa dalla Libia, arrestato dalle autorità italiane con l’accusa di essere uno scafista, cioè di aver condotto l’imbarcazione carica di migranti con cui ha attraversato il Mediterraneo.
Ora Sene è un attivista del circolo Arci Porco rosso di Palermo e ha collaborato con l’associazione nella realizzazione di una ricerca che ha per la prima volta analizzato dal punto di vista quantitativo gli arresti di migranti accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: ne emerge che dal 2013 più di duemila persone sono state arrestate e accusate di essere scafisti dalle autorità italiane con processi che hanno portato a pene molto severe.
L’analisi quantitativa dei dati raccolta da tre associazioni non governative – Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone – ha mostrato che in Italia negli ultimi anni sono stati usati i sistemi della direzione nazionale antimafia, potenti strumenti di indagine e metodi imponenti per individuare i richiedenti asilo e migranti appena arrivati nel paese che avevano condotto le imbarcazioni, accusandoli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato che prevede pene fino a quindici anni di carcere e milioni di euro di multa. Lo aveva già anticipato un’inchiesta di The Intercept, tradotta e pubblicata anche da Internazionale.
Secondo la ricerca, nell’ultimo ultimo anno la polizia ha arrestato un migrante ogni cento di quelli arrivati in Italia via mare. Le associazioni hanno intervistato un centinaio di persone tra cui decine di migranti, avvocati, giudici, ufficiali della guardia costiera italiana e operatori penitenziari.
Nella relazione si sottolinea che molti migranti vengono giudicati colpevoli anche quando le prove usate in tribunale contro di loro sono estremamente deboli. Maria Giulia Fava, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, ha denunciato: “Si tratta di processi politicamente condizionati. Nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei princìpi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale sono violati con leggerezza”.
“Una problematica centrale riscontrata è quella inerente all’accesso ai diritti da parte delle persone accusate, tenuto conto della peculiare condizione di difficoltà in cui si trovano al momento in cui viene formulata l’accusa. Dobbiamo infatti considerare, come illustrato nella precedente sezione, che i capitani vengono identificati al momento dello sbarco, o in prossimità di esso, in un paese straniero ove, spesso, non hanno alcun riferimento affettivo e di cui non conoscono lingua, cultura, né tantomeno la legge”, è scritto nel rapporto.
Le condanne variano dai due anni ai vent’anni. Dei quasi mille casi analizzati dall’indagine, venti persone sono state condannate a pene detentive di oltre dieci anni e sette persone hanno ricevuto l’ergastolo.
Un articolo di Marta Bernardini su Nigrizia
Ricordare le vittime del 3 ottobre 2013 significa ricordare le 40mila persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni, i morti come quelli del 30 settembre 2013 a Sampieri, un’altra costa siciliana, e tutti i corpi ancora dispersi in mare. Dispersi che non verranno probabilmente mai recuperati, assenti ma presenti per i familiari che non possono piangerli. Tutto questo con l’amara certezza che altre persone continuano a morire.
Per cercare di restituire dignità e memoria, scegliamo di rivolgere il nostro impegno simbolico e politico ricordando, dando un nome e un volto dove possibile, perché le voci non siano più sempre solo le nostre.
Siamo e saremo a Lampedusa per denunciare quanto accade: chiediamo che non ci siano altri morti alle frontiere, altre persone costrette a subire violenze, torture, a dover fuggire dal loro paese, dall’Afghanistan alla Tunisia, fino alla Libia, ovunque siano. Crediamo nell’autodeterminazione delle persone e dei popoli, e che l’Europa si debba fare carico del diritto di ognuno ed ognuna a cercare una vita migliore, dignitosa, con sogni e desideri.
Servono corridoi umanitari, vie di accesso legali, serve che l’Europa condivida la responsabilità dell’accoglienza. E nel frattempo occorre che chi salva vite in mare lo possa fare nel migliore dei modi.
12.681 sono le persone arrivate dal 1 maggio al 31 luglio su questo piccolo lembo di Sicilia. Nel mese di agosto sono arrivate a Lampedusa 5.579 persone. Di queste, 3.773 sono partite dalle coste tunisine mentre 1.804 dalla Libia. Moltissime quelle respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate in carceri infernali. Persone a cui vanno garantiti diritti, dignità, una possibilità di futuro.
Saremo a Lampedusa dunque – non solo in questi giorni ma tutti i giorni dell’anno – per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparci dei vivi. Donne, uomini, bambini e bambine che arrivano al molo, dopo giorni di navigazione in mare aperto. Ci guardano, spesso sembrano “morti viventi”, non ancora morti ma neanche pienamente vivi, de-umanizzati, camminano a stento.
Altre volte, con i loro sguardi, corpi dritti, affermano la loro determinazione, la resistenza alla violenza della frontiera, combattenti felici di avercela fatta. Sono sopravvissuti e sopravvissute, spesso all’orrore dei lager libici, altre volte allo sfruttamento delle risorse, altre ancora a crisi climatiche, politiche e democratiche di cui sappiamo sempre troppo poco.
Tutte queste riflessioni rientrano nel nostro impegno ecumenico, come chiese, ad essere dalla parte di chi è reso ultimo, a non voltare lo sguardo altrove, a dire che non sapevamo.
Alla commemorazione ecumenica in programma domenica 3 ottobre a Lampedusa sono intervenuti, tra altre voci, il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, a partire da un passo biblico: Deuteronomio 4, 9-14.
Il filo rosso di questo brano è la memoria, un tema biblico fondamentale: nella Bibbia la memoria fa diventare coloro che ricordano dei contemporanei di coloro che vissero gli avvenimenti ricordati. Annulla cioè in qualche modo la distanza e si struttura non solo una solidarietà ma anche una immedesimazione nell’altro, nell’altra.
Il riferimento al mantenere viva la memoria indica inoltre un aspetto educativo e di testimonianza, la volontà di raccontare, di lasciare un segno per chi verrà dopo di noi. Diceva giustamente Greta Thunberg in questi giorni che «è ora di dire basta al bla bla bla» per le politiche sul clima, così strettamente connesse anche ai flussi migratori. Siamo d’accordo, il tempo è ora, per coltivare memoria e costruire così anche un futuro più umano.
Su Corriere TV
«Se fossimo stati al loro posto, se avessimo avuto il potere di quelle barche che ci hanno illuminati e sono andate via, li avremmo salvati tutti. Perché sono andati via? Perché ci hanno lasciati annegare?« Sono un pugno nello stomaco le parole di Solomon Asefa, uno dei superstiti della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 che fece 368 morti accertati. Le ha raccolte in Svezia, insieme alle toccanti testimonianze di altri eritrei sopravvissuti al naufragio e di familiari delle vittime, la trasmissione d’inchiesta Spotlight dal titolo «3 ottobre. Il naufragio di Lampedusa ancora senza verità» di Valerio Cataldi e Raffaella Cosentino, in onda venerdì 1 ottobre alle 21.30 su RaiNews24. La loro è una precisa richiesta di verità. Dopo 8 anni sono ancora molti i punti oscuri e resta un fantasma una delle due barche che li ha avvistati prima che la barca si ribaltasse e non ha avvisato la guardia costiera. Spotlight ricostruisce la vicenda e le indagini con interviste a tutti i protagonisti, rivelazioni e documenti inediti, mentre sullo schermo scorrono le drammatiche testimonianze su ciò che accadde quella notte, a solo mezzo miglio dal porto di Lampedusa. Le voci dei superstiti sono affidate allo straordinario doppiaggio di Francesco Pannofino e Francesco Venditti e degli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola del Cinema, Daniele Gatti e Beniamino Presutti.
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Un articolo di Lorenzo Tondo su The Guardian
Gaspare, un pescatore di Sciacca in Sicilia, aveva salvato decine di migranti che tentavano di raggiungere l’Italia in barca dalla Libia quando le autorità italiane hanno minacciato di arrestare lui e il suo equipaggio per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
“Mi chiedo se anche uno dei nostri politici abbia mai sentito le grida disperate di aiuto in alto mare nel buio della notte”, ha detto nel 2019. “Mi chiedo cosa avrebbero fatto. Nessun essere umano – marinaio o no – si sarebbe allontanato”.
Le sue parole risuonano di nuovo nel momento in cui il ministro degli Interni del Regno Unito, Priti Patel, intensifica la sua campagna per rimandare indietro le barche che trasportano migranti attraverso la Manica.
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Immagine in evidenza di Gareth Fuller/PA
Su Centro Astalli
Il Centro Astalli raccoglie e fa suo l’appello di S.E. Mons. Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, nel chiedere a istituzioni nazionali e sovranazionali, di non perdere altro tempo.
Salvare chi rischia la vita in mare, in assenza di alternative legali per entrare in Europa, è dovere umanitario non derogabile. I dati del Ministero dell’Interno ci dicono che nel 2021 sono arrivati via mare in Italia 30mila migranti.
Padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, ribadisce: “La situazione del Mediterraneo va affrontata con tempestiva risolutezza e mettendo al centro diritti umani e dignità dei naufraghi. Si tratta di un numero che fa gridare all’emergenza e all’invasione solo chi fa della paura e della demagogia gli unici strumenti da usare nel dibattito politico e mediatico.
È necessario un nuovo patto sociale in cui autorità nazionali, enti locali e cittadini insieme decidano di porre fine all’ecatombe di uomini, donne e bambini in cerca di salvezza e accolgano in maniera diffusa in tutti i territori i migranti. In questo modo l’impatto che si avrebbe sulle comunità locali sarebbe minimo e non rappresenterebbe un onore o un’emergenza per nessuno”.
A cura dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni
Secondo un nuovo rapporto pubblicato dall’OIM, sono almeno 1.146 le persone che nei primi 6 mesi del 2021 hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. A oggi, quest’anno le morti lungo queste rotte sono più che raddoppiate rispetto allo stesso periodo del 2020, quando il numero noto dei migranti annegati era 513.
Il rapporto analizza la situazione in corso lungo alcune delle rotte migratorie marittime più pericolose del mondo. Mentre il numero di persone che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo è aumentato del 58% tra gennaio e giugno di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2020, più del doppio delle persone hanno perso la vita.
“L’OIM ribadisce l’invito agli Stati a prendere misure urgenti e proattive per ridurre le morti lungo le rotte migratorie marittime verso l’Europa e rispettare quelli che sono gli obblighi definiti dal diritto internazionale“, afferma il Direttore Generale dell’OIM António Vitorino. “Per raggiungere questo obiettivo occorre aumentare gli sforzi di ricerca e soccorso in mare (SAR), stabilire meccanismi di sbarco prevedibili e garantire l’accesso a canali migratori legali e sicuri.”
L’analisi, realizzata dal “Missing Migrants Project” presso il Global Migration Data Analysis Centre (GMDAC) dell’OIM, mostra come l’aumento dei decessi sia avvenuto in un periodo nel quale da una parte è stato registrato un insufficiente numero di operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e lungo la rotta atlantica, e dall’altro è stato osservato un aumento dei migranti intercettati in mare al largo della costa nordafricana.
La maggior parte degli uomini, donne e bambini che sono morti nel 2021 allo scopo di raggiungere l’Europa stavano tentando di attraversare il Mediterraneo. L’OIM ha registrato un numero totale di 896 morti per queste rotte.
Di queste, almeno 741 persone sono morte sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre 149 persone hanno perso la vita attraversando il Mediterraneo occidentale e 6 sono morte lungo la rotta del Mediterraneo orientale, nel tratto di mare che separala Turchia dalla Grecia.
Nello stesso periodo, circa 250 persone sono annegate tentando di raggiungere le isole Canarie in Spagna Lungo la rotta Atlantica. Tuttavia, queste potrebbero essere tutte stime per difetto. Centinaia di casi di naufragi invisibili sono stati segnalati da ONG che si sono messe in contatto diretto con le persone che lanciavano SOS a bordo dei barconi o con le loro famiglie. Questi casi, che sono estremamente difficili da verificare, indicano che il numero di morti possa essere molto più alte di quanto si pensi.
Un esempio di ciò risale al 24 marzo, quando Sohail Al Sagheer, un rapper algerino di 22 anni, è stato dichiarato disperso dopo essere partito con nove amici da Orano, in Algeria, per raggiungere la Spagna. I suoi famlliari hanno condotto un’affannosa ricerca di informazioni per scoprire cosa fosse successo, sconvolti dalla possibilità che potesse essere stato vittima di un naufragio avvenuto al largo di Almería, in Spagna. Il corpo senza vita del ragazzo è stato poi ritrovato il 5 aprile, al largo della costa di Aïn Témouchent, in Algeria.
Il rapporto dell’OIM mostra anche un aumento, per il secondo anno consecutivo, delle operazioni marittime degli stati nordafricani lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Più di 31.500 persone sono state intercettate o soccorse dalle autorità nordafricane nella prima metà del 2021, rispetto alle 23.117 dei primi sei mesi del 2020.
Le operazioni al largo della Tunisia sono aumentate del 90 per cento nei primi sei mesi del 2021 rispetto al 2020.
Inoltre, oltre 15.300 persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia nei primi sei mesi dell’anno, quasi tre volte di più rispetto allo stesso periodo del 2020 (5.476 persone). Questo è un dato preoccupante visto che i migranti che vengono riportati in Libia sono soggetti a detenzione arbitraria, estorsione, tortura.
Il rapporto evidenzia come ci siano ancora delle lacune nei dati relativi ai flussi migratori marittimi verso l’Europa. Dati migliori possono aiutare gli stati ad affrontare con urgenzagli impegni definiti dall’obiettivo 8 del Global Compact for Migration per “salvare vite e intraprendere sforzi internazionali coordinati sui migranti scomparsi“.
Il report completo qui
Foto in evidenza Organizzazione Internazionale per le migrazioni
Di Giulia Belardelli su HuffPost
Aumenta la conta dei morti nel Mediterraneo centrale, ma la rotta migratoria più letale del mondo resta un deserto senza soccorsi. Le navi delle ong sono quasi tutte ferme per procedimenti amministrativi e obblighi di quarantena. L’Unione europea si guarda bene dall’impegnarsi in operazioni di pattugliamento in acque internazionali. Quasi tutto il “lavoro sporco” è demandato alla Guardia costiera libica, che però nel caso dell’ultimo naufragio c’entra poco, perché il barchino affondato a sole 5 miglia da Lampedusa era partito dalla Tunisia e non dalla Libia, da cui in migliaia cercano di fuggire per essere ricacciati indietro. Storie di abusi, privazioni, viaggi impossibili che si consumano nell’indifferenza di un’Europa più che mai smaniosa d’estate e leggerezza, da anni abituata all’idea che il Mare nostrum sia, per altri, cimitero.
A Lampedusa l’ennesima tragedia suscita la rabbia del sindaco Totò Martello. “Non si vuole prendere coscienza di quello che succede nel Mediterraneo, non vale a nulla la solidarietà che, adesso, ci arriverà. Perché la solidarietà deve essere vera e concreta”. Sul molo Favarolo sono stati portati i cadaveri di sette donne, tra cui una incinta, ma i dispersi sono almeno nove, soprattutto bambini. L’imbarcazione era partita da Sfax, in Tunisia, con a bordo una sessantina di persone; tra le nazionalità segnalate Costa d’Avorio, Burkina Faso, Guinea e altre. Le donne ivoriane che arrivano dalla Tunisia, in particolare, sono spesso vittime di tratta sia a scopo sessuale sia a scopo di sfruttamento domestico, una doppia vulnerabilità che le accomuna alle nigeriane che giungono dalla Libia.
Quello che le organizzazioni competenti lamentano da tempo è l’assenza di un sistema di soccorso in acque internazionali, che assieme alla mancanza di vie legali per entrare in Ue rende il Mediterraneo un campo aperto per i trafficanti di esseri umani.
È per sopperire a questo vuoto che sono scese in mare le navi delle ong, il cui lavoro è però continuamente bloccato da fermi amministrativi o rallentato da misure anti-Covid. La Geo Barents, la nave con cui Medici Senza Frontiere è tornata in mare a metà maggio, si trova attualmente al porto di Augusta, con l’equipaggio in quarantena dal 19 giugno; oggi dovrebbe essere l’ultimo giorno. La Sea Watch 3 è in cantiere a Burriana, in Spagna, sotto fermo amministrativo del governo italiano che ha autorizzato il viaggio di sola andata. La Open Arms, partita da Pozzallo dopo una nuova ispezione il 25 giugno, è ora diretta in Spagna per cantiere. Sea Watch è in fermo amministrativo, così come Sea Eye 4. Mediterranea è in cantiere a Chioggia, mentre l’Aita Mari ha fatto ritorno in Spagna, senza aver fatto la quarantena. La Ocean Viking è partita domenica sera dal porto di Marsiglia: “i team a bordo – fa sapere la ong – stanno attualmente svolgendo una serie di esercitazioni prima di raggiungere il Mediterraneo centrale. Una volta arrivata nella zona delle operazioni sarà – purtroppo – l’unica nave di soccorso civile presente nell’area”.
Con l’avanzare dell’estate è lecito aspettarsi un aumento delle partenze, anche se fare previsioni è impossibile. Lo spiega ad HuffPost Flavio Di Giacomo, portavoce della Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) per il Mediterraneo. “Allo stato attuale, la situazione in Libia resta altamente frammentata. Sappiamo che ci sono circa 5mila migranti chiusi nei centri di detenzione: potrebbero rimanere sigillati lì o finire nelle mani di altri trafficanti. Il dramma di queste persone è che sono usate come arma sia all’esterno sia all’interno, dalle varie milizie e forze rivali. In Libia ci sono ancora tantissimi attori in lotta tra loro, non è come la Turchia che chiude o apre i rubinetti”.
L’aspetto importante da sottolineare – che rende ancora più drammatica la rinuncia europea a salvare vite in mare – è che non siamo di fronte a un’emergenza numerica in termini di arrivi, ma a a una gigantesca emergenza umanitaria. “Con il naufragio di oggi – afferma Di Giacomo – abbiamo probabilmente superato i 700 morti nel Mediterraneo centrale dall’inizio del 2021, contro i 240 dell’anno scorso. C’è un aumento degli arrivi rispetto allo scorso anno ma quando si parla di numeri in aumento si tende a fare un’analisi superficiale e restrittiva: non dobbiamo guardare gli ultimi due anni, segnati anche dalla pandemia, ma gli anni dal 2014 al 2017, quando arrivavano 150-180mila migranti all’anno. Per fare un paragone, a giugno del 2017 erano oltre 80mila i migranti arrivati in Italia nei primi sei mesi, ora siamo a 20mila. Si tratta di un numero abbastanza residuale rispetto a ciò che abbiamo visto in passato. Siamo invece nel pieno di un’emergenza umanitaria in cui le persone muoiono in mare in assenza di un sistema di soccorso in acque internazionali”.
È un appello che chi segue questi temi lancia ogni giorno: c’è un disperato bisogno di un sistema di pattugliamento europeo in acque internazionali, o quanto meno di un maggiore sostegno – e non il contrario – al lavoro delle Ong in mare. “Queste imbarcazioni sono sempre fatiscenti, basta un’onda alta per farle andare giù, cinque minuti possono fare la differenza tra la vita e la morte”, prosegue il portavoce IOM. “Il soccorso deve essere immediato, non si può aspettare che arrivino così vicino alle coste” o lasciarli morire dopo due giorni di SOS, come è stato il caso dei 130 annegati nel Canale di Sicilia ad aprile.
Quel che è certo è che la prima metà del 2021 ha dimostrato una volta per tutte che i migranti partono lo stesso, con o senza Ong. Partono perché i fattori di spinta (push) sono più forti dei fattori di attrazione (pull): dalla Libia non si può che scappare perché resta un posto pericoloso e non sicuro per chiunque, soprattutto per i migranti. Eppure, negli ultimi mesi le autorità italiane ed europee hanno sempre più demandato le operazioni di pattugliamento e soccorso alla Guardia costiera libica, aprendo così un altro fronte di emergenza umanitaria. Secondo l’IOM, quest’anno le motovedette di Tripoli hanno riportato indietro oltre 14mila persone, uomini donne e bambini che in molti casi finiscono in quell’inferno in terra che sono i centri di detenzione libici.
Notizie drammatiche arrivano anche dalla rotta che collega l’Africa occidentale alle Isole Canarie attraverso l’Oceano Atlantico. Una bambina di 5 anni trovata su un barcone alla deriva è morta nella notte mentre veniva trasportata d’urgenza in ospedale da un elicottero dell’esercito spagnolo. Dall’inizio dell’anno in Spagna sono arrivate 6.700 persone dalla rotta atlantica e 5.200 sul territorio spagnolo. Sulla rotta atlantica, dall’inizio dell’anno, sono morte 130 persone. In generale, la rotta più pericolosa e letale del mondo resta quella del Mediterraneo centrale. Dal 2014, anno in cui l’IOM ha iniziato a contare i morti nel Mediterraneo, lungo la rotta centrale sono morte 18mila persone; in tutto il Mediterraneo siamo sulle 23.600.
Sono questi i numeri che dovrebbero smuovere l’Ue, non la paura di un’invasione che non c’è. “C’è una tendenza a creare un allarme sui numeri, ma un continente con 450 milioni di persone non può spaventarsi per 20 o 30mila persone”, osserva Di Giacomo. “In Italia parliamo dello 0,033% della popolazione, è evidente che sono numeri gestibili”. Agli occhi dell’opinione pubblica, l’emergenza umanitaria è sempre più sbiadita; i nostri sistemi anestetizzati registrano l’ennesima tragedia, per cancellarla subito dopo. “Mancano proposte e soluzioni per bloccare i trafficanti”, conclude il portavoce IOM. “Mancano canali regolari per rifugiati e migranti in cerca di lavoro; praticamente non ci sono più vie legali per entrare in Italia. Se si tolgono le vie legali, è chiaro che ad approfittarne sarà sempre la criminalità organizzata”. Come è cronaca di queste ore, ancora, nel paradiso-inferno di Lampedusa.
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