Di Federico Faloppa
Un colpo al cerchio, un colpo alla botte. E – nel dubbio – due colpi in testa ai profughi: ché tanto non possono reagire.
Un editoriale, a firma di Cesare Martinetti su La Stampa di sabato. E una vignetta di Giannelli, sul Corriere, sempre di sabato. A ricordarci che quando si trattano certi argomenti l’informazione non solo è carente, parziale, e – paradossalmente – poco informativa. Ma – quando va bene – è cerchiobottista. E – quando va male, e va sempre peggio a giudicare da ciò che si legge in giro – è manipolatrice.
Cominciamo dall’editoriale di Martinetti «Profughi: il grande assente è lo stato». Che, tanto per (ri)suonare un vecchio disco, di fronte agli scontri di Casale San Nicola, accusa lo Stato di non esserci. Di aver abbandonato i suoi cittadini. E quindi in qualche modo giustifica la “rabbia” (così è definita nel sottotitolo) degli abitanti di quella zona a 25 chilometri dal centro di Roma. Ora: ovviamente bisognava esserci, lì in mezzo, per capire veramente ciò che è successo. Ma tutte le fonti sembrano concordi nel dire che una cinquantina di militanti di Casa Pound, assecondati da un numero imprecisato di abitanti del luogo, si è scontrato con le forze dell’ordine per impedire l’arrivo di diciannove “migranti” provenienti da Gambia, Nigeria, Bangladesh e traferiti qui da una struttura di via Tiburtina. Questa la notizia, quindi: una cinquantina di teppisti organizzati – così li definiremmo, mica attivisti politici, se gli scontri fossero avvenuti davanti a una discoteca, a uno stadio – assale la polizia per impedire che i “migranti” scendano dal pullman che li ha portati fin lì. E gli abitanti del luogo? Dall’editoriale de La Stampa si ricava poco su di loro. Sono presentati come un insieme compatto, contrario all’accoglienza di quelle diciannove persone. Ma chi sono? Non è dato saperlo. Non è dato sapere la loro provenienza sociale (ci vengono presentati come impauriti e impoveriti, nel classico schema della “guerra fra poveri”, ma chissà…), il modo in cui si sarebbero auto-organizzati, il perché ce l’abbiano tanto con i nuovi arrivati (quali paure hanno? Si può capire dall’articolo se siano giustificate, queste paure?). Quale che sia la loro composizione, per l’editorialista de La Stampa vanno comunque compresi: perché abbandonati dallo Stato. Che va sempre bene additare a responsabile di tutto, in una – ritrita, stantia – visione dicotomica Stato (astratto, lontano, che impone scelte discutibili sul territorio) vs cittadini (reali, legati a un territorio, naturalmente dotati di diritti e ragioni legittime). Come se quei cittadini non fossero anche loro “Stato”: non avessero anche loro responsabilità nei confronti dello Stato. E ancora: che cos’è Casale San Nicola? Qual è la storia della sua urbanizzazione? Come è nata quell’ostilità nei confronti dei diciannove migranti? Ma lasciamo perdere. Meglio parlare di assenza dello Stato senza fare – e farsi – troppe domande. I vecchi dischi d’altronde, anche se consumati, rassicurano e suonano familiari, a prescindere. E continuiamo nella lettura dell’editoriale. Che non è solo viziato da omissioni, ma è anche privo di uno scatto, un giudizio netto su quanto accaduto: che ci vorrebbe, tuttavia, a dire che Casa Pound ha agito nella completa illegalità? A dire che la loro violenza fascista è stata illegittima, certamente più dell’assenza dello Stato?
Ma no: meglio non farsi nemici, meglio non schierarsi. Meglio prendersela in astratto con lo Stato – che, proprio in quanto “astratto”, non può neppure rispondere alle accuse – che fare nomi e cognomi dei responsabili di un pomeriggio di pura guerriglia; che dire che è intollerabile che Casa Pound sia libera di organizzare azioni violente come e quando vuole; che si è trattato di un atto di intolleranza pretestuoso e quindi non giustificabile.
D’altronde, c’è di peggio. La cautela di quell’editoriale lascia il posto all’incomprensibile satira di Giannelli sul Corriere. Che con una vignetta a dir poco ambigua lascia intuire che le nostre abitazioni siano a rischio di invasione da parte dei rifugiati. Della serie: cari lettori, sapete che cosa avete lasciato partendo per le vacanze, ma non sapete che cosa troverete al ritorno. Attenti: forse nel vostro salotto troverete accampati un gruppo di rifugiati, chi può dirlo… È divertente questa provocazione? Qual è il suo obiettivo? Mettere alla berlina le paure degli italiani (ma l’operazione non sembra affatto riuscita)? Far sollevare un polverone per far vendere qualche copia in più (e qui l’operazione parrebbe più riuscita).
A me pare che si tratti, semplicemente, di cattivo gusto. La vignetta poggia su un paradosso, ma – paradossalmente – riesce a rendere credibile l’incredibile: che l’invasione arriverà addirittura dentro le nostre case (ma quando mai, su! Quando mai c’è stata e ci sarà violazione di proprietà privata da parte di uno solo rifugiato?!). Volente o nolente, rischia di gettare benzina sul fuoco, in giorni in cui i fuochi veri divampano già (come a Treviso). E riesce ad alimentare panico e paure già abbondantemente alimentati da attori politici in cerca di facile consenso anche sulla pelle dei rifugiati. Fa cadere le braccia, insomma, per l’incredulità di essere arrivati tanto in basso. Non è neppure caustica: è solo noiosa nel ripetere un mantra che sulle colonne di un quotidiano come il Corriere dovrebbe essere, perlomeno, accolto col beneficio del dubbio. E a questo proposito c’è da chiedersi se i caporedattori che hanno dato il via libera alla vignetta di Giannelli non potessero pensarci un attimo: pensare, dico, tanto all’efficacia quanto all’opportunità di pubblicare quel messaggio, dato il momento, piuttosto esplosivo, che si sta vivendo. Un momento in cui, forse, tentare di ridurre le preoccupanti fratture sociali con un colpo (mal assestato) di satira – e beato chi è riuscito a ridere, sabato, sfogliando il Corriere! – non fa che rendere ancora più drammatico il quadro.
Forse, da lettori, è ora di pretendere qualcosa in più. Di dire: si è forse passato il limite con questa montagna di grossolanità, facilonerie, manipolazioni. Di far sentire ai direttori/redattori dei più importanti mezzi di informazione non solo l’indignazione isolata e individuale di ciascuno, che ahinoi lascia il tempo che trova, ma anche una lucida presa di posizione collettiva: cominciando a stare col fiato sul collo a chi fa (pessima) informazione, a chi ricorre alle solite solfe, a chi propina vecchie retoriche e nuove reticenze. A chi non dovrebbe affrontare la complessità con l’arma dell’inchiesta, dell’approfondimento, del rigore intellettuale. Magari – che so – indagando sul serio sul modo in cui viene gestita l’accoglienza dei profughi in questo paese; denunciando chi continua a lucrare sulla pelle delle persone; contestualizzando e quindi dando – invece – risalto alle tante esperienze virtuose di accoglienza: laddove i cittadini – come in Sicilia, come in tanti comuni della Toscana – si organizzano non solo per manifestare solidarietà, ma per rendere meno dure le condizioni materiali di vita dei profughi in questa torrida estate italiana. Facendo così capire che le mobilitazioni di Casa Pound non sono (né dovranno essere) la regola, ma l’esecrabile eccezione.
A gettare benzina sul fuoco non ci vuole nulla: sono capaci tutti, anche l’ultimo bullo di quartiere. A spegnere un incendio, invece, ci vogliono coraggio e competenza. Qualità che purtroppo, a volte, sembrano mancare nelle redazioni di molti dei nostri media.
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